23
Nov
2006

2001: Odissea nello spazio

Si tratta del primo capitolo dell’ipotetico volume su Kubrick. Come già spiegato nell’introduzione (“Stanley Kubrick e il Settecento).), l’intenzione era quella di ripercorrere la filmografia kubrickiana da “2001….” ad “Eyes wide shut”, per poi, alla luce di questa seconda parte della carriera del regista, ripercorrerne la filmografia precedente, interpretata come preparazione alla tematica centrale del “potere”.

 

L’alba dell’uomo

L’incipit di 2001:Odissea nello spazio rappresenta, dal punto di vista del presente saggio, forse la summa del cinema di Kubrick; questi straordinari dodici minuti, proprio perché affrontano il problema dell’origine dell’uomo, chiariscono in modo emblematico la posizione di Kubrick sulla condizione umana. Ovviamente, l’ipotesi di lettura da me avanzata può essere accettata solo nel momento in cui trovasse conferma sia nella parte successiva del film, sia nel proseguio della filmografia kubrickiana.

La condizione primitiva degli ominidi ivi raffigurati ci permette di considerare la motivazione di una serie di comportamenti umani, che poi appariranno, in una situazione più articolata, in altri contesti, nello stesso film e in quelli successivi. La stessa relazione passato/presente/futuro che il film intende rimarcare dà credito all’interpretazione qui sostenuta: l’alba dell’uomo è il contesto privilegiato dove esaminare la particolarità della natura umana, per cogliere quelle motivazioni dell’agire in grado, successivamente, di fare comprendere le particolari modalità dello sviluppo storico.

Prima ancora di esaminare le immagini riguardanti questi ominidi, si deve prestare attenzione alla prima figura del film, una vera e propria icona; tre pianeti, disposti in posizione prospettica e, come sottofondo musicale, l’inizio (anche in questo caso un incipit indimenticabile) della composizione Also sprach Zarathustra di Richard Strauss. Non si tratta affatto di introdurre lo spettatore in una semplice atmosfera fantascientifica e, quindi, di fargli prefigurare il tema delle esplorazioni spaziali, che coinvolgono la parte di più lunga durata del film. La visione prospettica sembra invece suggerire una progressione, uno sguardo che deve sempre più avanzare per padroneggiare a fondo l’ambiente; anche la musica contiene questo incedere progressivo, con diversi rilanci, che possiamo anche associare alle quattro parti di cui è costituito il film. L’inquadratura diventa quindi riassuntiva dell’intera opera, permette di entrare nell’ottica progressiva della pellicola, suggerisce di proiettare queste immagini iniziali nelle vicende successive della storia, in modo da fornire una interpretazione della realtà che conosce diverse fasi di sviluppo ma che – ed è pure una caratteristica di questa prima immagine – è anche fortemente statica.

L’intento riassuntivo di questa prima immagine è spiegato dal fatto che tale inquadratura, compresa la musica che la accompagna – tornerà più volte nel corso del film, a rimarcare le situazioni più significative; è un chiaro invito rivolto allo spettatore a distaccarsi dall’immediatezza degli eventi che stanno accadendo sotto i suoi occhi. Si tratta in altre parole di assumere e memorizzare il valore simbolico dell’immagine per reinvestirlo in altri momenti della vicenda, cronologicamente assai distanti dalle prime scene ma in grado, grazie a questo esplicito riferimento, di caricarli di senso.

Le prime immagini, fisse, prolungate qualche secondo, sono paesaggi primitivi; è l’alba, come suggerisce lo stessa scritta in sovrimpressione, e non compare per il momento alcuna forma vivente. E’ l’inizio comunque di un nuovo giorno; altre albe vedremo in pochi minuti, a scandire il procedere del tempo e il realizzarsi della evoluzione. Quasi come i giorni della creazione, ogni nuovo sorgere del sole porta dei mutamenti irreversibili, tesi a determinare il futuro del pianeta secondo precise direzioni.

Le inquadrature procedono fedeli a una lentezza con cui si assapora l’origine di un’esperienza; con gradualità si giunge dai paesaggi deserti ai viventi: prima ampi spazi, il cui orizzonte è segnato dal rossore dell’albeggiare; quindi rocce, pietre, cavità: luoghi determinati che possono essere abitabili, che sembrano quasi voler accogliere o proteggere la creatura. Vedremo infatti che il tema della debolezza creaturale è al centro di questa prima parte: la debolezza di fronte all’ambiente, nei confronti degli altri esseri viventi, verso i propri simili. Il bisogno di protezione, di soddisfazione dei propri bisogni sono i temi suggeriti da ogni immagine e rappresentano il motore dello sviluppo che interesserà questi ominidi, fino a padroneggiare l’uso della forza e a controllare l’aggressività.

La comparsa successiva degli ominidi conforta questa lettura: seduti schiena contro schiena e intenti a cibarsi di foglie. La posizione indica da una parte l’individualità di un’esistenza mossa solo dalla necessità di soddisfare bisogni fondamentali e quindi tesa all’autosostentamento egoistico, dall’altra il bisogno di stare in comunità per contrapporsi alla debolezza sperimentata nei confronti dell’ambiente circostante.

Lo stacco successivo propone l’immagine di un quadrupede, un erbivoro Questa associazione possiede un profondo significato; il bovino mangia insieme all’uomo lo stesso cibo. E’ una vita comunitaria, tra due esseri simili che si spartiscono risorse facili da avere, dove non c’è bisogno di una particolare competitività. E’ una immagine che accomuna due creature deboli, facile preda della aggressività dei carnivori; non c’è ancora fra le due specie distacco evolutivo, nell’ominide non è presente ancora quella coscienza raziocinante in grado di trasformarlo in un essere maggiormente dotato. Certo, già in questa scena emerge la competitività fra i viventi, con deboli tentativi da parte degli ominidi di allontanare con urla aggressive gli animali che contendono loro il cibo. Ma tale parvenza di aggressività è inefficace, è un nulla rispetto a quanto propostoci nello stacco successivo, dove un felino assalta un mammifero e lo uccide.

In queste prime brevi immagine le gerarchie fra gli esseri sono definite e immutabili; dipendono dai rapporti di forza e l’unica possibilità di non soccombere sta nella superiorità del numero e nell’appartenere a una comunità. Kubrick comunica allo spettatore, con una lunga pausa che oscura lo schermo, la conclusione di questa prima significativa considerazione.

I successivi quadri sembrano replicare le osservazioni delle prime immagini, aggiungendo però alcuni elementi nuovi, in grado di ribadire con maggiore precisione la tesi già espressa. Gli ominidi sono radunati in gruppo intorno a una pozza d’acqua; in questo caso il tema del cibo e della sopravvivenza sembra accostarsi a quello della scarsità delle risorse; mentre nell’esempio precedente poteva esserci convivenza pacifica con gli altri animali, in questo caso il fatto che sia in gioco la propria stessa sopravvivenza determina un surplus di aggressività. Che gli ominidi formino due gruppi riconoscibili e che siano in forte contrasto per l’accesso a questa pozza d’acqua è evidente dalle immagini del film; così come risulta evidente il fatto che i tentativi di intimorire il concorrente sono nettamente più vistosi delle semplici grida contro gli erbivori. Eppure anche in questo caso la lotta non porta a dei risultati, lo scontro non avviene, pur essendosi creata un’atmosfera di forte tensione.

L’inquadratura successiva mostra ancora un felino con la sua vittima, una zebra; in questo caso il regista evita di farci vedere l’azione aggressiva. Il risultato dell’azione di forza dell’animale sulla sua preda è sotto i nostri occhi; eppure la forza dell’immagine sta proprio in questa crudele tranquillità, nella quale l’animale si gode il proprio pasto. In relazione all’inutile aggressività degli ominidi poc’anzi mostrata, la determinazione del felino ribadisce l’intrinseca debolezza di questi esseri.

La scena successiva è all’interno di una caverna e ritrae gli ominidi che trascorrono in gruppo la notte. Kubrick non sembra affatto propendere per la visione aristotelica dell’uomo come naturalmente portato a socializzare. I gruppi fitti di ominidi appaiono giustificati più dalla necessità di scaldarsi reciprocamente e di trovare nella comunità un mondo di opporsi a un eventuale aggressore, piuttosto che dall’esigenza di vivere in modo organizzato. Emergono rivalità, le solite sterili e inutili minacce fra i diversi individui, mai concretizzate in un’azione concreta di ribellione. Sembra essere una comunità non gerarchica, dove l’assenza di gerarchia indica però l’assenza di organizzazione, incapacità di progettare il vivere comunitario per realizzare un miglioramento delle proprie condizioni di vita. Fra queste vi è l’immagine di un nucleo famigliare, con due adulti tesi a proteggere il loro piccolo, a confermare la logica della socialità fin qui descritta.

Al risveglio delle scimmie avviene il fatto decisivo, la scena culminante probabilmente di tutto il film. Il carattere centrale di questa sequenza è già presupposto dalla scelta della composizione di György Ligeti, che introduce un clima metafisico teso tutto a farci comprendere il valore simbolico dell’evento, destinato a cambiare il ritmo della diegesi, sino ad allora piuttosto regolare. Il mutamento decisivo che si realizza nel modo di vivere di questo gruppo di ominidi a partire da questo momento non possiede una causa razionale o naturale; va inteso unicamente quale conseguenza di questo decisivo evento simbolico.

Il risveglio è improvviso; nel gruppo di ominidi serpeggia una evidente e irrefrenabile eccitazione. La causa è un monolito apparso improvvisamente nel paesaggio pietroso, in prossimità del rifugio. Kubrick accentua volutamente l’innaturalità della scena, proponendo un contrasto assoluto tra lo scabro ambiente roccioso e primitivo e la levigatezza, l’artificiosità di questo perfetto parallelepipedo. Gli ominidi, inizialmente spaventati, si avvicinano con timore e circospezione all’oggetto, vincendone a poco a poco la diffidenza. Gesti semplici, naturali, che illustrano però un progresso di conoscenza, una sorta di iniziazione dagli esiti decisivi.

La figura del monolito, il suo carattere enigmatico, diventa fondamentale per tutto il cinema di Kubrick. Non solo in questo film, nel quale il ruolo centrale ricoperto dalla figura è evidente, ricomparendo nelle diverse parti in cui l’opera si compone. Ma in tutta la filmografia di Kubrick l’enigma costituito dal monolito tende a ripresentarsi, diventando una sorta di ossessione su cui si concentreranno tutte le opere future. Il modo in cui compare nelle diverse sequenze di 2001 è quindi di estrema rilevanza per comprendere altri fondamentali passaggi dei films successivi.

Un’impressione superficiale potrebbe condurre a identificare il monolito con la facoltà razionale, la ragione sia teoretica sia strumentale che permette all’uomo di far fronte alla sua debolezza creaturale, a padroneggiare l’ambiente circostante e, quindi, a dare inizio alla storia, realizzando così uno stacco verso i propri antenati che è sconosciuto a qualsiasi altra specie vivente. Il procedere del film, però, complica sensibilmente questa lettura, non del tutto infondata ma che rimane alla superficie della condizione umana; è difficile stabilire, innanzitutto, se il monolito – così come Kubrick lo introduce – comporta una modifica positiva o negativa per il genere umano.

Prima di proseguire con l’analisi delle scene successive, è importante notare come al culmine della sequenza del monolito, quando gli ominidi si sono parzialmente rassicurati e sembra realizzarsi la “trasmissione di conoscenza”, Kubrick propone un’inquadratura che replica quella iniziale: ovvero il monolito è mostrato dall’alto in basso in prospettiva con i pianeti. Anche in questo caso le interpretazioni possono essere molteplici: l’inquadratura potrebbe significare, molto prosaicamente, che la scintilla razionale capace di dare avvio all’avventura dell’uomo sia venuta da intelligenze esterne, da una vita precedente nell’universo. Io propendo per una interpretazione più attenta all’aspetto simbolico: sicuramente la scena si propone come una illuminazione e il dono dell’intelligenza non è, di conseguenza, un adattamento evolutivo all’ambiente ma qualcosa ricevuto da fuori di sé. L’immagine prospettica ha però senso solo se messa in relazione con l’intero film: la prima inquadratura, infatti, propone un significato che non è solo relativo alla parte intitolata “L’alba dell’uomo”, ma vuole tendersi verso l’intero percorso dell’opera. Inizia dunque un processo che proseguirà nelle successive quattro tappe del film; il regista, ripresentando l’icona iniziale, intende allora richiamare su questo aspetto l’attenzione dello spettatore, ponendolo in una condizione di attesa.
E’ di nuovo l’alba: ma il nuovo giorno che inizia è destinato, dopo l’apparizione del monolito, a recare mutamenti straordinari. In questa parte del film si colloca quella scena, esaltante, in cui l’ominide conquista la competenza strumentale, ovvero intende lo strumento come proseguimento e potenziamento dei propri organi. Ha inizio dunque quel processo evolutivo teso a contrastare la propria inferiorità ontologica, a mettere in crisi, se non la stessa debolezza creaturale, almeno la palese inferiorità rispetto agli altri esseri viventi. La scena anche in questo caso ha un carattere progressivo, possiede cioè una tensione ascendente tale da rendere credibile in una sequenza breve un’evoluzione decisiva: l’ominide compie pochi gesti casuali, oziosi, pigri, volti probabilmente a combattere quella noia conosciuta da un essere primitivo quando, soddisfatti i bisogni fondamentali, non riesce a trovare un modo per scaricare la propria energia. Questo atteggiamento ozioso si carica anche dello spirito del gioco, nel momento in cui la scimmia constata la successione di movimenti che un suo gesto è in grado di produrre.
Si tratta però di gesti molto semplici, in sé privi di significato; non dissimili da altri che abbiamo già visto fare dagli ominidi nelle scene precedenti, e che erano simbolo della loro debole posizione gerarchica tra gli esseri naturali. Dopo l’apparizione del monolito, però l’ominide, il cui sguardo sembra avere ora una lucidità prima sconosciuta, riesce a intendere il senso e la connessione dei propri movimenti. Pochi gesti, e l’azione involontaria si trasforma in azione cosciente.

A questo punto accade qualcosa di straordinario: dallo spirito del gioco si passa alla comprensione utilitaristica del gesto; si ha cioè la consapevolezza di un’acquisizione di forza. Questo comporta che il progresso manifestatosi sotto i nostri occhi non è solo quello strumentale, invero molto semplice; ma è l’inizio di uno sviluppo intellettuale che non avrà più fine, destinato – come ci mostrerà l’immagine conclusiva di questa prima parte – a trasformare quelle ossa in astronavi. Ad indicare la crucialità di questo evento fondatore del progresso e della storia – rappresenta infatti il concetto di progresso, l’inizio di tutti i progressi – vi è una scelta registica decisiva: il riproporre l’inizio della composizione di Strauss. Un doppio segnale dunque, di carattere iconografico e musicale, che colloca la sequenza come centrale di tutta la prima parte, riassuntiva di quanto abbiamo finora visto e, contemporaneamente, produttrice degli eventi che seguiranno. Che la competenza strumentale voglia dire dominio, salto nella gerarchia fra gli esseri e possibilità di esercitare il potere, lo capiamo dal fatto che, in questa sequenza, suggestionati dalla musica di Strauss, vediamo, attraverso un montaggio serrato, l’immagine del quadrupede che stramazza al suolo, colpito da una violenza finalmente esercitata scientemente. L’esaltazione di cui è preda l’ominide sta nella consapevolezza ormai acquisita che l’abilità guadagnata in quell’istante gli permetterà di vantare una superiorità assoluta sugli altri viventi; di eguagliare i felini, per esempio, in quanto potrà contendere loro le stesse prede; ma forse anche superarli, poiché la superiore posizione nella gerarchia naturale non è guadagnata attraverso doti fisiche particolari, ma grazie all’applicazione dell’intelligenza sulla materia; di conseguenza, tale conquista appare come continuamente perfezionabile e in divenire.

L’ominide consapevole della propria capacità intellettuale e strumentale è ormai l’uomo compiuto; di conseguenza, questa figura euforica, che assume addirittura una postura plastica, non è solo l’ominide che, successivamente, sarà in grado finalmente di avere ragione dei suoi simili e di porre la propria autorità sia sul gruppo sia sulle risorse necessarie alla sopravvivenza. Ma è anche l’uomo protagonista degli episodi successivi, in grado di esplorare lo spazio ma che – come vedremo –ancora non ha risolto il rapporto con la propria natura pulsionale.

Realizzatosi l’evento, possiamo finalmente apprezzarne tutti gli effetti all’interno di quella comunità primitiva. Una nuova alba, una nuova tappa sulla via del progresso; da questo momento il tempo è diventato storia. Appare immediatamente la prima novità significativa: gli ominidi sono diventati carnivori e, nell’atto stesso del cibarsi, manifestano un atteggiamento aggressivo senz’altro più credibile delle deboli reazioni esaminate all’inizio. Gli erbivori continuano a pascolare vicino agli ominidi, ma la sensazione è profondamente diversa da quella delle immagini iniziali; non si tratta più di convivenza, non c’è più la divisione o la rivalità rispetto a risorse comuni. L’impressione è invece quella dell’addomesticamento, della cosciente tolleranza vicino a sé di un essere meno dotato, che rappresenta però un utile risorsa.

In questa brevi sequenze finali della prima parte del film, Kubrick ripropone situazioni già viste all’inizio, con l’intento di farci comprendere la variazione avvenuta dopo la comparsa del monolito. Rivediamo quindi gli ominidi all’interno della caverna: in primo piano un muso sporco di sangue che stralcia compiaciuto pezzi di carne cruda di una fiera; il cucciolo, non più in mezzo a due genitori dall’aspetto timoroso, ma intento a trastullarsi con le ossa di una preda.

Si può allora giungere alla scena conclusiva, che fornisce spessore e significato a tutte le sequenze precedenti; anche in questo caso viene riproposta una situazione già vista: lo scontro fra due gruppi di ominidi per il controllo della pozza d’acqua. In questo caso l’aggressività mostrata dai diversi individui non si esaurirà nell’impossibilità di concretizzare attraverso la forza la propria intenzione violenta: uno dei due gruppi di ominidi non ha ancora compiuto quel salto intellettuale oggetto delle immagini precedenti, per cui i suoi membri tendono ancora a mostrare i vani gesti di dissuasione. Alla vista dell’ominide con l’osso a mo’ di arma nella mano destra, lo spettatore già sa che l’esito di una simile contesa non può replicare quello precedente.

L’ominide più debole viene colpito e soccombe. E’ bene però esaminare nei particolari quest’ultima sequenza, determinante per interpretare il resto del film, ma anche tutta la successiva filmografia di Kubrick. La scimmia che realizza quello che, nell’ottica del film, rappresenta il primo assassinio della storia umana mostra, ad atto compiuto, un’euforia pari a quando aveva scoperto le potenzialità delle ossa utilizzate come armi. L’entusiasmo la porta a scagliare verso il cielo l’arma che ha sancito la sua superiorità, pretesto per Kubrick per proporre la trasformazione della medesima arma in astronave e dare inizio alla seconda parte della pellicola.

Come ho già accennato sopra, è facile intendere questa trasformazione come la prova che il monolito rappresenta un simbolo di progresso, la razionalità umana finalmente raggiunta che permette alla specie di imporre il suo dominio sul pianeta e, in un futuro non tanto remoto, sull’intero universo. La lunga sequenza successiva, con la danza dell’astronave nello spazio in sintonia con la composizione di Joahnnes Strauss An schöner blaue Donau, sembrerebbe confermarlo, esaltando la plasticità e l’eleganza di questo straordinario prodotto dell’ingegno umano e mostrando, dunque, quanto ha potuto svilupparsi quel primo impulso dell’intelligenza dell’uomo, migliorando sensibilmente le sue condizioni di vita. Eppure – ed è questione che il film nel suo procedere pone con molta determinazione – bisogna chiedersi qual è il prezzo di tale superiorità.

Si può abbozzare una risposta proprio valutando quei brevi secondi successivi all’uccisione dell’ominide: innanzitutto c’è lo stupore del gruppo sconfitto, la percezione di un elemento nuovo non previsto teso a sancire l’impotenza e l’inferiorità del gruppo. Il rapporto di forza diseguale è dunque destinato a fondare la relazione di potere: non c’è dubbio che tale manifestazione iniziale di forza costringerà il gruppo sconfitto alla sottomissione. Viene presentata qui in modo sublime la figura hegeliana del servo – padrone: per non essere uccisi è necessaria la sottomissione e, di conseguenza, i rapporti tra gli uomini, sulla base di quelle che sono le relazioni imposte dalla natura, non può che prevedere l’uso trattenuto della forza, teso però a concretizzarsi non appena gli equilibri imposti da chi la forza la detiene vengono contestati. Kubrick sembra dunque condividere quella visione pessimistica sulla natura umana che da Platone, ad Hobbes, ad Hegel, fino a Schopenhauer e Freud, è stata proposta dalla cultura occidentale (ovviamente contrastata da visioni opposte, di derivazione aristotelica). Preferiamo però citare Hegel perché il filosofo tedesco, nella Fenomenologia dello Spirito, fornisce una spiegazione sulle cause profonde, antropologiche, in base alle quali i rapporti tra i simili non possono, in una situazione primitiva, esprimersi se non attraverso la sottomissione e, quindi, l’appropriazione del lavoro altrui.

A differenza di Kubrick però, Hegel presentava un’evoluzione dialettica della stessa figura, grazie alla quale l’umanità intera riusciva a superare i propri limiti antropologici e, attraverso l’introduzione del diritto, organizzava una comunità civile capace di conciliare, attraverso le leggi, i conflitti scaturiti dai diversi bisogni individuali. Vedremo invece che 2001: Odissea nello spazio proietta questa negativa situazione iniziale sul futuro; il progresso tecnico, come quello politico e culturale, non ha portato l’umanità a emanciparsi, per quanto riguarda le relazioni umane, dai rapporti di forza.

Da questo punto di vista, la reazione dell’ominide vittoriosa è altrettanto significativa: la sua esaltazione, che culmina con il lancio dell’osso – arma, non si giustifica in base alla semplice vittoria riportata sul proprio simile e alla conquista dunque di una posizione privilegiata rispetto alla risorsa contesa fra i due gruppi. E’ l’esaltazione invece di chi diventa conscio della propria superiorità, di chi comprende di avere raggiunto una posizione di potere, in grado di fargli dominare i propri simili al punto da annientarli. Il potere rappresenta la possibilità di uccidere gli altri senza doverne rendere conto, è la possibilità, dunque, di essere padroni dei corpi degli altri. Riflessione che Kubrick aveva già più volte offerto al pubblico (in particolare in Orizzonti di gloria), e che troverà straordinaria conferma nei films successivi (Arancia meccanica, Full Metall Jacket,Eyes wide shut).

In pratica, secondo questa lettura, Kubrick non ha affatto voluto, nella prima parte del film, tessere le lodi del progresso umano, ma stabilire l’atto di origine del potere; ha in quindi introdotto l’argomento in assoluto più rilevante di tutta la sua filmografia, già ampiamente articolata nelle opere precedenti, e qui scavata nelle sue motivazioni più profonde. Ma, soprattutto, in 2001: Odissea nello spazio la tematica del potere si incontra per la prima volta con la riflessione sul Settecento

Clavius

Nella lunga sequenza commentata dal più conosciuto valzer di Strass, Kubrick sembra voler produrre nel pubblico una reazione rassicurante. Queste astronavi dalle splendide forme volteggiano in modo armonico nello spazio, con movenze di danza. Si è realizzato il dominio delle inestimabili distanze spaziali, laddove vediamo proprio questi corpi spostarsi con sicurezza tra i diversi pianeti. La visione prospettica iniziale, che sembrava indicare un percorso e una lunghezza inconcepibili per le capacità umane – e che dunque rimandava, nella sua impraticabilità, alla dimensione della trascendenza – appare in questa sequenza dominata dall’ingegno dell’uomo. Anche le scene interne all’astronave, che mostrano momenti della vita di bordo, sembrano confermare questa impressione; tali sequenze saranno ripetute in questa parte del film. L’attenzione del regista è troppo insistita su questi momenti di vita nell’astronave perché essi possiedano un valore unicamente di raccordo.

Innanzitutto, in queste diverse scene ci vengono mostrati particolari diversi che tendono sempre più ad arricchire l’informazione dello spettatore; di conseguenza, l’accumulo e la reiterazione – che presenta in ogni caso delle variazioni – producono una riflessione sul progresso tecnico dell’uomo che va a precisarsi, ad articolarsi e modificarsi rispetto alla valutazione iniziale. In questa prima parte, pare veramente che l’astronave sia solo un prolungamento in positivo dell’osso trasformato in arma dagli ominidi; Kubrick in fondo non fa altro che riproporre la normale esperienza di un viaggio aereo, con i suoi vari confort, concependo variazioni atte a rendere conto del progresso tecnologico più avanzato, con le necessarie contestualizzazioni in un ipotetico futuro. Da questo punto di vista, è emblematica la scena di Floyd dormiente con la sua penna che naviga dello spazio e il successivo intervento della hostess che la riaccomoda nel taschino utilizzando speciali calzature anti gravità: si tratta di una normale situazione di viaggio aereo con ulteriori innovazioni suggerita dalla dimensione temporale (decenni più in là del tempo presente) e dalla diversa collocazione spaziale (lo spazio tra i pianeti).

Non c’è dubbio che Kubrick voglia portarci su una strada apparentemente ottimistica e rassicurante, per poi smentirla con le sequenze seguenti, più inquietanti. Il regista gioca probabilmente con il particolare momento storico durante il quale viene girato il film: l’inizio delle spedizioni Apollo, la conquista della luna ormai imminente, ma il suo non è – come vedremo – per nulla un atteggiamento apologetico.

Anche le scene immediatamente seguenti l’arrivo sulla luna ormai stabilmente colonizzata dall’uomo si situano sulla stessa lunghezza d’onda, in particolare la scena dell’identificazione vocale e quella della conversazione telefonica con la bambina. E’ probabile che, proprio in questa conversazione, la richiesta della figlia di Floyd di una scimmietta quale regalo per il suo imminente compleanno intenda richiamare la prima parte del film e sottolineare lo scarto realizzatosi – pur nella continuità evolutiva – tra la specie umana e le sue origini animali.

La scena successiva, cruciale, da una parte si collega alla prima nel clima di aperta cordialità instauratosi tra Floyd e i colleghi sovietici, dall’altra ha la funzione, proprio in seguito all’andamento della conversazione, di mettere in crisi definitiva questa illusione di sicurezza per riproporre la tematica del potere e dei suoi misteri.

Nell’ipotesi di Clarcke – ripresa da Kubrick – nel 2001 l’Unione Sovietica era pensata ancora esistente; non credo però che si possa affermare con sicurezza – basandoci unicamente sulla sequenza del film – che fosse ancora presente il clima di diffidenza, se non di aperta ostilità, proprio della guerra fredda. La sincera cordialità, anzi quasi il rapporto amichevole, tra Floyd e i sovietici sembra smentirlo, e fa quasi pensare a un futuro nel quale la conquista dello spazio ha reso possibile una collaborazione tra le superpotenze Anche il riferimento al diritto internazionale (la convenzione della circolazione planetaria) sembra predire un’istituzione normativa in grado di far coesistere le esigenze di sviluppo delle varie realtà nazionali.

E’ vero d’altronde che il proseguio della conversazione sembra confermare una egemonia – o comunque una superiorità tecnologica – degli Stati Uniti, i quali possono derogare dallo stesso diritto internazionale e sono comunque i detentori delle scoperte più importanti dell’umanità.

La banale informazione comunicata da Floyd di essere diretto su Clavius è il pretesto per il cambio d’atmosfera; l’uomo muta rapidamente atteggiamento, passando da una spontanea cordialità a una fredda ed esibita indisponibilità al dialogo. Anche in questo caso lo spettatore coglie palesi riferimenti alla sfera politica a lui consueta, che riguardano i segreti di stato, le rivalità fra le varie nazioni, le attività di spionaggio e quelle dei diversi servizi segreti. Il protagonista di questa parte della pellicola rappresenta da una parte l’impenetrabilità del potere, la non trasparenza dello stesso che si perpetua al di là di ogni retorica democratica; dall’altra, pur impersonando egli il potere nelle sue sfere più elevate e più riservate, fa riferimento a qualcuno a lui superiore. Con una chiarezza assoluta egli non tenta neanche di smentire le osservazioni dei suoi interlocutori – atteggiamento tenuto all’inizio – quanto dichiara la sua indisponibilità a proseguire il colloquio in quanto costretto da ordini superiori (“Non sono autorizzato a discuterne”). Il potere dunque si rivela esistere in una sfera occulta, non accessibile a quella opinione pubblica che dovrebbe legittimarlo; nel proseguio della trama – esattamente nella riunione svoltasi in Clavius – questo aspetto viene ulteriormente ribadito, nel momento in cui si accenna alla necessità di propagare false notizie per non rivelare il contenuto delle ricerche in atto. Il rapporto di potere si rivela dunque costituto da una relazione gerarchica fra chi detiene l’uso della forza – in questo caso l’informazione, il sapere – e una massa orientata in base alla volontà di questa oligarchia dominante.

Tale constatazione conduce a una doppia riflessione: da una parte lo spettatore può ancora una volta vedere riflessa in questa scena – con le dovute variazioni proprie dello slittamento in avanti del tempo – la stessa problematica legata al potere propria delle nazioni occidentali democratiche moderne, in particolare nel periodo della guerra fredda. Si potrebbe dunque raggiungere una conclusione già in qualche modo ulteriore rispetto a quella relativa all’accumularsi – e dunque al migliorarsi – della competenza tecnica: l’evoluzione tecnologica non comporta altrettanto progresso della sfera politico – istituzionale o, quanto meno, non migliora nella sostanza l’idea di dominio implicita nella pratica del potere. Ma questa è ancora un’affermazione banale, la cui ovvietà è estranea alla profondità dell’analisi di Kubrick.

Per meglio comprendere il significato di questa intromissione brutale della tematica del potere, che viene a sconvolgere l’immagine di esaltazione dell’intelligenza suggerita dalle prime sequenze di questa seconda parte, dobbiamo nuovamente considerare quanto valutato in l’Alba dell’uomo. La superiorità dell’uomo guerriero, realizzatasi a partire dalla comparsa del monolito, non prefigurava unicamente il raggiungimento della competenza strumentale ma anche quella, ben più significativa, dell’instaurazione di gerarchia del potere. Ebbene, millenni dopo, in un periodo futuro rispetto alla nostra stessa esistenza, quella relazione gerarchica permane, tranquillamente adattandosi ai nuovi contesti permessi dall’evoluzione tecnologica. Vi è però una differenza notevole: il potere non si esprime più attraverso la brutale forza fisica, ma attraverso il nascondimento delle informazioni, atto a creare proprio una gerarchia e a permettere la manipolazione del consenso; quindi il perpetuarsi di una struttura diseguale. In realtà, l’immagine “elegante” del potere – ma non per questo meno brutale – è strettamente legata all’esibizione manifesta della forza; e l’apparenza evolutiva che sembrerebbe evincersi da tale differenza è solo apparente.

Il tema di queste due manifestazioni del potere nel contesto della modernità e della loro inscindibile relazione sarà infatti ancora più evidente nella successiva opera di Kubrick, Arancia meccanica, laddove il branco di Alex (che richiama, anche per alcune scelte iconografiche, quello degli ominidi in 2001: Odissea nello spazio) è speculare – nella struttura circolare del film – all’azione rieducativa del potere istituzionale di cui il drugo è vittima.

Non è particolare superfluo, per confermare tale analisi, porre attenzione al contesto ambientale organizzato da Kubrick; al di là di un’iconografia del futuro che a noi può apparire ingenua in quanto, pur con tutte le innovazioni tecnologiche, fa riferimento a un’estetica di moda negli anni ’60, la particolare atmosfera che segna uno scarto tra gli interni dell’astronave – nella quale dominava, evidentemente, la tonalità dello scuro – e il bianco abbagliante della stazione spaziale che ospita Floyd e i suoi interlocutori, è la sensazione di estrema freddezza, di chiarezza insostenibile che crea ulteriore distanza tra le persone e che contribuisce a rafforzare la dimensione di imbarazzo quando, nel corso del colloquio, si affronta l’argomento della epidemia su Clavius.

Inizia ora la sequenza del viaggio verso Clavius; un’astronave dalla forma ancora diversa, in uno scatenarsi di fantasia di grande fascino figurativo, laddove tali forme non sono necessariamente in relazione con la missione cui il viaggio è destinato. Anche in questo caso si susseguono scene sulle condizioni di vita all’interno dell’astronave, commentate ancora una volta con il valzer di Strauss, senza interruzioni di dialoghi. Vi sono, però, rispetto al viaggio precedente, due particolari aggiunti che rivestono, a mio parere, grande importanza.

Il primo riguarda il pasto consumato a bordo sia da Floyd sia dai componenti dell’equipaggio. Poiché l’attenzione per il cibo sarà caratteristica anche dei successivi viaggi interspaziali mostrati nel film, l’inserimento di queste immagini non può essere casuale. Indubbiamente, questi cibi liquidi o liofilizzati, aspirati attraverso una cannuccia, con un’illustrazione che indica il loro gusto e – evidentemente – anche le loro proprietà nutrivitive e che possono essere, come fa Floyd, assaporati in successione, dando luogo a una mescolanza di dubbia gredevolezza, fanno riferimento a un’immagine dell’alimentazione del futuro particolarmente diffusa nell’immaginario degli anni ’60 e che oggi – con la rivalutazione del naturale e del biologico – sembrerebbe ingenua. L’insistenza sul cibo però propone anche un confronto con quanto visto nell’Alba dell’uomo.

L’assunzione di cibo, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali, era il fondamento delle condizioni di vita degli ominidi; il passaggio dal vegetarianesimo all’alimentazione carnea era la dimostrazione di un’evoluzione in atto, ma anche di un’ambiguità etica sottesa a tale progresso. L’uomo, millenni dopo, è ancora legato alla soddisfazione dei bisogni fondamentali, qualunque sia la sua collocazione nella gerarchia sociale. Questa, ben lungi dal significare una presa di distanza dalla propria animalità, serve invece a meglio assicurarsi, nei confronti dei propri simili, i bisogni cui si aspira. Il legame stretto dell’uomo con la propria naturalità è sottolineato anche dal divertente atteggiamento dubbioso con cui Floyd legge le istruzioni della toilette funzionante in assenza di gravità. Al di là della reazione divertita che tale immagine produce nello spettatore, il sottolineare l’assunzione del cibo – così come la sua necessaria espulsione – rimanda alla essenziale animalità della natura umana.

Così come tra gli ominidi e l’uomo moderno si è mantenuta identica la dimensione animale relativa ai bisogni fondamentali, anche il modo di concepire il potere – come dominio dei più forti sui più deboli – è identico. L’immagine del potere di questa parte del film – ma il concetto sarà ancora più chiaramente sottolineato durante la spedizione verso Giove –, per quanto raffinata o ordinata su più livelli di organizzazione, è identica nella sua motivazione e nei suoi risultati all’immagine del potere trasmessa dagli ominidi. Anche questa volta, quindi, l’emancipazione mostra un volto oscuro, un residuo di permanenza delle pulsioni più primitive che, al di là dell’illusione del progresso, dominano la natura umana e condizionano – fino a privarle di ogni efficacia – le istanze della ragione.

Il viaggio verso Clavius, inoltre, mostra un altro aspetto non sottolineato in precedenza, carico di significati e ripreso nella terza parte del film. La dimensione dello spazio acquista valore simbolico e consente di interpretare le immagini in un’ottica che va al di là del semplice riferimento alla trama. Abbiamo sottolineato prima la vittoria sulla gravità guadagnata dall’uomo e la funzionalità delle calzature della hostess. Questa semplice invenzione non può di per sé significare molto, ma fa parte di una normale rappresentazione che trasferisce la dimensione quotidiana dell’esistenza nello spazio oltre l’atmosfera.

Nel secondo viaggio però il progresso realizzato rispetto alla costrizione della gravità dà la possibilità a Kubrick di esprimere una dimensione dello spazio totalmente irrealistica, dove non esistono più coordinate di sorta. E quanto poi avverrà nell’astronave in viaggio verso Giove dove – come vedremo – non potrebbero realizzarsi quelle scene che le immagini ci mostrano.

Ritornando al nostro viaggio verso Clavius vediamo la Hostess dirigersi verso Floyd per servirgli il pasto, secondo una modalità non molto dissimile dalla scena della hostess del primo viaggio; tornando indietro, la ragazza si ferma in un punto di raccordo dell’astronave, circolare e, grazie alle sue calzature, riesce a percorrerlo sino a trovarsi a 180° rispetto alla posizione iniziale, quindi a testa in giù. Il fatto non sarebbe di per sé sorprendente – nella logica fantascientifica del film, ovviamente – se non per il fatto che, aprendosi una porta, la stessa hostess entra con il pasto nella cabina di comando, dove siedono i due piloti. Lo stacco della mdp riprende la hostess dall’interno, molto scuro, di questa cabina e la riprende in posizione rovesciata. A questo punto la mdp effettua lei un movimento di 180° per ricollocare la hostess con il capo in alto e permettere allo spettatore di avere una visione tranquilla della scena successiva. Questo trucco della mdp per rendere fruibile la sequenza al pubblico cinematografico esalta tutto il contesto irrealistico della scena e, dunque, carica la stessa di valore simbolico.

Ne deduciamo infatti che gli astronauti si trovano in una posizione capovolta rispetto a quella in cui viaggia Floyd e che, di conseguenza, le posizioni naturali di postura del corpo umano sono all’interno di quell’abitacolo assolutamente relative. Floyd viaggia in una posizione che è capovolta rispetto a quella dei piloti.

Non si tratta allora solo di dominare la forza di gravità, ma di descrivere una situazione spaziale dove mancano totalmente le coordinate di riferimento; ci si trova cioè in una dimensione concettuale, si preannuncia l’influsso del monolito, cui l’equipaggio si sta avvicinando. In altre parole, nel momento in cui la ricerca umana si trova nei pressi del proprio segreto, della propria ispirazione più profonda, si situa in un orizzonte di senso che non obbedisce più ai criteri della decifrabilità razione e, di conseguenza – come vedremo fra poco – ogni tentativo di impossessarsi secondo i criteri della “conquista” scientifica del monolito risultano vani.

La scena successiva, su Clavius, rappresenta in modo finalmente chiaro l’immagine del potere; anche in questo caso la rappresentazione è rassicurante, in quanto viene mostrata una comunicazione riservata che, per modalità, ricorda qualsiasi assemblea fra dirigenti in luoghi di lavoro. La dimensione pubblica viene sottolineata dalla presenza del fotografo, che indica come il contenuto di tale riunione è destinato, successivamente, ad assumere un avvenimento decisivo per l’opinione pubblica. Ciò che però distingue l’incontro cui assistiamo da una abituale riunione fra persone di alta responsabilità, è la dimensione del segreto, che caratterizza ancora l’intera sequenza; nonostante al pubblico venga comunicato il motivo di tale riservatezza, che tanta inquietudine aveva suscitato tra gli uomini sovietici, pure la comunicazione di Floyd presenta le motivazioni tipiche di chi è il rappresentante di un’oligarchia, capace di decidere quanto sapere possa essere rivelato all’opinione pubblica per mantenerla in uno stato di passiva tranquillità. Proprio l’esigenza di controllo dell’opinione pubblica è quella che emerge con maggiore chiarezza nel discorso di Floyd; Kubrick non svela ancora, infatti, in questa sequenza, totalmente il mistero; con una scelta tutt’altro che casuale, preferisce svelare i dettagli della questione nella sequenza del viaggio successivo, in un contesto più raccolto. Lo spettatore è informato solo di una grande scoperta di carattere scientifico, che deve essere mantenuta assolutamente segreta in quanto, se scoperta, potrebbe causare un forte disorientamento sociale. Ovviamente, tale particolare suscita curiosità, in quanto rimane l’interrogativo sul carattere così potenzialmente devastante di una scoperta; successivamente, quando ci si rende conto che essa consiste nel monolito apparso agli ominidi nella prima parte dell’opera, diventa chiaro il motivo di tanta inquietudine. Si tratta infatti non di una scoperta in senso proprio, ma dell’intuizione del senso dell’evoluzione umana, della visione dell’origine nella quale si motiva l’esercizio del potere. E’ chiaro dunque che tale riservatezza si inscrive nell’ottica di una concorrenza tra le potenze e nell’esigenza di conquistare l’egemonia politica planetaria. Si tratta di una passaggio importante, in quanto senza questa comprensione – e dunque senza il collegamento da realizzare con la prima parte del film – non si comprenderebbe la sequenza conclusiva, ai piedi del monolito.

La scena della conferenza, per il resto, presenta la solita riflessione sul carattere occulto del potere, sulla falsa cortesia che diventa reticenza, e sulle evidenti gerarchie al suo interno; ovviamente, in questo caso, la disponibilità di Floyd è più sincera rispetto alla conversazione coi sovietici; pure il tono delle sue dichiarazioni è quello del comando: difende la necessità di mantenere la riservatezza sulla missione, comprende le inquietudini del personale preoccupato per i familiari, ma non deroga per nulla sulle proprie decisioni, che vengono comunicate senza la possibilità di essere discusse. Da questo punto di vista Floyd dimostra un comportamento granitico, dimostrato non tanto per carattere personale – è in fondo una persona affettuosa, con una vita familiare che si presume piacevole, dopo il colloquio con la figlia – quanto perché comunica ordini ricevuti, probabilmente anche da lui recepiti in modo passivo. Il potere si dimostra quindi essere strutturato come una serie di scatole cinesi tra loro in comunicanti, dove il centro della decisione – piuttosto che corrispondere alla opinione condivisa dalla maggioranza e recepita dai suoi rappresentanti – si rivela assolutamente esclusivo. Si comprende allora l’ansia di questa spedizione, tesa ad incontrarsi proprio con l’origine stessa del potere, non a caso raffigurata da una figura geometrica fredda, muta, estranea totalmente all’ambiente in cui appare.

Ritorna la musica di Ligeti, a commentare un nuovo viaggio, questa volta non più fra pianeti colonizzati, ma diretto verso luoghi esclusivi, dove ancora la presenza umana riguarda pochi spiriti pionieristici. La navicella è molto più ridotta di dimensioni di quelle ammirate in precedenza; lo spazio e l’abitacolo interno sono decisamente più raccolto. Anche l’ambiente esterno muta e presenta caratteri di ostilità o, comunque, si rivela essere ancora ai margini dell’azione colonizzatrice umana. Non a caso il viaggio non viene più commentato dal tranquillo valzer di Strauss ma, appunto, dalle note del compositore ungherese; inoltre si aggiunge il persistente rumore di fondo prodotto dall’astronave che, associato alle immagini esterne, che ricordano la primitività del paesaggio lunare così come in quegli anni venivano riportate dalle spedizioni Apollo, rimanda al paesaggio primitivo delle prime scene. Particolare tutt’altro che secondario, se pensiamo che Floyd e i suoi compagni si stanno dirigendo verso l’origine.

Anche in questo caso viene riservata una certa attenzione al cibo; ancora una volta l’appetito stabilisce una continuità col passato, piuttosto che segnare una svolta evolutiva; i commenti ironici sul sandwich fanno consapevoli gli astronauti della perdita di piacere derivata dalla liofilizzazione del cibo; così i commenti ironici sul governo – ancora una volta il riferimento a un potere che sta in alto! – e sul trattamento da questi riservato ai suoi dipendenti sembra stabilire una continuità con le condizioni medie di vita della maggioranza dell’opinione pubblica, quella destinata a subire il potere senza mai essere al corrente delle sue più autentiche motivazioni. Quest’accenno alla quotidianità viene posto in contrasto con l’altro dialogo, ben più impegnativo, tra Floyd e i suoi compagni di viaggio. E’ il contesto esclusivo in cui vengono spiegati allo spettatore i dettagli della spedizione; una serie di fotografie, che i tre uomini si mostrano – e che ricordano in modo probabilmente voluto quelle coeve relative alle spedizioni lunari – il monolito all’interno di un createre; ancora una volta – come era accaduto ne L’alba dell’uomo – la sua perfetta levigatezza appare in contrasto con l’ambiente circostante.

L’impressione appare confermata dall’immagine diretta del monolito, dopo lo sbarco degli uomini nei pressi del cratere; l’inizio del viaggio era stato segnalato dalla ripresa della musica di Ligeti. Durante il percorso, però, la musica cessava per lasciare posto al dialogo tra Floyd e gli uomini dell’equipaggio. Il valore di questi dialoghi, da noi appena sottolineato, è confermato proprio dal fatto che è l’unica volta dove il percorso di una navicella nello spazio non viene accompagnato esclusivamente dalla musica.

Poco prima dell’atterraggio, però, risuonano nuovamente le note di Lux Aeterna, a sottolineare l’isolamento e l’inquietudine della situazione; la composizione non si interromperà fino alla conclusione di questa parte del film, commentando dunque anche l’avvicinamento degli uomini al monolito. In queste sequenze Kubrick ci tiene, per sottolineare il distacco, ad accentuare i particolari irrealistici della scena; in particolare l’interno rosso fuoco dell’astronave, che ricorda alcune scene dei viaggi precedenti.

La base desertica sul pianeta, la cui superficie somiglia molto a quella della luna, viene ripresa con una inquadratura suggestiva, carica di molteplici significati. Si intravede il cratere, al di sotto della superficie del pianeta a creare uno spazio chiuso illuminato con al centro il monolito. Riprende la composizione Lux Aeterna, ad indicare l’inizio della fase più significativa di questa parte del film. L’immagine mostra, contemporaneamente, l’interno del cratere, la superficie desertica e scabra del pianeta e, all’orizzonte, un altro pianeta; si tratta quindi di una variazione rispetto all’immagine simbolo del film, quella dell’inizio. Questa inquadratura ritorna, attraverso un montaggio alternato, in tutta questa prima parte del film, a mettere in relazione significante le azioni che appaiono sullo schermo con la domanda metafisica fondamentale che è al centro dell’opera.

L’avvicinamento del gruppo di uomini, in tenuta da astronauti, al monolito consente all’immagine di procedere in modo progressivo, disvelando gradualmente l’oggetto; questa gradualità permette, da una parte, di caricare di tensione l’immagine, anche grazie al crescere d’intensità della musica; dall’altra, di progressivamente caricare di tensione e di incerteza l’azione apparentemente naturale che gli uomini stanno compiendo. Essi si radunano in gruppo davanti al monolito, pronti a scattare uno foto a ricordo dell’impresa; lo spettatore, però, tendendo conto dei differenti segnali comucatigli dal regista, già immagine che questa apparente gaiezza non è destinata ad essere confermata nelle fasi successive, proprio perché in contrasto con le informazioni acustico – visive. Eco dunque che, in preparazione della foto, dal monolito emana un segnale acustico dissonante, fastidioso, che sembra assordare gli uomini. Essi cercano di coprirsi le orecchie, di difendersi da questa improvvisa intrusione esterna, ma sembrano impotenti.

Su questa immagine di sconfitta, o quanto meno di sorpresa, si conclude la seconda parte del film; non è sequenza drammatica, in quanto si comprende che l’evento non è destinato a provocare permanenti lesioni agli uomini, ma è comunque un momento enigmatico che, ancora una volta, si oppone alla credenza umana di poter afferrare il senso dell’esistenza con assoluta certezza. Si è molto discusso sul finale enigmatico di 2001: Odissea nello spazio – e lo stesso Kubrick ha sottolineato questo aspetto – ma in realtà anche il finale di questa seconda parte presenta una conclusione faticosamente decifrabile, sulla quale spesso si è sorvolato, in quanti si poteva trovare un appiglio nelle informazioni suggerite dal film successivamente.

In realtà però questo finale merita di essere considerato in modo approfondito, perché, ponendosi in una relazione di estrema coerenza con le immagine apprezzate in tutta questa seconda parte del film, contiene già un messaggio molto forte, solo a partire dal quale si possono analizzare le successive scene e comprenderne la complessità.

Bisogna notare innanzitutto come, successivamente al dosorientamento provocato agli uomini della spedizione dal segnale acustico proveniente dal monolito, Kubrick riproponga l’icona iniziale dei tre pianeti. Se all’inizio di Clavius, quando le astronavi sembravano danzare al ritmo del valzer straussiano, si poteva avere la percezione che la distanza interplanetaria fosse stata colmata e dominata con l’evoluzione tecnico – scientifica, alla fine di questa vicenda tale distanza – fra l’uomo e il proprio universo, ma anche fra l’uomo e se stesso – rimane invariata. L’avvicinarsi all’origine della propria intelligenza, artefice del dominio dell’uomo sul mondo, provoca una vertigine, un disorientamento che sembra svelare come, a fondamento del tutto, non ci sia un quid decifrabile per via razionale; tant’è che la padronanza percettiva dell’uomo si ferma, viene investita e travolta da segnali esterni che non paiono in alcun modo interpretabili dalle categorie della ragione.

Missione su Giove

L’inizio della terza parte del film sembra confermare le impressioni appena espresse. L’immagine dell’astronave, che si sviluppa – almeno nella visione esterna – in lunghezza, condivide l’aspetto elegante e affascinante degli altri mezzi di navigazione spaziale ammirati in precedenza. Colpiscono però l’attenzione due particolari, che rivelano decisive differenze rispetto alla situazione precedente: da una parte la musica scelta ad accompagnare tale navigazione – Katchaturian ???? – non è tranquillizzante come il valzer di Strauss, e accentua anzi l’atmosfera di mistero e isolamento; dall’altra, lo spazio esplorato dal Discovery 1 non è quello spazio ormai dominato dall’uomo, centro di un traffico intergalattico che ha ampliato le attività umane nello spazio cosmico. Non si vedono infatti altre astronavi, non si percepisce la presenza di basi, indice di una civilizzazione; siamo nel clima della scoperta, della esplorazione avventurosa, con tutte le incognite legate a tale situazione. In questo l’atmosfera inquietante della terza parte del film è in continuità con quella finale della seconda parte.
Le prime inquadrature all’interno del Discovery 1 confermano questa impressione; mentre il protagonista compie il suo footing intorno alla superficie del mezzo, abbiamo la possibilità di essere informati in modo completo su questo nuovo ambiente. Poiché David, nell’allenarsi, percorre l’intera circonferenza del Discovery, abbiamo la possibilità di intravedere i tre uomini ibernati, il compagno di spedizione nella missione – che, in continuità figurativa e tematica con informazioni mostrateci in precedenza, è intento a mangiare il solito cibo liofilizzato – e, quindi, con uno stacco che interrompe l’atmosfera descrittiva della panoramica e che introduce un senso di inquietudine, l’occhio di Hal, presenza concentrata in un luogo determinato dello spazio ma in realtà capace di essere dovunque, di determinare la qualità della vita in ogni angolo dell’astronave, gestendone la complessità tecnologica.

Ma il particolare più importante che, a mio parere, Kubrick ci mostra in queste prime sequenze riguarda lo spazio che – come nell’ultima missione di Floyd, quella che si avvicinava al monolito – contrasta con la normale rappresentazione che è propria del mondo umano: lo spazio del Discovery 1, in altre parole, non è uno spazio razionale.

La prima inquadratura dell’interno è una panoramica grandangolare che pone al centro dell’immagine la colonna che è anche il centro della circonferenza su cui si modella l’ampio abitacolo in cui vivono i due astronauti. L’inquadratura offre una visione dello spazio ordinata, dove esistono un sopra e un sotto e dove la colonna centrale si assume la funzione di creare lo spazio che permette agli uomini di abitare l’astronave. Nel successivo stacco, però, questa visione razionale della spazialità, che può tranquillamente essere dominata dallo spettatore, viene incredibilmente smentita: l’allenamento di David non viene infatti a realizzarsi nello spazio inferiore mostrato in precedenza, in coerenza con i principi della gravità, ma sulla superficie circolare che, in base alla inquadratura appena illustrata, dovrebbe fungere da parete. Se ne deduce che la corsa di David non avviene su una superficie lineare, bensì curva; e anche quando egli si ferma, e si accosta alla strumentazione di comando, dove c’è anche la postazione di Hal, questa dovrebbe trovarsi sulla stessa superficie circolare.

Per cui – come era avvenuto nell’astronave del viaggio di Floyd – anche in questo caso non esistono propriamente un sopra e un sotto; in qualunque posizione dell’astronave gli uomini dell’equipaggio si trovino, essa sarà sempre la loro base d’appoggio e la colonna centrale – al posto di essere, come suggeriva la prima inquadratura, la struttura portante che separava il soffitto dal pavimento, diventa in qualunque suo punto il soffitto. Ancora una volta – a sottolineare una locazione spaziale che è indipendente dal dominio umano – la dimensione dello spazio viene ignorata nella sua rappresentazione più ovvia, per descrivere un ambiente che – proprio perché in realtà non sarebbe abitabile – si carica di valori simbolici.

A questo punto sono introdotte alcune scene dialogate, che ci mostrano i due astronavi nell’esercizio delle funzioni più elementari e quotidiane e che consentono allo spettatore di acquisire le informazioni necessarie per comprendere gli eventi successivi. L’ascolto del telegiornale permette infatti di conoscere le modalità della missione, attraverso le informazioni dello speaker e le dichiarazioni concesse in intervista dallo stesso David; tale servizio serve però a presentarci anche la figura di Hal, centrale in questa terza parte. Se all’inizio le dichiarazioni rilasciate dall’elaboratore ci informano del sorprendente esito delle ricerche scientifiche in tema di intelligenza artificiale, nel succedersi dell’intervista viene ad essere affrontato il tema della emotività di Hal. Si insinua l’eventualità che Hal possegga una sua autonomia psicologica, innescando quei sospetti che – una volta fatti propri dai due astronauti – daranno il via alle vicende successive. Mentre David aveva fornito una risposta rassicurante, dichiarando che l’elaboratore era stato programmato – anche nelle tonalità discorsive – secondo modalità emotive che rendessero più semplice la comunicazione con il resto dell’equipaggio, Hal sembra quasi rivendicare una personalità indipendente che va al di là della semplice programmazione scientifica; questa perentorietà della risposta rappresenta la prima evidente anomalia in un clima tutto sommato rassicurante nel quale l’equipaggio crede di vivere.

All’inizio – secondo un normale iter drammatico, in base al quale è presentata una situazione di normalità, che poi improvvisamente viene alla rottura, distruggendo l’apparente solidarietà esistente nel gruppo di protagonisti – il calore umano di Hal sembra veramente in grado di alleggerire i suoi compagni dalla obbligata solitudine e li assicura, nei limiti della situazione, di ogni sorta di comfort. Quando David riceve gli auguri da parte dei suoi genitori, il senso di protezione che deriva dalla collaborazione di Hal è totale: questi lo avverte dell’arrivo del messaggio, lo sposta nella posizione più confortevole per visionarlo, gli alza la testa, aggiunge i suoi auguri a quelli dei genitori. In questa scena, apparentemente tranquillizzante, si rivela già in pieno il problema che Kubrick vuole affrontare: Hal, intelligenza costruita dall’uomo per rendere più agevole la risoluzione dei problemi che richiedono all’intelligenza un superiore dispendio di energia, rende superfluo ogni sforzo propriamente umano. E’ lui che controlla il volo in ogni momento e la presenza umana si limita a una sorta di supervisione. Con questo si intende che, rispetto al cammino iniziato con l’alba dell’uomo, arrivati a un’evoluzione massima, si è quasi realizzata una rivoluzione, uno scarto nello sviluppo dell’intelligenza, destinata a cambiarne sostanzialmente le caratteristiche: l’uomo riesce a trasferire le sue doti intellettuali all’esterno, affidando ad oggetti di sua invenzione la risoluzione dei problemi.

Tale passaggio non determina però un ulteriore progresso nello sviluppo dell’intelligenza umana, ma rischia di rappresentarne invece una negazione dagli esiti imprevedibili; tant’è che, nella sequenza più drammatica di questa parte del film, si assisterà all’eroico tentativo da parte dell’uomo di riprendersi le sue prerogative decisionali. La presenza delle macchine, il dominio della tecnica, che investe la stessa intelligenza progettuale che è a capo della tecnologia, rischia di distruggere il dominio dell’uomo sul mondo. L’intelligenza tecnica (la stessa dell’antropoide che scopre la leva giocando con le ossa) implica uno sviluppo dall’esito autodistruttivo: nel tentativo di trasferire su altri agenti lo sforzo necessario all’uomo per soddisfare i propri bisogni, finisce addirittura per abdicare a se stessa, rinunciando allo stesso controllo generale sulle operazioni. Ciò comporta la scomparsa dell’umanità – o almeno il suo asservimento -, eventualità del resto più volte prevista dalla tradizione della fantascienza, anche se in questo caso non proviene da un’entità esterna (per esempio la saga del pianeta delle scimmie), ma dalla logica di sviluppo interna alla stessa razionalità umana. Questa, sviluppatasi per liberare gradualmente dalle fatiche, nel realizzarsi, trasferisce all’esterno anche la fatica di se stessa e, nel momento in cui dà il potere di decidere ad altri attori, finisce con l’essere asservita.

Questa considerazione produce un ulteriore paradosso, che eleva alla potenza l’assunto iniziale di Kubrick: la tecnologia destinata ad ereditare dall’uomo la facoltà razionale e, successivamente, a dominarlo, non è comunque neanche in questo caso un intelligenza pura. Ovvero, anche in Hal è impossibile l’esistenza del puro tecnicismo, la realizzazione dell’ideale dell’intellettualismo etico socratico. Anche in Hal il sapere non è virtù, bensì potere; non cerca solo il raggiungimento della conoscenza, ma la sottomissione di chi a tale competenza non riesce ad arrivare. Anche in lui la pulsione prevale sulla ragione.

Il passaggio dal clima idilliaco iniziale al successivo scontro di intelligenze, si ha a partire da un nuovo colloquio tra Hal e David; lo spunto è il commento sui disegni che lo stesso astronauta ha realizzato, riprendendo i ritratti dei colleghi ibernati. Consueta cortesia di Hal, che si complimenta con il protagonista, facendo anche qualche apprezzamento sul piano stilistico.

A questo punto l’elaboratore – in coerenza con la presentazione del suo personaggio – chiede a David di potergli porre una domanda personale, e gli comunica le sue impressioni in merito a un presunto carattere misterioso della loro missione. Lo spettatore ancora non sa che Hal sta giocando con David come al gatto con il topo; lui infatti è al corrente del mistero alla base della missione (altro tentativo di delegare all’esterno la propria intelligenza, che sarà sconfitta), e tale confessione fa parte di una messinscena da lui organizzata, con la quale si prepara a comunicare il falso guasto sull’astronave.

Da questo momento, sino alla fine della terza parte del film, vi sono alcune costanti nella presentazione delle scene che è bene sottolineare, in quanto stabiliscono i differenti punti di vista attraverso cui le sequenze guadagnano la loro specifica valenza, e consentono di approfondire ulteriormente la problematica alla base del film. Innanzitutto, continua la scelta di disorientare spazialmente lo spettatore: nell’inquadratura successiva, David e in piedi, Frank e sdraiato sotto di lui nell’atto di provvedere alla manutenzione degli apparecchi. In questo caso la postura dei due personaggi è razionalmente spiegabile,ma questo lo spettatore lo comprende solo quando Frank si alza; in un primo momento, anche a seguito delle esperienze precedenti, sembra che i due uomini occupino in modo diverso lo spazio, negando la razionalità delle dimensioni terrestri.

In queste ultime sequenze della terza parte, inoltre, frequenti sono le inquadrature effettetuate con lo zoom dei diversi canali di raccordo, attraverso i quali i due astronauti passano da una parte all’altra dell’astronave; ad indicare procedure di ingresso e di espulsione che sottolineano in modo sempre più preciso la distanza e la crisi di fiducia fra i due uomini e l’elaboratore. Ma sottolineano, ancora, il carattere plurimo dello spazio, con continuo incrociarsi di movimenti circolari delle superfici di questi corridoi. Da notare è, inoltre, il frequente uso in questa parte di campi e di controcampi, a descrivere i diversi punti di vista con cui le varie scene sono vissute, dall’elaboratore e dai due uomini. Nelle fasi più drammatiche – in particolare le due missioni esterne – l’alternarsi di questi punti di vista è essenziale, e permette allo spettatore – come vedremo – di associare tonalità emotive differenti alle medesime inquadrature. E’ interessante notare come la prospettiva di Hal venga segnalata in due modi diversi: una soggettiva classica (per esempio quando Hal interpreta i segni labiali di David e di Frank); e mostrando le immagini delle azioni attraverso i video collocati nella postazione di Hal, che testimoniano la sua costante presenza e il suo seguire interessato e preoccupato le varie fasi delle operazioni.

Ai tre punti di vista appena menzionati, dobbiamo aggiungerne un terzo: si tratta della visione oggettiva degli eventi, ottenuta collocando la sorgente della visione nello spazio esterno: da una parte queste inquadrature isolano la situazione drammatica, dall’altra accentuano la solitudine dei protagonisti, privi di ogni possibilità di soccorso. Il regista intende del resto evidenziare la radicale diversità tra lo spazio esplorato nel corso della presente missione e quello colonizzato intravisto nell’episodio intitolato Clavius. A questo proposito, immediatamente dopo le sequenze che ho appena citato, Kubrick inserisce una panoramica dello spazio esterno ne quale transitano dei meteoriti, dall’aspetto roccioso molto aspro e irregolare. L’immagine, inquieta, sembra quasi suggerire il carattere primitivo dell’ambiente, privo di ogni forma di civilizzazione; è come regredire all’inizio del film, a suggerire il fatto che di li a poco ci troveremo ancora di fronte al problema dell’origine, allo svelarsi del fondamento stesso dell’intelligenza. Quando la capsula si staccherà dall’astronave, l’alta tecnologia utilizzata da Frank all’interno sarà in forte contrasto con l’asprezza del paesaggio esterno, a differenza di quanto accadeva nell’episodio di Clavius, dove la straordinaria qualità tecnologica trovava riscontro nelle raffinate basi planetarie.

E’ in questo spazio che si immerge la capsula diretta a sostituire l’elemento AE 35, destinato a entrare in avaria; non a caso Kubrick elimina qualsiasi commento musicale – operando una vistosa cesura con le sequenze analoghe nelle parti precedenti del film -, sostituendolo con il respiro profondo e affannoso dell’astronauta in azione, dall’effetto notevolmente più angosciante. Questa presenza ossessiva del respiro richiama anch’essa il tema dell’origine, mettendo in evidenza il filo sottile che lega la vita alla morte e che, di lì a poco, Hal taglierà in modo implacabile.

La sequenza della riparazione vede Frank lasciare la capsula per dirigersi verso il circuito difettoso; la sicurezza con cui l’astronauta padroneggia la mancanza assoluta di punti di riferimento (che Kubrick continua a sottolineare con la scelta di inquadrare Frank capovolto mentre opera la sostituzione) va tenuta presente perché destinata a ripetersi – ma con ben più drammatico esito – più avanti.

La constatazione che l’elemento sostituito è tutt’altro che difettoso e che l’elaboratore ha commesso un errore incrina definitivamente la fiducia dei due uomini nei confronti dell’intelligenza artificiale che ha in mano il destino della spedizione. Tale sfiducia sarà evidente nell’esplicito dialogo che avverrà nella capsula; Kubrick però lo fa già intendere con le espressioni preoccupate dei volti dei due astronauti (che non parlano fra loro, mostrando un’evidente reticenza a comunicare di fronte ad Hal). Questa immagine però è resa attraverso un obiettivo grandangolare che rappresenta la soggettiva di Hal stesso; è evidente che, così come interpretiamo noi spettatori facilmente la situazione emotiva di David e Frank, così sta facendo Hal, in modo però ben altrimenti interessato.

Kubrick ha intessuto le immagini, le scelte visive, in modo così straordinario da caricare con stati emotivi differenti le medesime inquadrature; l’occhio di Hal, sempre quello, grazie al montaggio, viene miracolosamente interpretato come un vero e proprio sguardo che, a seconda delle situazione, esprime preoccupazione, diffidenza, slealtà e intenzionalità criminale verso i suoi colleghi di spedizione. Praticamente, il regista ha investito a tal punto l’emotività dello spettatore facendogli caricare di senso in modo autonomo le stesse inquadrature e mostrando l’impossibilità di qualsiasi visione oggettiva in un’opera cinematografica.

L’avvenimento è ovviamente eccezionale e tale eccezionalità è ammessa dallo stesso Hal; tanto più che da terra comunicano che è sicuramente la macchina in errore, sulla base di calcoli compiuti dall’elaboratore a terra. Tuttavia dalla base sono concordi a seguire le prescrizioni di Hal, il quale consiglia di rimettere al suo posto l’elemento, aspettare che vada in avaria e, a quel punto, accertare le cause del difetto. Agli occhi dello spettatore, però, tale consiglio sembra già un piano prestabilito, in quanto consente al cervello elettronico di sospendere le comunicazioni con la base a terra per un ampio margine di tempo, diventando arbitro assoluto della situazione. La macchina, d’altra parte, si dice certa che si tratti di un errore umano, forte delle statiche le quali affermano che nessun computer della sua serie ha mai commesso un errore.

E’ evidente che tali assicurazioni aumentano l’inquietudine dei due uomini, i cui sguardi – nell’impossibilità di parlare davanti ad Hal – sono molto espressivi. Si ha quindi la sequenza chiave del dialogo fra i due nella capsula. David e Frank, da una parte, parlano di Hal come se fosse una personalità autonoma, ammettendo la sua onestà e, quindi, la sua mancanza di intenzionalità dolosa. Dall’altra, però, constatano un errore tecnico laddove esso era stato considerato impossibile e – in questo caso ritornando alla pura considerazione di Hal quale macchina – ne decidono lo scollegamento. Ovviamente, tale sequenza non è tanto importante per il contenuto del dialogo, quanto per il tentativo, fallito, di sfuggire all’onnipresenza di Hal, la cui pervasività non è più fonte di sicurezza bensì di pericolo. La scena è magistrale per il gioco di campi e controcampi trai due uomini ed Hal e per la capacità di dare credibilità di personaggi alla semplice e fredda immagine dell’elaboratore.

Questa sequenza diventa emblematica perché mette in evidenza la trappola in cui è caduto l’uomo nel momento in cui – come abbiamo già scritto – ha raggiunto l’aspirazione massima della sua intelligenza: non gli resta più uno spazio di libertà o di intimità in cui potersi isolare e gli è impossibile prevedere tutte le mosse della sua controparte (in questo caso la lettura dei segni labiali), così come era avvenuto nella partita a scacchi fra Hal e David.

D’altra parte, il culmine drammatico nel rapporto fra l’uomo e la macchina, tende a mettere in evidenza un altro elemento problematico centrale nel cinema di Kubrick e, soprattutto, fondamentale per il presente studio; la presenza di un elemento imponderabile che in qualsiasi momento può sovvertire qualsiasi processo di progettazione o programmazione razionale. Il problema non è infatti – come abbiamo ricordato anche sopra – quello della superiorità della macchina sull’uomo, quanto l’impossibilità di realizzare un’intelligenza che sia indipendente dalla pulsione e che la possa controllare. La presenza di questo fondamento psicologico che sfugge a qualsiasi programmazione – e che gli astronauti percepiscono essere presente anche in Hal, da loro considerato come una vera e propria persona – ritorna alla consapevolezza dei due uomini che, dopo la riflessione di tipo puramente tecnico (lo dobbiamo disattivare), manifestano una preoccupazione psicologica (“come la prenderà?).

La successiva uscita di Frank, quella che gli sarà fatale, viene seguita dai consueti, plurimi punti di vista: quello di David, rimasto all’interno dell’astronave, quello di Frank e quello di Hal, daigli schermi della sua postazione; è interessante notare come sulla visiera del casco di Frank si riflettano proprio gli schermi video, ad indicare la fusione dei due punti di vista. E poi c’è quello oggettivo, dello spazio esterno, ad indicare sia l’annientamento del corpo di Frank lanciato in quella solitudine infinita, sia l’oggettiva situazione di vantaggio di Hal verso i due uomini, cui nega l’accesso e il rientro nell’astronave.

La scena sembra in un primo tempo ripetere la sequenza della prima uscita; ma all’improvviso due zoom a scatto sull’occhio di Hal indicano la decisione del computer di passare all’azione di boicottaggio e, subito dopo, il corpo agonizzante di Frank è lanciato nello spazio.

A questo punto David, l’eroe destinato a sancire nuovamente il primato dell’uomo sulla macchina, in un combattimento tecnologico che ricorda però le grandi sfide tra eroi delle saghe mitologiche, dimostra un’ingenuità spaventosa, manifestando tutta la minorità di un atteggiamento sopraffatto dall’emozione rispetto alla freddezza progettuale dello strumento. Crede alla bugia di Hal che afferma di non capire che cosa sia avvenuto e si fa preparare dall’elaboratore stesso la capsula per soccorrere all’esterno l’amico ma, contemporaneamente, essere escluso dall’astronave. D’altra parte, è chiaro che tale emotiva ingenuità sancisce la superiorità morale di David, mosso dall’imperativo etico di salavre la vita al proprio compagno.

La missione di David – vana, come vedremo – ha in un primo momento successo, in un ambiente spaziale visibilmente ostile. Potendo vedere ciò che intanto accade all’interno della astronave, lo spettatore acquista quella consapevolezza che ancora manca a David: Hal realizza la sua presa del potere, il controllo assoluto della missione e l’annientamento di tutto l’equipaggio. Uccide gli uomini ibernati, compare la scritta che conferma che il computer non obbedisce agli ordini per cui è stato programmato. In realtà tale segnalazione non indica affatto il carattere difettoso di Hal, ma significa semmai la sua totale emancipazione dall’asservimento umano, il totale distacco dell’intelligenza artificiale da quella umana che pensava di poterla dirigere. Hal ha acquistato il desiderio del potere, si è in tutto immedesimato e sostituito all’uomo.

L’alternarsi dell’occhio di Hal e del punto di vista esterno si carica ancora di nuovi significati; il primo è il dominatore, il secondo indica la disperazione di David, il suo essere in una trappola che paradossalmente ha i caratteri dell’infinito e non della gabbia angusta.

Qualche inquadratura prima, però, avevamo visto nello sguardo di Daviv la consapevolezza della sfida; David è inquadrato frontalmente, con la testa reclinata leggermente verso il basso ma con lo sguardo rivolto in alto, a guardare con espressione decisa la macchina. Si tratta dello stesso sguardo che avevamo già visto nell’antropoide e che vedremo – nelle opere successive – nell’Alex di Arancia meccanica, in “palla di lardo” di Full Metall Jacket, nello straordinario duello di Barry Lyndon, a testimoniare un’icona tra le principali dell’intera filmografia kubrickiana. E’ l’inizio del duello, della sfida, anche perché a questo primo piano di David segue quello dell’occhio di Hal (sempre lo stesso, ma in questo caso sembra carico di sicurezza, di crudeltà), in un campo – contro campo che ricorda i più celebri duelli del western. Ovviamente, tale duello non può avere inizio senza il sacrificio di Frank, che viene definitivamente abbandonato nello spazio per permettere a David di iniziare il suo confronto.

La sfida è preceduta da un dialogo risolutivo, in cui le carte vengono finalmente scoperte: David comanda ad Hal di aprire la saracinesca esterna, senza ottenere risposta; dopo alcuni tentativi andati a vuoto, Hal risponde, dimostrando così il suo pieno controllo della situazione. Rivela di avere tradotto le mosse labiali dei due uomini e di non potergli obbedire per non compromettere la sua stessa esistenza.

Questo breve dialogo è denso di significato per la comprensione del film: Hal dimostra infatti di obbedire a un istinto di autoconservazione, di non potere consentire all’ordine perché ne andrebbe del suo stesso essere; conferma allora che è impossibile l’esercizio dell’intelligenza senza che questa venga diretta da uno interesse egoistico, ovvero se essa non è mossa da una pulsione. L’illusione umana di trasferire all’esterno la propria capacità intellettuale per soddisfare in modo più celere i propri bisogni pulsionali è destinata a fallire. L’intelligenza crea infatti identità e, laddove si forma un identità, si ha una concentrazione di interesse egoistico che impedisce l’asservimento a una autorità esterna. In altre parole, non si può creare un’intelligenza esterna prima di emotività e, quindi, di pulsionalità. Se ciò spiega il fallimento della missione guidata da Hal, fornisce però anche un’indicazione più precisa sul rapporto che Kubrick istituisce tra soggetto e desiderio e, in particolare, tra esercizio dell’intelligenza e esercizio del potere. Ovvero, l’intelligenza è strumento di soddisfazione del desiderio che fa riferimento all’egoità e che non pensare di controllarla; da qui il fallimento del progetto illuministico, di fare dell’intelligenza un’arma al servizio dell’eguaglianza, ottenuta attraverso un controllo delle proprie pulsioni per far coesistere armonicamente i diversi bisogni individuali.

David si rende conto di essere stato sconfitto e che il proposito suo e di Frank è stato scoperto. A questo punto fa un tentativo impossibile, ovvero cerca di reimporre il principio d’autorità secondo il quale Hal, che è soltanto una macchina, deve obbedire all’uomo; ma, come abbiamo visto, tale tentativo non può risultare vincente in quanto contrario alla natura stessa dell’intelligenza. David ordina senza discutere ad Hal di aprire la saracinesca, imponendosi come il padrone nei confronti del quale la macchina è al servizio. Ovviamente la risposta non solo non può che essere negativa, ma viene espressa addirittura con sarcasmo, laddove Hal replica che nessuna comunicazione ha più senso fra loro.

La vittoria di David, che riuscirà a entrare attraverso lo sportello d’emergenza e a disinstallare Hal rappresenta in parte una rivincita dell’uomo, una riappropriazione di ciò che egli aveva volutamente ma incoscientemente alienato. David entra in un nuovo canale, inquadrato come altre volte, ma in questo caso con un significativo movimento di ingresso e non di espulsione; e l’occhio di Hal, sempre quello, sembra adesso esprimere la consapevolezza della sconfitta e il timore della propria morte. D’altronde tale vittoria non smentisce l’assunto di fondo del film: Hal è sconfitto, supplica con patetismo David di risparmiarlo, promette una futura e onesta ripresa amichevole dei loro rapporti, ammettendo che quanto era successo non era dovuto a un guasto ma ad una cosciente decisione individuale. Ma l’uccisione dell’elaboratore da parte dell’astronauta conferma l’impossibilità di qualsiasi rapporto di potere che non implichi la sopraffazione, ribadisce l’impossibilità di qualsiasi collaborazione fondata sul compromesso razionale, sottolinea ulteriormente la volizione egoistica come motore per qualsiasi azione di progresso.

La scena della eliminazione di Hal non esprime però soltanto questo, ma presenta un aspetto pure più profondo. Da una parte Hal, con i suoi discorsi supplicanti, sempre più patetici, cui David oppone la stessa freddezza che l’elaboratore aveva dimostrato nei suoi confronti quando gli chiedeva di farlo rientrare nella astronave, dimostra il fondamento emotivo di qualsiasi comportamento intelligente, a conferma di quanto dicevamo prima. Addirittura la macchina afferma di avere paura, la paura dell’annientamento, in qualche modo avallando l’idea che l’esercizio dell’intelligenza equivalga in qualsiasi caso ad una volontà di affermazione di sé.

Più avanti però, Hal dichiara che la sua intelligenza sta svanendo: “la mia mente se ne va”. Percepisce chiaramente la perdita della propria coscienza individuale. Da questo punto in poi la sequenza cambia valenza e affronta un problema ancora più complesso: descrive infatti la regressione della capacità intellettuale alla sua origine. Ritorniamo dunque al problema del fondamento della natura umana, a quello dell’origine dell’intelligenza. Straordinario è il fatto che Hal, regredendo a uno stadio infantile, intoni una filastrocca (giro giro tondo), con tonalità sempre più rallentate ad indicare il suo spegnimento.

E’ interessante questa scelta, in quanto sembra che Kubrick sottolinei un origine ludica della facoltà razionale. Non ci si scordi come l’antropoide scoprì il funzionamento della leva, incuriosita dal movimento delle ossa e giocando a percuoterle. L’intelligenza non è dunque all’origine un progetto, ma trae spunto da attività in cui è coinvolto il nostro piacere; essa non è altro che un’acquisizione di consapevolezza rispetto al modo in cui questo può essere soddisfatto con maggiore appagamento. Ancora una volta, a fondamento c’è la pulsione egoistica tesa a massimizzare i momenti di piacere; l’intelligenza permette non solo questa migliore soddisfazione, ma porta alla consapevolezza che è solo con l’esercizio del potere che è possibile moltiplicare la soddisfazione dei piaceri, esercitando l’autorità sul corpo degli altri e permettendosi di agire irresponsabilmente con la sicurezza dell’impunità – questo tema arriverà alla massima consapevolezza in Eyes wide shut -.

Il messaggio successivo, che rivela il vero scopo della missione e che si ativa solo dopo lo spegnimento di Hal, ha lo scopo di raccordare fra loro i vari capitoli del film e, di conseguenza, preludio all’ultima parte. Da una parte sottolinea l’elemento della segretezza, notato – sia pure strumentalmente – da Hal in un precedente dialogo con David. La segretezza, come si era visto nell’episodio di Clavius, è l’elemento caratteristico dell’esercizio del potere, che garantisce il realizzarsi dei suoi privilegi. Dall’altra, collegando la missione di Giove con la scoperta del monolito sulla luna, propone la definizione di “prima testimonianza di vita intelligente fuori dalla terra” dello stesso parallelepipedo. In questo caso lo spettatore è ancora in condizioni di vantaggio sui protagonisti, relativamente alle informazioni possedute; ciò non si verificherà nella parte finale del film, laddove verranno proposte nuove e sorprendenti e enigmi verranno mostrati.

Difatti noi abbiamo veduto il monolito essere la causa dell’evoluzione intellettuale degli antropoidi; ciò non solo conferma l’origine extraterrestre dell’intelligenza, ma, soprattutto, fa comprendere come il confronto con il monolito sia in realtà il confronto dell’uomo con la stessa propria natura, con l’origine del suo mistero. Ecco perché Kubrick, in questa terza parte in modo ancora più esplicito che nelle altre – ma ciò sarà ancora più evidente nel successivo film, Arancia meccanica – ha mostrato, al di là del percorso di progresso compiuto dall’uomo mostrato all’inizio, la compresenza in ogni passaggio storico dei diversi momenti evolutivi della natura umana, dove l’animalità rimane sempre congiunta, condizionandola in modo decisivo, alla razionalità.

Giove e oltre l’infinito

All’inizio dell’ultima parte, lo spettatore già sa che in Giove è nascosto il mistero del monolito, in quanto l’informazione ha appena concluso il lungo episodio dello scontro tra l’uomo e l’intelligenza artificiale. Che Giove – per ragioni più plausibili negli anni ’70 piuttosto che ai nostri giorni – potesse indicare un’impresa ai limiti dell’universo, e comunque potesse caricarsi di un valore simbolico teso ad indicare il superamento della dimensione finita dell’esistenza, è chiarito da Kubrick nello stesso titolo dell’ultima parte. Il regista non intende dunque nascondersi la carica metaforica delle immagini e vuole far sì che lo spettatore non si attenda un finale convenzionale dal punto di vista narrativo. L’arrivo su Giove comporta l’accesso a una dimensione sconosciuta, la stesa trasformazione antropologica da parte di un uomo che ha finalmente raggiunto le radici del proprio essere.

La musica di quest’ultima parte non può essere altro che di György Ligeti, del quale, nel corso del film, Kubrick ha utilizzato, tre composizioni differenti (Atmosphere, Lux Aeterna, Requiem), tutte capaci comunque di creare un’atmosfera tesa a sottolineare il passaggio da una spazialità sconosciuta (il tranquillo valzer di Johannes Strauss) ad un’altra che si offre per la prima volta allo sguardo umano. Tale omogeneità di atmosfera non deve però portarci a sorvolare sulle differenze: laddove nell’ultima parte dell’episodio di Clavius e durante l’intera spedizione verso Giove, la musica comunicava una sorta d’inquietudine e conduceva lo spettatore ad attendersi un’evoluzione drammatica degli eventi, in quest’ultimo caso l’atmosfera di mistero non si carica affatto di pericolo, ma semmai del fascino della scoperta e della risoluzione di un mistero.

La scelta visiva di Kubrick, del resto, non fa altro che confermare tale impressione; ed è sorprendente notare come, pur attraverso le sole immagini di oggetti inanimati sospesi nello spazio, egli riesca a comunicarci una risoluzione della diegesi che obbedisce ai canoni più classici della tecnica di narrazione cinematografica. Tutto ciò che si vede, relativamente all’ambiente spaziale verso il quale David si trova lanciato, tende a rassicuare sul fatto che il film si avvia verso la sua conclusione, attraverso considerazioni riassuntive su quanto abbiamo sino a quel momento visto.

Innanzitutto l’immagine di Giove che, grazie al titolo che abbiamo appena letto, non rappresenta più uno dei tanti pianeti che fino a quel momento avevamo ammirato nei numerosi viaggi spaziali, bensì il limite, la porta d’accesso verso l’infinito. Successivamente vediamo il monolito sospeso nello spazio, a conferma della impressione iniziale: la tranquilla navigazione di questi misterioso oggetto, che sembra quasi galleggiare nell’aria, ricorda l’altrettanto rassicurante volteggiare dell’astronave di Floyd al ritmo del valzer straussiano. Il monolite, in questo spazio misterioso, in questa soglia della possibile comprensione umana, è di casa; il punto – Giove – dal quale emette radiazioni è il luogo della sua origine e, quindi, dell’origine stessa dell’uomo. Kubrick intende confermarci queste prime impressioni attraverso la reiterazione delle immagini appena descritte (ancora immagini di pianeti, quindi di nuovo il monolite) e poi, pur con una leggera variazione, ci ripropone l’icona del film, ossia la visione prospettica dei pianeti.

Con molta lentezza il regista sposta i corpi che riempiono l’immagine sino a condurli a formare l’immagine iniziale. Ma, quando tale visione prospettica si ricompone, cogliamo la fondamentale variazione tesa a risolvere l’enigma: all’interno di questa prospettiva si colloca il monolite, il quale si rivela essere proprio quell’intelligenza massima in grado di percorre la distanza, di trasportarci dalla dimensione umana a quella della trascendenza.

Che tale icona arricchita dal monolite debba essere interpretata in questa chiave simbolica, si evince dal fatto che Kubrick stesso non si cura più di alcuna coerenza realistica: non sappiamo se il monolite è lo stesso che abbiamo visto nelle scene precedenti, che dovrebbe quindi trovarsi sulla luna, o se è in comunicazione con un suo gemello. Dopo un percorso di conoscenza immenso, è certo che il monolite riempie quella distanza spaziale che all’inizio sembrava incolmabile, annulla lo scarto tra le potenzialità dell’intelligenza umana e il traguardo ultimo del suo sforzo che si proietta sempre all’infinito. Non c’è più bisogno del leitmotiv di Richard Strauss, in quanto l’incipit di Così parlo Zaratustra, come abbiamo già visto, tendeva a suggerire questa progressione che, pur realizzandosi, sembrava sempre mantenersi alle soglie del suo compimento, mentre ora siamo nella piena realizzazione, al preludio di una palingenesi che – come vedremo – non possiederà però caratteri squisitamente escatologici.

L’espressione “preludio” è forse quella più indicata per commentare le visioni appena descritte; difatti, non appena l’immagine iniziale dei pianeti si ricompone, inizia la lunga fase di effetti speciali, ad indicare il superamento da parte di David della consueta dimensione dell’essere. E come se si fosse aperto un sipario e, finalmente, possiamo lanciarci nel pieno dell’avventura, introdurci nell’oggetto da sempre visionato soltanto dall’esterno e comprenderne l’essenza.

Gli effetti speciali del film – giustamente lodati in quanto, per l’anno di produzione del film – erano effettivamente all’avanguardia, hanno il valore del passaggio. All’inizio queste immagini cromatiche velocissime, vengono ancora alternate con il primo piano di David, il cui casco riflette queste luci multicolori. L’immagine di David ha però un altro importante scopo: mostrarci la sua progressiva trasformazione fisica, il mutarsi delle sue fattezze, indizio della trasformazione della sua stessa natura umana.

Intanto le stesse figure mutano; ad un prevalere di linee che, ai margini laterali dello schermo, sfrecciano ad alta velocità attorno a David, seguono identiche fantasie cromatiche che percorrono la superficie questa volta sui margini superiore e inferiori, ad indicare il superamento di qualsiasi condizione nella quale ci si possa orientare. All’immagine del volto di David si sostituisce adesso quella del solo occhio, di cui si coglie il mutamento della funzione percettiva. Quello di David non sarà più un occhio umano, non vedrà più cose comuni, ma un altro mondo. Anche in questo caso viene anticipata la trasformazione dell’astronauta da uomo in superuomo.

La visione delle galassie che David attraverso introducono lo scoprimento, ovvero la visione di ciò che c’è dietro; appaiono figure paesaggistiche primordiali, che ricordano quelle descritte da Lovercraft in Le Montagne della Follia. In questa fase di “atterraggio”, durante la quale il nostro sguardo deve transitare da una sconvolgente velocità di nuovo ad immagini statiche, fanno da protagonisti i colori; i nuovi paesaggi vengono infatti mostrati attraverso monocromie sempre differenti, distese su tutto lo schermo. Come se i colori frenetici del trapasso di David si stessero acquietando, riconciliandosi con la realtà e posandosi nuovamente sugli oggetti finalmente distinti.

E’ a questo punto che, a mio parere, viene introdotto un particolare fondamentale, che può apparire marginale ma che – come abbiamo già spiegato – è stato invece utilizzato in questo saggio come strumento ermeneutico capace di fare chiarezza su tutta la seconda metà della filmografia kubrickiana. La capsula sulla quale viaggia David si è posata; ancora un primo piano del suo occhio che sembra faticare a riprendersi dallo shock visivo precedente e che, a poco a poco, sembra ritornare a una situazione di normalità percettiva. A questo punto il controcampo ci mostra ciò che David sta guardando, una realtà che va al di là di qualsiasi previsione possibile per lo spettatore.

Si tratta della prima esplicita immagine nella filmografia kubrickiana dedicata ad ambienti del XVIII secolo. Il particolare potrebbe essere marginale, o avere una valenza significativa unicamente all’interno dell’opera che stiamo analizzando – e per lo più solo nella sua ultima parte – se non fosse che da qui in avanti diventeranno costanti nell’opera del regista; anche quando non daranno luogo a visioni specifiche, le tematiche legate a tali contesti storici saranno sempre evidenti.

Siamo a una svolta: le problematiche che hanno sempre interessato Kubrick sin dalle sue prime opere, hanno finalmente raggiunto chiarezza concettuale e hanno trovato un loro riferimento culturale e filosofico che il regista non si lascerà più scappare e sul quale è intenzionato a riflettere per lungo tempo.

David appare collocato in una stanza con arredi tipicamente settecenteschi: la bianchezza è abbagliante, l’ambiente è di estrema eleganza e raffinatezza; al centro della stanza, a creare una prima impressione di straniamento, è collocato il monolite. Per quanto la paradossalità di quest’oggetto lo configuri sempre come una presenza estranea o quanto meno imprevista nei luoghi in cui si colloca, pure in questa situazione sembra molto più inserito che nelle precedenti. Se la purezza e la semplicità delle sue forma erano in contrasto col paesaggio primitivo degli ominidi, ad indicare una capacità razionale in contrasto con un mondo dominato dal puro istinto, il trovarsi in questo caso collocato in uno spazio che rimanda direttamente al secolo dell’illuminismo, all’imporsi della ragione sulla materia, costretta ad adattarsi alle sue forme e che opporsi all’eccesso pulsionale del barocco. In questo caso infatti l’ambiente è l’espressione dell’essenza stessa del monolite, dell’obiettivo cui lo stesso ha diretto l’esperienza umana. Ovviamente, anche in questo caso le immagini vanno comprese: non è il XVIII secolo l’apice della razionalità umana, ma l’espressione di quella consapevolezza dell’intelligenza che ha condotto anche alle imprese successive; per cui, tutto ciò che abbiamo visto nella seconda e terza parte del film, sono espressione di quella mentalità, trasmessa all’origine all’uomo dal monolito.

A confermare questa impressione vedremo più avanti il finale di Arancia Meccanica, dove il riferimento iconografico all’epoca dell’illuminismo sarebbe inspiegabile senza uno sforzo interpretativo di questo genere.

Un nuovo controcampo ci riporta a David, di cui si scorgono le fattezze mutate; anche in questo caso, sarei per interpretare tale mutamento esteriore quale mutamento interiore o antropologico, motivato da un processo di conoscenza in atto. Non è irrilevante che ora ha inizio un processo di sdoppiamento, grazie al quale David si vede come esterno a se in fasi evolutive diverse: conosce il suo destino, percepisce la sua stessa natura.

Iniziano in questo modo le sequenze forse più criptiche dell’intero film, che tendono a disturbare lo spettatore che si attende una maggiore chiarezza nella soluzione del problema: e non c’è dubbio che questa conclusione di 2001: Odissea nello spazio sia forse uno degli esempi, all’interno della cinematografia di Kubrick, di maggiore sperimentazione.E’ questo un elemento stilistico da sottolineare per un regista che non ha mai profondamente amato l’estetica di avanguardia ma che, come spesso capita per gli artisti innovativi dal punto di vista linguistico, ne hanno sempre utilizzato alcune scelte espressive nelle loro opere.

Kubrick procede quindi con uno sdoppiamento progressivo e del protagonista e dell’ambiente: in un primo tempo David si guarda allo specchio e con stupore constata la propria trasformazione; quindi si intravede un’altra stanza nella quale la mdp penetra lentamente e David vede se stesso, più avanti negli anni, che mangia su un tavolino elegantemente apparecchiato. Prevale, come in tutte queste sequenze, una forte luminosità, a rappresentare sia una coscienza alterata sia un’illuminazione della stessa coscienza. La mdp va incontro a David, fa un leggero movimento all’indietro, quindi si ferma stabilmente nella nuova stanza.

Dalla tavola David, i cui movimenti mostrano la precarietà di una persona anziana, fa cadere un bicchiere; l’atto diventa un pretesto per spostare lo sguardo sul letto, dove David si vede ancora più vecchio, calvo, sdraiato, in punto di morte. In quest’attimo supremo ha di fronte il monolito, nel quale si immerge la mdp, per le immagini conclusive. Prima però di descriverle, ritorniamo ad esaminare queste ultime sequenze.

Se da una parte l’analisi che abbiamo proposto vuole essere un punto di partenza per una disamina approfondita di tutta la filmografia di Kubrick, pure questo finale contiene – come vedremo – degli elementi autonomi. Come ho già anticipato, ritengo che Kubrick giunga a una conclusione pessimistica sulle possibilità emancipative connesse all’uso della ragione; pure, nel finale di 2001: Odissea nello spazio, ci propone un’interpretazione aperta, parzialmente positiva, che non ritornerà nelle opere successive.

E’ come se il regista, una volta fatta chiarezza relativamente ai temi su cui si concentra in modo ossessivo la propria opera, stesse esplorando possibili soluzioni, per arrivare a ipotizzare una possibile liberazione, la cui eventualità viene però smentita nelle opere future. A questo proposito, non mi sembra irrilevante un riferimento a Nietzsche; di conseguenza la scelta del Così parlò Zarathustra di Richard Strauss, al di là delle straordinarie qualità espressive del suo incipit, capaci di caricare di espressività l’immagine dell’universo concepita da Kubrick, suggerisce il richiamo alla tematica nietzschiana del superuomo.

David si trasforma, acquista un’altra natura, fino al punto da poter rinascere, per dare inizio a un nuovo uomo. E’ per questo che, a mio parere, nel film la dimensione della trascendenza raggiunta da David non si carica di significati escatologici. Non c’è la redenzione nel luogo in cui giunge David; c’è invece il superamento di una natura umana giudicata inadeguata per riproporre un nuovo inizio. Un ricominciare da capo, dunque, e non un concludersi.

David vede il suo progressivo invecchiamento sino alla morte; ma questa, preceduta dalla rottura del bicchiere, ad indicare la rottura ontologica che è destinata a prodursi, si trasforma, all’interno del monolite, in una rinascita. Come mai? In questa parte finale del film non si vede mai – come era accaduto invece in precedenza, pur nei differenti contesti – il conflitto tra pulsione e ragione: David vive in una dimensione quasi contemplativa e anche quando mangia manifesta una tranquillità d’animo estranea a ogni appagamento di natura sensibile. Tale constatazione è tutt’altro che marginale, se pensiamo all’importanza che la tematica dell’assunzione del cibo ha avuto nelle prime due parti del film, dove era sempre accompagnata dalla ricerca di piacere e dove quindi veniva istituita una continuità tra la istintività primitiva e la successiva evoluzione.

Ho richiamato il nome di Nietzsche perché la trasformazione mostrata da David non può che essere intesa in senso superomistico: non si vuole qui individuare un’assoluta corrispondenza tra la riflessione di Nietzsche e quella di Kubrick, fosse solo perché il concetto è carico di un’ambiguità tale da disorientare gli studiosi. Intendo riferirmi all’essenza stessa dell’idea di superuomo: l’idea che l’uomo, padrone finalmente della sua propria natura, possa agire nella completa consapevolezza di ciò che è, nel totale dominio della propria soggettività, non più sottoposta a coercizioni esterne, ma capace di mostrarsi spontaneamente nella sua pura essenza. David è il primo uomo che ha superato il limite tragico dell’esistenza dell’uomo, dell’incapacità della ragione di imporsi comunque nei suoi progetti. Supera la stessa natura umana – oppure la realizza in una dimensione però assoluta e utopica – e diventa l’immagine di quel nuovo possibile inizio che, se da una parte è mostrato da Kubrick nell’immagine finale – dall’altra rimane una possibilità scoperta attraverso un’opera di trascendimento, la cui realizzabilità effettiva rimane incerta. Sicuramente, comunque, David è l’unico essere umano che ha superato la “debolezza creaturale”, mostrata con geniale evidenza nella prima parte del film, ma condizione comune a tutti i protagonisti intelligenti comparsi in seguito, compreso Hal.

Come la mdp entra nel monolite, infatti, la compenetrazione tra spazio interno e spazio esterno, fra microcosmo e macrocosmo, è totale. Sul letto di morte di David si colloca un pianeta, a suggerire l’identificazione della trasformazione di David con quanto vedremo nelle ultime immagini. Accanto al pianeta un’altra forma sferica contiene al suo interno una figura fetale, simbolo della rinascita.

Si riascolta l’incipit della composizione di Richard Strauss, viene riproposta l’iniziale visione prospettica dei pianeti (ricongiungendo l’inizio con la fine e concludendo questa sorta di viaggio iniziatico) con il pianeta e la “sfera – feto” collocati nel mezzo.