23
Nov
2006

L’insofferenza per i grandi maestri: Abbado, Muti e il futuro dell’Orchestra del Teatro alla Scala

Da L’Acropoli, n°4 luglio 2005

L’insofferenza per i grandi maestri: Abbado, Muti e il futuro dell’Orchestra del Teatro alla Scala

E’ difficile comprendere le ragioni dell’attuale[1] crisi del Teatro alla Scala di Milano, che ha condotto alle dimissioni del maestro Riccardo Muti. In effetti, anche le ricostruzioni più accorte, di addetti ai lavori sicuramente meglio informati in merito ai rapporti personali o professionali tra le varie componenti dell’istituzione, non sono state in grado di offrirne una spiegazione adeguata, capace quanto meno di chiarire in modo esatto le posizioni e le rivendicazioni delle diverse parti in causa.

Quanto già si sapeva sulla difficile intesa tra il maestro Muti e il sovrintendente Riccardo Fontana, riguardo le stagioni operistiche concepite per il Teatro degli Arcimboldi, non è sufficiente a motivare prese di posizione tanto radicali ed aspre e, soprattutto, l’improvviso e inatteso attacco al direttore artisticoy da parte della totalità degli orchestrali, che ha reso inevitabili le dimissioni e irreversibile la crisi[2]. Era impossibile, infatti, ipotizzare la continuazione del felice sodalizio artistico dopo critiche tanto esplicite. E’ probabile, dunque, che anche le asprezze del carattere dei personaggi coinvolti abbiano giocato un ruolo decisivo nel drammatizzare la situazione, con i negativi esiti che ne sono conseguiti.

Una ricostruzione corretta delle motivazioni sindacali è, del resto, inutile, se si assume quale punto di vista una valutazione di ordine estetico, o meglio culturale, su ciò che è venuto a mancare al teatro e sulle prospettive future che, a seguito di quanto accaduto, lo attendono. Di fronte a questioni culturali e artistiche così rilevanti, le schermaglie o le sfide di tipo politico o anche sindacale che contrappongono le varie maestranze passano necessariamente in secondo piano. Anche perché, al di là di qualsiasi motivazione, l’esito è comunque quello di un teatro che ha rinunciato a svolgere un ruolo di eccellenza nel panorama della musica mondiale e, con un atto di autosufficienza probabilmente irresponsabile, ha inaugurato un periodo sicuramente di più basso profilo, che rischia di travolgere anche la tenuta qualitativa dell’orchestra.

Rimangono sicuramente le amarezze verso un contesto istituzionale incapace di proporre mediazioni e anzi interessato a sollecitare i contrasti, salvo poi non saperne gestire le conseguenze e tentare di scaricare su altri le responsabilità. Si tratta di una decadenza politico-culturale che riguarda buona parte della classe dirigente del nostro paese, ma che emerge con maggiore e preoccupante certezza proprio a Milano. In questa città, da tempo la politica culturale, nelle sue manifestazioni di maggiore interesse pubblico, non è valorizzata per la sua specifica importanza, ma è concepita quale patrimonio di cui servirsi per motivi di immagine, esercitare condizionamenti tesi tutt’altro che a privilegiare lo specifico culturale. Non esiste quel senso di rispetto super partes che porta la politica a compiere un passo indietro, nella consapevolezza che la vivacità culturale di una città ne valorizza comunque il governo; prevale invece l’idea del controllo economico, del volersi assicurare una rendita di tipo politico[3]. Situazione inimmaginabile a Parigi, a Londra o a Berlino, ma che nella degenerazione del potere politico dell’ultimo decennio in Italia è diventata quasi una costante.

Proposta questa semplice quanto amara constatazione, si vuole in queste pagine affrontare una questione più rilevante, che investe non l’immediato futuro ma le prospettive a lungo termine del livello qualitativo delle future stagioni scaligere. A parere di chi scrive, le dimissioni del maestro Muti rappresentano una perdita irrecuperabile, nel senso che sono destinate a segnare per molti anni lo spessore delle proposte musicali del teatro e la tenuta artistica della stessa orchestra; è possibile sostenere questa posizione in base a una considerazione storica che ripercorra le relazioni tra il Maestro e l’orchestra e cerchi di valutare con obiettività i risultati raggiunti.

Suscita quindi sconcerto la presa di posizione degli orchestrali, i quali avranno anche fatto valere legittime posizioni sindacali, ma non si sono pronunciati sullo specifico artistico che era oggetto del contendere. E’ comprensibile ed anche giusto che l’orchestra del teatro abbia una così alta considerazione di sé da ritenere di potersi mantenere per i prossimi anni sugli alti livelli raggiunti, indipendentemente dalla personalità del direttore artistico. Sottostimare però gli effetti del cambio di direttore, non valutandone a pieno la qualità del lavoro[4], e non tenere conto delle alternative possibili che il panorama musicale mondiale presenta, significa mettere a rischio il prestigio del proprio lavoro, con possibili ricadute sull’immagine dell’orchestra che si intendeva difendere.

1.
Riccardo Muti è, insieme o più probabilmente dopo Claudio Abbado, il più grande direttore d’orchestra vivente; va via da Milano sbattendo la porta e –se ne può essere certi- non ritornerà più a dirigere l’orchestra del Teatro, le cui dichiarazioni hanno reso impossibile –sono le sue stesse parole[5]– la prosecuzione del rapporto. Esattamente come Claudio Abbado, spesso presente in Italia –con i Berliner, la Mahler Chamber Orchestra, più recentemente con l’orchestra Mozart, ma anche alla guida di orchestre nazionali, come è accaduto per il Simon Boccanegra al 65° Maggio Musicale Fiorentino- ma che a Milano non viene più. Una situazione che sicuramente non giova all’immagine della città, qualunque siano le cause che l’hanno determinata.

Le ultime stagioni scaligere –comprese quelle tenute agli Arcimboldi- hanno avuto proprio nella direzione di Muti i momenti più alti, tra l’altro in un repertorio vastissimo[6], per nulla eclettico, corrispondente alla volontà del maestro di ricondurre le diverse stagioni non tanto a percorsi comuni, ma a sentieri di ricerca che invitavano l’ascoltatore a ricostruirne il valore storico. Le stesse interviste rilasciate da Muti in questi anni prima delle rappresentazioni, hanno spesso sottolineato proprio questo aspetto. Tra i momenti più alti –e mi limito alle ultime stagioni, quelle in cui l’orchestra è arrivata a compiere il proprio percorso qualitativo, sapendo esprimere in modo perfetto le intenzioni interpretative di Muti- è doveroso ricordare l’intero anno verdiano, l’Armide e la Ifigenia in Aulide di Gluck, il Moïse et Pharaon di Rossini, i Dialogues des Carmélites di Poulenc, per giungere all’ultima prima, L’Europa riconosciuta di Salieri. Inoltre è da segnalare l’eccellenza raggiunta dall’orchestra nel repertorio mozartiano, che in alcuni casi non ha fatto rimpiangere neppure i Wiener; sarà difficile non pensare a Muti la prossima stagione, anno mozartiano, dove per forza di cose vi saranno sconvenienti paragoni con gli altri direttori.

Per chi ha la costanza e la passione di seguire le principali opere eseguite nei diversi teatri del mondo –possibilità ormai aperta a tutti attraverso l’ascolto in rete[7]– è facile constatare come le esecuzioni scaligere di Riccardo Muti abbiano rappresentato momenti tra i più eccellenti dell’intera scena mondiale. Risulta quindi corretto affermare che, con le dimissioni di Muti, il luogo più rappresentativo in Italia, per quanto riguarda la lirica, sia ora il Maggio Musicale Fiorentino diretto da Zubin Metha; probabilmente, la collaborazione del maestro indiano con la Scala potrebbe far restituire a Milano il primato nazionale, ma il teatro non sarebbe più ai vertici mondiali come lo era con Muti. Non vi sono attualmente direttori capaci di ottenere analoghi risultati (fatto salvo per singoli repertori), men che meno tra quelli disponibili a svolgere il ruolo di direttore artistico.

Prima che fosse resa nota la nomina di Stèphane Lissner, sulla quale torneremo alla fine di queste osservazioni, il settimanale Time[8] aveva avanzato delle previsioni sulla sostituzione; a parte alcune segnalazioni in subordine che apparivano improbabili (Chailly, addirittura Abbado), i due nomi più credibili erano quelli di Daniele Gatti e di Antonio Pappano. La nomina del primo avrebbe costituito sicuramente una scelta felice, in grado di assicurare un’alta qualità delle esecuzioni, ma quella di Pappano prefigurava scenari futuri francamente preoccupanti, se confrontati con l’esperienza londinese.

A Londra, è noto, esistono diverse formazioni orchestrali di eccellenza; una condizione di superiorità che non permette alcun paragone con qualsiasi altra città italiana: la London Symphony Orchestra, che ebbe per molti anni alla guida Claudio Abbado, la Philarmonia Orchestra, guidata nei medesimi anni proprio da Riccardo Muti, l’Academy of St.Martin in the Fileds, la Royal Philarmonic Orchestra, diretta attualmente da Daniele Gatti, la Covent Garden Royal Opera House, di cui Pappano è direttore stabile, l’English National Opera, alla cui testa recentemente è stato nominato Oleg Caetani, destinato, nel mese di maggio, a sostituire Muti proprio alla Scala nella direzione di Otello. Nonostante questa varietà, si avverte a Londra un senso di declino, dovuto alla mancanza di un direttore di eccellenza, soprattutto per l’orchestra principale, la London Symphony[9]. Per rimanere alla Covent Garden Royal Opera House, non c’è dubbio che la sostituzione di Bernard Haitnik con Antonio Pappano abbia fatto registrare uno scadimento; Pappano è un direttore capace di garantire un repertorio vastissimo, e ciò assicura al teatro una notevole quantità di rappresentazioni; dopo Bernard Haitnik, però, l’orchestra non ha più suonato in modo convincente, ad eccezione di quando è diretta dall’anziano ma ancora notevole Charles Makerras, il cui recenteZauberflöte proprio al Covent Garden, per chiarezza e vitalità, è stato di assoluta grandezza. L’avere anche solo messo in conto una simile sostituzione –nel momento in cui si richiedevano le dimissioni di Muti- appare irresponsabile.

A questo proposito, può essere utile ricordare un episodio di questo autunno che ha coinvolto i due direttori: Riccardo Muti doveva dirigere proprio al Covent GardenLa Forza del Destino di Giuseppe Verdi e, contemporaneamente, Pappano essere a Milano alla testa dell’orchestra Verdi; lo scambio non si realizzò, per una disdetta di Muti che, a quanto affermato dalla direzione del Covent Garden, pretendeva due cambi della messa in scena che non coinvolgevano affatto la direzione musicale[10]. Ebbene, chi ha assistito alla Forza del Destino diretta a Londra da Pappano, o la ha potuta ascoltare attraverso la BBC, ha constatato l’implacabile differenza tra i due direttori, e valutato quanto Pappano sia sopravvalutato dalla stampa britannica[11]. Sicuramente il Maestro non aveva avuto tempo di effettuare prove adeguate e la seconda rappresentazione, a quanto hanno riportato i presenti, è stata migliore della prima, sia pure con un terzo atto insoddisfacente. Nel corso della prima emergeva una rottura dell’unità musicale, la mancanza di quella capacità –in cui eccelle Muti proprio nel repertorio verdiano- di dare pregnanza agli elementi apparentemente secondari ma che conferiscono all’opera compattezza drammatica. La difficoltà e la complessità strutturale dell’opera, in questo caso, non riusciva ad essere percepita.

E’ stato certamente casuale, ma nella sua involontarietà assolutamente significativo, il fatto che Riccardo Muti, nel suo ritorno alla Scala il 2 maggio a capo dei Wiener Philarmoniker, abbia scelto come bis proprio l’ouverture de La forza del destino; l’energia profusa e la valorizzazione di tutti gli aspetti di un brano introduttivo così rilevante per la comprensione dell’intera opera, hanno reso impietoso qualsiasi confronto e mostrato la differenza tra una corretta professionalità e una personalità artistica di superiore livello. Il giorno dopo, tra l’altro, sempre alla Scala, hanno dato un concerto i Berliner Philarmoniker, guidati dal loro attuale direttore stabile Simon Rattle; anche in questo caso è apparsa evidente tutta la distanza che separa il maestro italiano dal pur valido direttore inglese.

Un altro esempio, per sottolineare ulteriormente la singolarità di Muti sulla scena mondiale, può essere offerto dalla direzione de I due Foscari di Giuseppe Verdi, durante la stagione operistica 2004/2005; opera minore, dove solo il genio direttoriale può evidenziare le qualità e le caratteristiche che rientrano comunque all’interno di una poetica complessiva, destinata poi a concretizzarsi in assoluti capolavori. Si confronti l’esecuzione di Muti con quella, incisa, di Lamberto Gardelli: in quest’ultima si ha sempre l’impressione che manchi qualcosa, che lo sviluppo drammatico complessivo dell’opera fallisca, testimoniando una pagina sfortunata di Verdi. Ebbene, Muti riesce proprio a offrire questa dimensione unitaria, a comunicare l’idea di un progetto complessivo che valorizza non solo la singola opera, ma la inserisce in modo criticamente consapevole nell’intero iter verdiano, mostrando la continuità tra l’opera complessiva e i singoli capolavori. E tutto ciò rientra nel progetto di Muti, non limitato solo a Verdi, in base al quale l’opera non deve essere valorizzata solo dalla singola performance, ma inserita in una progettualità diacronica che permetta all’ascoltatore attento o comunque motivato di apprezzare anche le fasi preparatorie, minori, e inserirle in un più generale percorso culturale e artistico.

2.
Un analisi un minimo franca sugli ultimi ventisei anni di vita dell’Orchestra del Teatro alla Scala non può che prendere atto dell’assoluto miglioramento realizzatosi, soprattutto per quanto riguarda il repertorio sinfonico[12]; è anzi possibile asserire che, all’arrivo del nuovo direttore, l’orchestra non era in grado di proporre significativi confronti con le principali formazioni internazionali. Non è un caso che l’Orchestra Filarmonica della Scala, voluta e fondata da Claudio Abbado, direttore stabile precedente, non affrontava all’inizio della sua storia alcun impegno discografico.

Claudio Abbado aveva saputo ottenere straordinari risultati sul piano operistico, nel quale l’orchestra del resto aveva sempre primeggiato (si pensi a una delle più belle edizioni del Simon Boccanegra, diretta dal Maestro nel 1977) e aveva cercato di sviluppare la pratica sinfonica dando origine, appunto, all’orchestra filarmonica. I concerti, seguiti all’epoca con entusiasmo e interesse dagli appassionati milanesi, manifestavano tutte le inadeguatezze, sia per quanto riguarda la tenuta orchestrale, sia per la fluidità dell’inserimento delle parti solistiche all’interno dell’insieme. Nel repertorio mahleriano, ad esempio, alcuni interventi solistici suscitavano perplessità, laddove oggi gli orchestrali scaligeri mostrano una padronanza di prim’ordine[13]. La sezione degli ottoni –da sempre uno dei punti più deboli delle orchestre italiane- mostrava difficoltà a mantenersi in modo continuo su livelli accettabili; ricordo interpretazioni de Quadri di un’esposizione di Mussorskij, con interventi dei fiati assolutamente fuori tempo e di espressività sguaiata.

Oggi invece, è possibile apprezzare la capacità di questa sezione di inserirsi alla pari nel contesto d’insieme e di offrire il massimo contributo sul piano espressivo. In alcuni casi si ha l’impressione di un timbro non tra i più belli –se paragonato a quello, per esempio, delle grandi orchestre tedesche-, ma comunque perfetto nell’equilibrio complessivo richiesto dal direttore. Non c’è dubbio che tale progresso lo si debba a Muti che, quando non erano ancora stati compiuti questi decisivi miglioramenti, non esitò a impegnare l’orchestra in un repertorio particolarmente ostile (si pensi alle diverse opere di Wagner con cui vennero addirittura inaugurate alcune passate stagioni, verso la fine degli anni ‘90).

Fu proprio la situazione verificatasi a metà degli anni ’80 a spiegare la mancata intesa dell’orchestra con l’allora direttore Claudio Abbado, al quale venne addebitata –con una strana ironia della sorte, visto il carattere opposto delle accuse attualmente mosse a Muti- una scarsa presenza e fiducia verso l’orchestra. La scelta di andare in tournée con i Wiener –di lì a poco Abbado sarebbe diventato direttore dei Wiener Staatsoper- o la presenza incostante alle prime.

Muti arrivò a questo punto; lo precedeva, presso gli appassionati, un confronto serrato con Abbado: direttori nello stesso periodo di due prestigiose orchestre londinesi –la Philarmonia per Muti, la London Symphony per Abbado- e di altrettante grandi orchestre statunitensi –rispettivamente la Philadelphia Orchestra e la Chicago Symphony Orchestra- incidevano spesso identici repertori (es. le ouverture rossiniane) in coincidenza, provocando interessanti confronti.

Il merito di Muti in questi venti anni è stato enorme, non solo per i risultati raggiunti, ma per il fatto di avere accettato la sfida di portare l’orchestra ai livelli che competevano alla sua fama, soprattutto in campo sinfonico. Mentre Abbado oramai dirigeva esclusivamente le maggiori orchestre mondiali, egli si dedicava a questa minuziosa opera di costruzione artistica, con risultati positivi, ma che sono apparsi tali solo dopo un lungo e faticoso lavoro.

Fino alla seconda metà degli anni ‘90, l’orchestra rivelava ancora palesi insufficienze, ben mascherate dal Maestro. Per chi ha assistito ai concerti sinfonici di quegli anni, è possibile fare riferimento ad alcune esecuzioni di Beethoven, Schumann o Brahms; in esse si registrava già un progresso notevole, essendo spariti errori, difficoltà nella tenuta del tempo, ma non si andava forse al di là di una onesta applicazione professionale. Era come se il direttore trattenesse l’orchestra nei limiti espressivi da lui ben conosciuti. Le composizioni, ovviamente con diverse eccezioni, non erano eseguite in tutta le loro potenzialità, ma nello stesso tempo non c’erano sbavature, proprio perché il direttore sapeva ottenere il massimo dall’orchestra comprimendone gli eccessi espressivi, evitando che le sezioni più a rischio andassero al di là delle proprie capacità, eludendo forzature timbriche nelle quali l’orchestra poteva mostrare sbavature.

Che tale fosse allora il livello dell’orchestra, e che non si tratti solo di un ricordo sfumato col passare degli anni, può essere testimoniato dalle critiche ricevute nelle tournée all’estero; ne ricordo, verso la fine degli anni ’80, una in Spagna sotto la direzione di Carlo Maria Giulini: le recensioni furono assolutamente entusiastiche per il grande direttore, ma constatavano il livello inferiore dell’orchestra rispetto alle più accreditate compagini internazionali.

Per completare questa valutazione storica, può essere interessante proporre un paragone con l’esecuzione della seconda sinfonia di Brahms, avvenuta un paio d’anni fa (e di cui già si parlò su questa rivista[14]). Un’orchestra assolutamente matura, completamente padrona dei propri mezzi, capace di adattarsi alle esigenze interpretative che, in quel contesto, il maestro aveva proiettato sulla composizione.

Un quadro dunque, quello finora tracciato, che sottolinea in modo ancora più evidente l’eccellenza attuale, dimostrata con assoluta continuità, in repertori e sotto la guida delle personalità più diverse; basti pensare alla recente Europa riconosciuta di Salieri, dove il virtuosismo della sezione degli archi si è imposto in modo indiscutibile, probabilmente al di sopra delle stesse positive aspettative.

Ovviamente, qualora si condivida la valutazione finora proposta, la decisione degli orchestrali di chiedere all’unanimità le dimissioni del Maestro potrebbe sembrare ingratitudine. Conviene però lasciare da parte queste valutazioni emotive e non rigorose, quanto invece prendere consapevolezza della doppia possibile strada che si apre per il futuro del Teatro: una di scadimento qualitativo o, meglio, di consapevole rinuncia a prestazioni di assoluta eccellenza, che solo l’eccezionalità della statura artistica di Muti e di pochi altri potrebbe garantire; oppure l’idea, che sembra essersi fatta strada fra gli orchestrali, di potere gestire con maggiore autonomia la propria identità artistica e la stessa politica culturale del teatro, non rimettendosi interamente al protagonismo di alcun direttore artistico, ma affidandosi in modo alternato alla competenza e professionalità di alcuni nomi di valore. Probabilmente l’orchestra ha agito facendo sua questa seconda valutazione e assumendosi un rischio che, al momento, è difficile valutare quali effetti possa produrre.

3.
Ciò che rende le dimissioni di Muti una sorta di lutto che è necessario rielaborare non è solo l’altissimo livello qualitativo delle sue direzioni, quanto l’accuratezza con cui sceglieva le opere da dirigere nel corso di una stagione e i rimandi che proponeva tra una stagione e l’altra; in altre parole, l’attenzione riservata all’elaborazione di un programma culturale che non si esaurisse nel singolo evento, ma connotasse in modo significativo l’intera programmazione. Per Riccardo Muti non esiste l’evento spettacolo che ha in sé la propria autogiustificazione, ma ogni opera o esecuzione deve raccordarsi all’interno di un percorso preciso che ne valorizzi l’importanza culturale. E’ come se l’artista pensasse al suo pubblico ideale come non necessariamente già esperto, ma desideroso di partecipare con consapevolezza critica alla proposta interpretativa che gli viene offerta.

Muti cercava di spendere la propria autorevolezza per spingere il pubblico a questo atto di continua autoformazione; persuaso che il frequentatore medio –spesso anche nel pubblico abituale degli appassionati- non sempre si avvicina al concerto con questa consapevolezza critica, e nello stesso tempo cosciente che la degenerazione consumistica dell’attuale modello sociale sempre più tende a creare un distacco tra l’individuo e l’autentica essenza espressiva della musica, la sua azione sembrava in certi casi voler assumere quasi una funzione didattica, per guidare il pubblico verso un ascolto consapevole.

Questo disegno appare con totale evidenza se si esaminano le diverse stagioni del Teatro alla Scala negli anni di Muti (perlomeno per le opere da lui dirette) dove, ad esempio, la centralità e l’eccezionalità delle opere mozartiane veniva puntellata da tutto un repertorio settecentesco (da Gluck a Cherubini, una delle tante scelte coraggiose e innovative di questi anni) in grado di mostrare un’evoluzione, di definire la musica come processo storico che non può essere valutato esclusivamente a partire dai suoi momenti massimi. Solo questa interazione tra il vertice e il più ampio repertorio (in molti casi tra l’altro misconosciuto, ma in grado di rivelare esso stesso un grado di assoluta eccellenza), permette di comprendere a pieno anche le opere maggiori, di vederle come il risultato di un processo e di una serie di influenze senza le quali la stessa creatività del singolo genio non avrebbe potuto concretizzarsi nella materialità del gesto compositivo.

Tale intenzione è stata più volte ribadita nel corso di diverse interviste, durante le quali ha sempre parlato di un’opera in particolare riferendola ad altre già eseguite, mostrando l’importanza del percorso storico e della rete di riferimenti che i programmi delle diverse stagioni cercavano di valorizzare.

L’investire tutto se stesso nella musica, ritenendo la cultura l’unico autentico valore per il quale vale la pena di spendersi totalmente, ha probabilmente condotto Muti a quella sorta di presenzialismo che gli è stato rimproverato (sempre ha diretto le prime, suoi erano i momenti più rappresentativi dell’intera stagione, ha manifestato atteggiamento di palese insoddisfazione verso le altre opere in cartellone al Teatro degli Arcimboldi[15]). D’altra parte, se pensiamo ai contenuti del dissidio tra Muti e il sovrintendente Fontana, così come sono state sintetizzate dagli organi di stampa, è inevitabile dare ragione al primo e non al secondo. L’idea di coinvolgere, durante la stagione degli Arcimboldi, una più ampia fascia di pubblico, con opere classiche di repertorio, con cast però tutto sommato mediocri, pensando a riempire il teatro come prima esigenza[16], implica il riferirmento a un sistema di valori totalmente alternativo a quello auspicato dal Maestro, laddove il pubblico è stimolato a recarsi a Teatro sia dall’alta qualità della proposta, sia dall’informazione preparatoria finalizzata a coinvolgerlo. Che le stagioni operistiche nel periodo degli Arcimboldi fossero equiparabili –ad eccezione delle rappresentazioni di Muti- a quelle di qualsiasi teatro medio europeo è indubbio; sembrava non ci fosse alcuna volontà di sfidare il pubblico verso repertori più insoliti (la musica antica o il Novecento) che sono invece prassi nella realtà internazionale.

Il nuovo sovrintendente Meli, pur presentandosi in modo inopportuno, denunciando scandali e illegalità del suo predecessore, a Cagliari aveva allestito stagioni così originali e repertori talmente raffinati da avere sicuramente dato nuovo prestigio a quella istituzione[17].

Probabilmente questo progetto, nell’attuale contesto sociale, risulta utopistico, anche in un ambiente in fondo elitario quale può essere un ente lirico; lo dimostra la sordità ma, in alcuni casi, l’insolenza con cui le autorità politiche e culturali hanno risposto al Maestro. Dalla mancata presenza del ministro Melandri alla prima del 1998, quando preferì la cena organizzata dall’associazione «Gambero Rosso» al Crepuscolo degli Dei di Richard Wagner, alle assenze quasi ostentate (nonostante gli inviti e anche in questo caso i rammarichi del Maestro) del ministro Urbani; a questo atteggiamento facevano da contraltare gli appelli numerosi che Muti ha rivolto dal podio ai politici per finanziare la cultura, farla crescere, curarne l’incontro con il maggior numero di persone e, soprattutto, con i giovani. Ciò è avvenuto più volte durante gli anni alla Scala, ed è avvenuto anche a Venezia, in occasione dell’inaugurazione del ricostruito teatro della Fenice[18].

Poste queste premesse, i contrasti di ordine culturale con il sovrintendente Fontana erano probabilmente inevitabili e irrisolvibili; risulta dunque improbabile addossare unicamente al presenzialismo di Muti la crisi delle stagioni o la mancata partecipazione, durante le stesse, di altri direttori prestigiosi. In effetti –e se si eccettua la stagione attuale, che ha registrato un parziale cambio di tendenza- l’unica presenza di rilevo in questi ultimi anni, nella stagione operistica, è stata quella di Valerj Ghiergev per l’esecuzione della prima versione del Boris Godunov[19].

4.
A seguito delle osservazioni appena proposte, risulta a mio parere irrinunciabile un confronto tra la personalità di Riccardo Muti e quella del suo predecessore, il maestro Claudio Abbado. Solitamente i due nomi vengono citati sempre in una logica di contrapposizione, sulla base della evidente diversità delle loro concezioni interpretative.

Questa contrapposizione, spesso analizzata con finezza sul puro piano musicologico, altre volte invece fatta scadere nella banalità del pettegolezzo politico-culturale, non è la migliore prospettiva per comprendere l’arte dei due direttori e, soprattutto, per operare un confronto proficuo tra le loro esperienze. E questo sia dal punto di vista dell’interesse estetico di chi ha la fortuna di apprezzare e godere della loro arte, sia rispetto alla comprensione del più generale progetto complessivo che ispira il loro lavoro.

E’ interessante, per valorizzare quanto appena affermato, fare riferimento a una breve nota di Riccardo Chiaberge[20] che, pur riprendendo questa contrapposizione, propone delle valutazioni che in realtà la superano, facendo intravedere la possibilità di un’analisi finalmente più serena e puntuale. Il giornalista individua infatti un contenuto di possibile accordo tra i due maestri, e cioè la priorità assoluta attribuita alla cultura, intesa come l’esperienza di crescita più signficativa a disposizione della persona; la musica concepita come esperienza imprescindibile per il progresso civile e morale degli uomini, colta però –pur rispettando le competenze tecniche ovviamente diversificate di chi vi si dedica- nella sua dimensione storica, e non invece deificata nei singoli eventi che creano artificiali contrapposizioni nei repertori, alzando steccati, circoli elitari, “risentimenti” nel senso adorniano.

Un tale progetto sembra veramente rappresentato al meglio dalla personalità dei due, dove la musica coinvolge in modo tale da andare al di là della professionalità e condizionare l’intero progetto d’esistenza. Claudio Abbado, ad esempio, ha lasciato volontariamente la direzione dei Berliner Philarmoniker per motivi esclusivamente musicali; per avere la serenità e il tempo di dedicarsi a pochissimi progetti l’anno, nei quali concentrare e raggiungere il vertice della propria ricerca. In questo senso va letta, a mio parere, l’organizzazione del Festival di Lucerna, o l’accuratezza delle incisioni degli ultimi anni (p.es. il Falstaff di Giuseppe Verdi[21]), realizzate con l’intenzione di pronunciare, a proposito delle sua visione della musica, una sorta di parola definitiva, di lasciare ai posteri un contributo ultimo, rappresentativo del proprio modo di comprendere determinati capolavori.

Ma questo solipsismo o atteggiamento quasi mistico si coniuga con l’interesse che tale ricerca, e quindi l’intero mondo musicale, si riproduca e prosegua nel proporre evoluzioni che possano anche superare tali punti fermi. Da una parte con la continua attività didattica e di formazione, iniziata già da tempo con la Mahler Chamber Orchestra e attualmente con l’orchestra Mozart, nell’intenzione di curare l’educazione di giovani musicisti, con risultati in tutti i casi notevoli, che hanno arricchito il panorama della musica mondiale con formazioni orchestrali di alto livello; dall’altra proseguendo egli stesso l’approfondimento e la ricerca, investendo parti del repertorio non esplorate nella prima fase della carriera. E’ il caso delle opere di Richard Wagner: nonostante alcune riserve, a mio parere immotivate, che hanno accolto il Parsifal di Salisburgo nel 2001, mi sembra, come testimoniano anche esecuzioni più recenti realizzate al Festival di Lucerna, che, se ne avesse l’energia, la lettura del Ring di Abbado sarebbe l’unica oggi in grado di rivitalizzare l’edizione di Bayreuth, dopo la insostituibile perdita di Sinopoli.

Un’altra iniziativa, che ha messo ben in luce la personalità di Abbado quale promotore culturale, è il progetto Gesualdo da lui voluto a Matera, per valorizzare un repertorio che non è certo per lui abituale, ma che è a fondamento della formazione dei maggiori direttori dei nostri tempi, e la cui conoscenza approfondita è necessaria per apprezzare lo stesso periodo classico, quello che parte del pubblico vorrebbe ascoltare in modo esclusivo e perciò (come si ricava a mio parere anche da quanto detto più volte da Muti) acritico. La finalità del progetto è stata quella di riportare Gesualdo a Matera, caratterizzandone la musica sia territorialmente, sia però mostrandone l’universalità in relazione agli sviluppi futuri. Non a caso l’esecuzione è stata affidata a uno straordinario gruppo cubano di musica antica (Ars Longa de la Havana), che si avvale ormai da tempo della collaborazione del Maestro. Il senso dell’iniziativa era tra l’altro quello di confrontare il repertorio coevo della tradizione italiana (il madrigalismo) e di quella ispano-americana. Un superamento stesso della dimensione occidentalocentrica che non ha nulla a che vedere con la demagogia della world music, e che apre prospettive di ricerca e di ascolto, in grado di allargare gli orizzonti di chi si accosta alla musica in modo meditato.

Patetica, da questo punto di vista, è stata la levata di scudi di tante firme del giornalismo nazionale a proposito dell’appello firmato da Abbado a favore dell’isola di Cuba e contro l’embargo statunitense; non tanto nel merito, sul quale si deve discutere, quanto nel non comprendere l’originalità e l’urgenza di quella posizione. Qualunque possibilità di mutare in positivo una situazione critica –e questa a mio parere la concreta intenzione del maestro- non può che passare dalla collaborazione e dallo sviluppo culturale, l’unico in grado di realizzare un’autentica presa di coscienza e di far percepire in modo chiaro i limiti della propria situazione. Un embargo che marginalizza sempre di più le stesse espressioni culturali, non può che pregiudicare la crescita futura, creando miseria e fondando le aspirazioni della popolazione su aspettative consumistiche che, anche in un eventuale futuro diverso, non potranno essere pienamente soddisfatte. Si tratta di suggerire una diversa strategia per affrontare i contrasti politici e le differenze ideologiche puntando sulle possibilità di contatto proprie della dimensione culturale, approfondita e studiata nei suoi contenuti più originali.

E’ evidente che il maestro Muti mai avrebbe firmato quell’appello e che altri siano i suoi riferimenti culturali (anche se è indubbio che lui stesso pure apprezzerebbe la ricerca sulla musica antica ispano-americana); ma identica rimane l’importanza attribuita alla cultura, la valorizzazione di questa prassi rispetto a quella del semplice spettacolo, la convinzione che l’arte non costituisca un valore aggiunto superfluo per l’esistenza ma l’espressione stessa della dignità umana, capace di trasformare in positivo la coscienza civile e comunitaria. Da qui la centralità in entrambi del progetto didattico, sia nei confronti delle giovani orchestre o dei giovani musicisti, così come del pubblico. Ed è proprio questa qualità che, a mio parere, distingue maggiormente la carriera di queste due figure intellettuali da quella di altri, pur grandi, direttori d’orchestra sulla scena ai nostri giorni[22].

Sicuramente può sembrare un’affermazione demagogica o quanto meno ad affetto, ma rimane una coincidenza scoraggiante: che tali due figure così importanti per la scena musicale contemporanea, cui gli appassionati di tutto il mondo devono tanto, siano stati allontanati dal Teatro alla Scala e, probabilmente, non ne dirigeranno più l‘orchestra, dovrebbe far riflettere sulle scelte che sono state recentemente adottate.

5.
Conviene approfondire il confronto tra le personalità dei due maestri anche sul piano stilistico. La forma della contrapposizione, anche in questo caso, risulta essere fuorviante, soprattutto quando viene caricata di valutazioni ideologiche fuori luogo. La pluralità delle interpretazioni deve essere, per chi la musica non la esegue ma la vive nella comunque gratificante esperienza dell’ascolto, una ricchezza, capace, nel confronto, di meglio delineare l’oggetto sonoro.

Suggerisco come esempio il repertorio romantico, rispetto al quale sia Muti sia Abbado propongono una lettura di estremo interesse, ma per certi versi opposta. Abbado –ormai da alcuni anni- compie un lavoro di scarnificazione di tutto ciò che, in apparenza, viene associato alla sensibilità romantica; né elimina tutta l’enfasi, l’espressività ad effetto, deludendo quelle che potrebbero essere le aspettative di un pubblico a suo agio con le esecuzioni abituali. Si prenda ad esempio l’incisione delConcerto per pianoforte e orchestra di Schumann del 1990[23], dove si riduce la composizione allo scheletro, quasi –per usare un linguaggio preso a prestito dalla fenomenologia- riducendola alle essenze e abolendo alla radice qualsiasi enfasi (il finale, tagliato di netto, sembra quasi non voler distrarre dalla razionalità sintattica dell’intera conclusione). Non a caso il pianista dell’incisione è Maurizio Pollini, il quale da sempre persegue una ricerca analoga; il suo Schubert può lasciare perplessi, anch’esso ridotto all’osso, reso spigoloso dall’essenzialità dei passaggi e, in alcuni casi, dalla voluta carica del timbro. Anche nel concerto di Schumann viene esaltata la materialità del suono, fino quasi a far sentire, nella foga percussiva, il legno del pianoforte.

La valenza di una simile interpretazione è quella di evidenziare uno dei molteplici ma reali aspetti della poetica romantica; in questo caso l’urgenza espressiva che –magari anche attraverso l’enfasi qui volutamente trattenuta- ha posto le basi per quella disarticolazione linguistica o scomposizione dei codici comunicativi che avrebbe caratterizzato l’esperienza musicale del XX secolo. Non è un caso che, nella stessa incisione, il concerto di Schumann sia seguito da quello schonberghiano per pianoforte e orchestra. Ulteriore intenzione è quella di mostrare la fisicità, la corposità dell’espressività romantica, evitandone la facile quanto fasulla spiritualizzazione; carne e sangue, passione che cerca utopisticamente di esprimersi forzando la dimensione della stessa materialità.

Simile lettura –per rispondere a un’obiezione frequente quanto ingenua- avrebbe quantomeno sorpreso i compositori dell’epoca (forse no però il Beethoven degli ultimi quartetti o delle ultime sonate); ma la legittimità di tale interpretazione sta nel fatto che proietta nel futuro quel repertorio e ne mostra, per così dire, la verità strutturale, il nucleo creativo che avrebbe a sua volto condizionato il succesivo sviluppo della musica europea. Non è certo un caso che, nei concerti di Abbado o di Pollini, compaia un accostamento che coinvolge l’avanguardia del Novecento (in particolare Luigi Nono o Karlheinz Stockhausen), autori non frequentati da Muti[24].

Schubert, nell’interpretazione di Riccardo Muti, appare secondo una prospettiva affatto differente; ed è forse nella lettura di questo compositore che il maestro napoletano raggiunge i suoi vertici artistici. Un primo aspetto che colpisce è la volontà di controllo assoluto del tempo, quasi alla maniera di Toscanini. Ma si tratta solo di un aspetto, di una falsa rigidità coniugata invece a una morbidezza e a una capacità di far scaturire con estrema naturalezza la costruzione compositiva, la relazione tra il tema e le variazioni nella mirabile genialità del compositore viennese. Come si è già fatto notare a proposito di Verdi, Muti possiede la straordinaria dote di evidenziare con naturalezza gli elementi complessi compresi in una composizione a partire da un’esposizione che non rinuncia alla semplicità e alla naturale continuità dell’insieme[25].

Non è necessario, dunque, leggere le differenti interpretazioni nell’ottica della contrapposizione, quanto in quella della complementarietà. Le due diverse ipotesi di lettura consentono la migliore comprensione dell’oggetto musicale; è preferibile quindi, prima di pronunciare il giudizio estetico, cogliere con precisione i caratteri ontologici della composizione, così come descritti dagli interpreti, per discuterne la legittimità e la valenza. Sulla base di questo giudizio diventa poi possibile la valutazione estetica[26].

Se letta in quest’ottica, non esiste più contrapposizione, e si può ipotizzare che gli stessi interpreti non l’avvertano con tale intensità. A confermare questa valutazione, è, a mio parere, la personalità di Maurizio Pollini, il quale, da sempre pianista in perfetta sintonia con Claudio Abbado nel repertorio beethoveniano, schumanniano, fino a Schönberg e a Stockhausen, da anni intrattiene anche una felice collaborazione con il maestro Muti, in particolare nei concerti di Mozart. Repertorio che già il giovane Pollini aveva contribuito ad innovare nelle storiche incisioni con Karl Böhm.

Più volte i due artisti hanno sottolineato la loro comune sensibilità nel modo di interpretare i concerti mozartiani; non sorprende, se si valuta a pieno il percorso di Pollini il quale, se da una parte ha radicalizzato l’interpretazione di Beethoven e di Schubert, dall’altro ha quasi ammorbidito Chopin, non mostrando affatto rigidità interpretativa, bensì una assoluta sensibilità storica.

Nel caso di Mozart, l’artista stesso ha precisato[27] la pluralità di atteggiamenti e di prospettive interpretative presenti nella scrittura del compositore, che non ne permettono una lettura univoca; anzi, il riferimento al passato e al futuro è talmente intrecciato nella partitura, che l’interprete è chiamato a mantenere e a conservare la struttura unitaria del concerto dando nel contempo testimonianza di questa assoluta variabilità espressiva, che evita una lettura semplicistica secondo le chiavi di ottimismo, pessimismo e via dicendo. In questo caso l’incontro con Muti non ha nulla di sorprendente, ma si inscrive in quella continuità e comunanza nel modo d’intendere il valore della musica richiamato anche da Chiaberge.

Non meraviglia il pronunciamento dello stesso Pollini sulla presa di posizione degli orchestrali nei confronti di Muti, non motivata, a suo parere, da autentiche esigenze artistiche, prioritarie per qualsiasi complesso orchestrale.

6.
E’ un fatto che i temi richiamati in queste pagine non sono stati minimamente sfiorati nel corso delle polemiche che hanno provocato il precipitare della crisi. Riccardo Muti, conteso dalle principali orchestre internazionali[28], ha sicuramente meno da perdere dell’orchestra, la quale può bruciare in poco tempo quanto di prezioso accumulato in questi anni. Probabilmente, nell’esasperare la tensione, hanno contribuito anche rigidità del carattere. Ma ancora una volta, le ragioni artistiche avrebbero dovuto portare a un ripensamento, soprattutto se si pensa al grado di eccellenza raggiunto in questi anni.

Si ha l’impressione invece che l’orchestra si illuda troppo sulla propria capacità di autogovernarsi, di potere condizionare il programma e quindi di poter fare a meno di un autentico direttore artistico. Tale intenzione si è concretizzata in occasione del concerto che l’orchestra ha offerto al Conservatorio di Milano; iniziativa concepita per riallacciare un contatto con la città in questi difficili momenti, con un repertorio sufficientemente “popolare” e accattivante, ma dove sembrava si volesse dimostrare la capacità del complesso di esprimersi ad alti livelli anche senza la guida di un direttore[29]. Un’impressione di autosufficienza che lascia perplessi, nonostante gli applausi scroscianti della serata, cui bisogna però contrapporre la lunghissima ovazione (più di cinque minuti) dedicata a Muti al suo ritorno in Teatro, il 2 maggio, alla guida dei Wiener Philarmoniker.

7.
Dopo questa analisi francamente scoraggiante, soprattutto per la deriva demagogica che sembra segnalare, è bene valutare con freddezza le prospettive concrete e considerare –al di là della perdita irrecuperabile- le scelte attuate di recente dalla Fondazione. La nomina di Stéphane Lissner contemporaneamente a direttore artistico e a sovrintendente, risulta essere una decisione felice. Non un nome tra i più noti (che, del resto, non erano sicuramente disponibili), ma comunque una personalità forte, attivista culturale di prim’ordine, decisamente innovatore nella scelta del repertorio. Una nomina per certi versi coraggiosa, capace di far pensare a un nuovo inizio, a un progetto di lunga durata cui possa corrispondere un programma di lavoro stimolante.

Le prime interviste rilasciate da Lissner[30], che unifica le cariche di direttore artistico e di sovrintendente, hanno evidenziato tutta la drammaticità della situazione attuale, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di allestire stagioni autenticamente significative per i prossimi anni, in ragione del largo anticipo con cui gli artisti solitamente fissano i loro impegni.

Dall’altra, però, Lissner ha anche manifestato delle intenzioni parzialmente contraddittorie: da una parte ha chiesto carta bianca per risolvere la situazione, e quindi gestire in prima persona e con piena responsabilità le scelte del teatro, non dividendole con alcuno (da questo punto di vista sembra ripresentarsi lo stesso presenzialismo rimproverato a Muti). Dall’altra, però, ha detto chiaramente che la direzione artistica, o meglio, la guida concreta dell’orchestra, farà riferimento a diverse personalità di prestigio; si fanno i nomi di Wolfgang Sawallisch e di Zubin Metha. Questo implica la possibilità di una gestione artistica in qualche modo non centrata; un’orchestra che dunque ritiene di poter crescere per il momento senza un lavoro finalizzato a una particolare concezione del suono o comunque impostato da una personalità riconoscibile. Soluzione possibile ma che, come in parte si è già detto, comporta numerosi rischi, nel momento in cui più volte è accaduto che anche formazioni orchestrali di grande tradizione hanno patito l’arrivo alla loro testa di un direttore di capacità e carisma meno convincenti (p. es. i Berliner dalla guida di Claudio Abbado a quella di Simon Rattle).

Inoltre, a precisa domanda rivolta a Lissner, sul suo prediligere un repertorio fortemente radicato nel Novecento e incline a privilegiare autori e composizioni anche dell’avanguardia più pronunciata –manifestando estraneità a un certo tradizionalismo che, secondo l’intervistatore, sarebbe proprio della Scala e del suo pubblico- il nuovo sovrintendente si è detto pronto a rivedere questa sua inclinazione, ritenendo necessario adattarsi ai diversi contesti e alle situazioni socio-culturali in cui si trova ad operare. Si tratta di una dichiarazione di una certa gravità, in quanto il direttore artistico abdica alle proprie convinzioni profonde per conformarsi a generiche sensibilità ambientali. Ancora una volta, quindi, si profila il rischio di una rinuncia a una stagione con un taglio originale, per sostenere una logica di compromesso che alla fine non sarebbe di vantaggio per nessuno. Se le intenzioni non erano quelle di caratterizzare in modo nuovo i programmi, era inutile chiamare Lissner.

Lissner, non si dimentichi, è stato anche direttore del teatro di Chatelet, un teatro che –come i festival che Lissner organizza- non ha un’orchestra propria; non presenta quindi esigenze simili a quelle di istituzioni orchestrali stabili, ed ha la possibilità di rappresentare anche allestimenti che non troverebbero spazio in altre sedi. E’ da valutare, quindi, se sia la persona più adatta a guidare la Scala, al di là dei suoi indubbi meriti personali.


[1] Nonostante la nomina del maestro Stéphane Lissner alla doppia carica di sovrintendente e di direttore artistico, è possibile affermare che la crisi non sia ancora stata superata, fosse solo perché risulta ormai problematico garantire un alto livello qualitativo per le prossime stagioni.

[2] L’assemblea dei lavoratori del teatro, riunitasi lo scorso 16 marzo, ha votato le dimissioni di Riccardo Muti con settecento voti favorevoli, tre astenuti e due contrari.

[3] Per chi volesse approfondire questo aspetto, è consigliabile la lettura di due articoli pubblicati sul quotidiano il Manifesto il 17 marzo2005, rispettivamente di Oreste Bossini e di Bruno Perini; e di uno, sempre di Oreste Bossini, il 3 aprile 2005.

[4] E’ ovvio che l’orchestra è pienamente consapevole del valore del maestro Muti, pure la singolarità del suo apporto sul piano dei risultati artistico-culturali mi sembra non sia mai stata oggetto di specifiche considerazione nei giorni della mobilitazione.

[5] “Oggi mi si accusa di non voler fare solo il direttore musicale, ma anche il direttore artistico e, forse, il sovrintendente e forse influire addirittura sulla candidatura del prossimo sindaco. Dovrei sorridere se lo spettacolo non fosse così malinconico.” Dalla lettera inviata da Riccardo Muti al Corriere della Sera, 9 marzo 2005. Nelle note si faranno diversi riferimenti a questa lettera, in quanto le parole del maestro confermano in pieno l’analisi sulla sua attività artistica di questi anni, elaborata autonomamente da chi scrive.

[6] “Il risultato positivo di tanto lavoro si è fatto naturalmente sentire soprattutto alla Scala nella esecuzione di opere di epoche e stili diversi con il plauso di tutti i direttori, che in questi anni si sono avvicendati sul quel podio”; dalla lettera di Riccardo Muti, cit.

[7] Il sito che offre la panoramica più completa sulle opere trasmesse attraverso la rete è www.operacast.com.

[8] Cfr. J. Horowitz -E. Povoledo, Conductor of Italy’s La Scala Opera Resigns, Time, 02/04/2005.

[9] Cfr. l’intervista rilasciata a The Guardian, 13 maggio 2005, da Clive Gillinson, ex sovrintendente della London Symphony, attualmente a New York presso la Carnegie Hall; egli lamenta l’incapacità dell’orchestra di svolgere una funzione trainante rispetto a tutte le altre formazioni londinesi, come era in passato e come tutt’ora svolgono i Berliner Philarmoniker per le altre orchestre della capitale tedesca.

[10] Se ne potrebbe dedurre una rigidità di carattere da parte di Muti, del resto frequenti in personalità di così alto prestigio; tre estati fa, Claudio Abbado rinunciò a dirigere i Wiener a Salisburgo, poiché l’orchestra non intendeva rinunciare alla turnazione degli orchestrali durante le prove.

[11] Tale valutazione è ovviamente personale; Antonio Pappano, divenuto recentemente direttore stabile dell’Orchestra romana di Santa Cecilia, ha ricevuto apprezzabili giudizi dopo il primo concerto, il Deutsches Requiem di Brahms ,tenuto lo scorso 7 maggio a Roma. Ci sembra però poco credibile ritenerlo superiore, come è stato scritto, a Simon Rattle o a Daniel Harding. Cfr. le recensioni di C.Moreni, Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2005, p.46 e di P.Cacciatori in www.operaclick.com.

[12] “… l’Orchestra ha gradualmente raggiunto un livello oggi da tutti riconosciuto ed apprezzato. Questa qualità nuova ha permesso un’attività sinfonica di successo non solo in sede, ma in tutto il mondo, con grandi affermazioni in luoghi difficili e competitivi come i Festival di Vienna, Lucerna e Salisburgo.”. Lettera di Riccardo Muti, cit.

[13] Il superbo risultato ottenuto con le due prime al Teatro degli Arcimboldi, Ifigenia in Aulide e Moïse et le Pharaon, sarebbe stato impossibile senza la eccellenza dei solisti, in particolare degli oboi.

[14] G.Carosotti, Gli 80 anni di György Ligeti, L’Acropoli, 1/Febbraio 2004, p.53.

[15] “Spinto, invece, dalla preoccupazione grave di molti, che avvertivano con me il lento, ma inarrestabile decadimento delle proposte artistiche scaligere, puntualmente criticate dalla stampa (in netto contrasto con la crescita qualitativa dei complessi artistici), ho ad un certo momento deciso di denunciare al Consiglio di Amministrazione e al Sindaco una situazione pericolosa per l’immagine della Scala e di fronte alla quale mi sentivo impotente”. Lettera cit.

[16] “…il trasferimento al Teatro degli Arcimboldi. E’ stata questa una sfida non solo logistica e organizzativa, ma anche e soprattutto per la programmazione artistica, che doveva tenere conto, da una parte, dell’identità scaligera che andava salvaguardata e, dall’altra, della necessità di avvicinare e coinvolgere un pubblico nuovo per il Teatro d’Opera. Il risultato delle due stagioni realizzate agli Arcimboldi è noto: a fianco di inaugurazioni con opere di alto profilo culturale come Ifigenie en Aulide e Moïse abbiamo sviluppato cartelloni più popolari che hanno consentito di ottenere un’eccellente presenza di pubblico, tradizionale e nuovo, con un incremento di quest’ultimo pari al 20%”; dalla lettera del sovrintendente Fontana, in risposta a Riccardo Muti, pubblicata sul Corriere della Sera il 10 maggio.

[17] “Ho pensato allora ad una persona, che negli ultimi anni aveva attirato l’attenzione e il plauso di pubblico e critica per l’intelligenza dimostrata in un teatro, indicato spesso come esempio da imitare per la novità e la ricchezza delle idee: Mauro Meli. Costui non è e non è mai stato mio amico personale, come è stato scritto, bensì collaboratore del Maestro Claudio Abbado a Ferrara per molti anni e, poi, Sovrintendente a Cagliari, dove è riuscito a portare artisti di prima grandezza, a cominciare da Carlos Kleiber”. Lettera di Riccardo Muti, cit.

[18] “Come possono aver dimenticato gli Scaligeri le mie lotte insieme a loro contro i pericoli da parte dei governanti di tagliare i fondi alla cultura, di soffocare l’insegnamento della musica nelle scuole, di porre in ginocchio le istituzioni culturali, di rendere precaria la loro esistenza? In tutti questi anni sono sempre stato al loro fianco, valorizzando i solisti dell’Orchestra, commissionando tanti nuovi lavori a compositori giovani o affermati, fiero della grande qualità raggiunta dalle masse artistiche e tecniche. Tutto questo è avvenuto mentre a Milano e alla Scala sindaci, sovrintendenti (Badini, poi Fontana), direttori artistici, capi del personale, direttori dell’allestimento scenico, capi ufficio stampa, dirigenti vari cambiavano, talvolta con frequenza inquietante”. Lettera cit.

[19] “qualcuno da anni si è adoperato con una tenacia sorprendente a diffondere con il metodo del crescendo della «calunnia» di rossiniana memoria, la favola che io avrei impedito la presenza di grandi direttori alla Scala. L’accusa è così infamante che non meriterebbe risposta. Ma desidero ricordare i numerosi appelli, anche sulle pagine di questo giornale a Claudio Abbado, perché tornasse alla Scala e un appello particolare rivolsi a Lui nell’anno verdiano, perché accettasse di dirigere nel «Suo» Teatro un’opera di Suo desiderio. Le risposte cortesi del Maestro furono sempre di impossibilità per varie ragioni. Baremboim, Maazel, Rattle, Mehta, Ozawa, Boulez e altri di prima grandezza possono essere testimoni degli inviti a loro rivolti da parte mia, perché venissero a dirigere alla Scala. Molti di questi direttori sono presenti, invece, al Festival di Ravenna, cioè nella città in cui vivo”. Lettera cit.

[20] R.Chiaberge, Muti e Abbado uniti. Contro i tagli, Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2005, p.29.

[21] Deutsche Grammophon 471194.

[22] Gli esempi di Muti e Abbado non sono certo unici; per rimanere a Milano, si potrebbe ricordare il positivo lavoro svolto da Riccardo Chailly, che in pochi anni ha condotto l’orchestra Verdi, da una situazione di partenza di notevole precarietà, ad essere una formazione assolutamente autorevole, anche nel repertorio più ostico, come quello del ‘900. Chailly, dopo il lavoro egregio svolto con la Concertgebouw di Amsterdam, è diventato ora direttore della Gewandhaus di Lipsia; valutando il programma pubblicato sul sito dell’orchestra, è possibile osservare una cura nelle scelte musicali simile a quelle proprie di Abbado e di Muti. Quest’impegno ridurrà di molto la presenza di Chailly a capo dell’orchestra Verdi; il direttore, probabilmente, si limiterà alla inaugurazione e alla chiusura della stagione; un’altra perdita considerevole per Milano, se si pensa poi che, nonostante questa vicinanza, Chailly in questi anni non ha mai diretto l’orchestra della Scala.

[23] Deutsche Grammophon, 427 771-2.

[24] Pure non bisogna sottovalutare le capacità di Muti quale interprete dei linguaggi più avanzati del Novecento, come è stato testimoniato dalle esecuzioni, in questi anni, diLontano e Ramifications di Ligeti, di Stele di Kurtag e de La morte di Borromini di Sciarrino; quest’ultima partitura dedicata espressamente dal compositore a Muti. Inoltre, tra le opere che Muti avrebbe dovuto dirigere nella presente stagione e che sono saltate in conseguenza delle sue dimissioni, era prevista anche l’ultima di Azio Corghi.

[25] Per chiarire ulteriormente questo esempio, è possibile confrontarlo con un direttore di tutt’altra statura, Jeffrey Tate. Questi riesce sempre a disarticolare la partitura, in molti casi rallentando i tempi, in un modo che è estremamente utile per l’ascoltatore, in quanto tende a valorizzare e a rappresentare isolatamente i momenti costitutivi di un’opera. Manca però, la capacità di farlo mantenendo la visione d’insieme, evitando di rinunciare alla sovrapposizione di tali parti. Così è stato nella pur positiva direzione del Rosenkavalier di Richard Strauss nella stagione 2003-2004; tutti i molteplici e contraddittori riferimenti alla tradizione musicale presenti in quell’opera di transizione epocale venivano valorizzati, ma non si mostravano in quell’intreccio che rende unica la composizione straussiana; qualità che appartiene, invece, all’interpretazione della stessa opera da parte di Carlos Kleiber.

[26] Si potrebbe proporre anche un riferimento a Bach; non capita spesso di ascoltare i due direttori impegnati nelle sue composizioni. Pure la loro formazione, come è inevitabile per qualsiasi capace direttore d’orchestra, è avvenuta proprio sulla lezione bachiana, fondamento di tutta la tradizione musicale occidentale del ‘700 e dell’800. Non è un caso che l’interpretazione di Muti della Messa in si minore alla guida dei Wiener Philarmoniker costituisca una delle interpretazioni più alte, superiore a quella di molti direttori tedeschi; così come la Matthaus-Passion diretta da Abbado. Non è pertinente affermare che, in quest’ultimo caso, Abbado quasi desacralizza il capolavoro di Bach; infatti, ciò che preme al direttore è l’evidenziare nella scrittura bachiana i fondamenti del linguaggio musicale occidentale, o quanto meno un punto di svolta all’interno di questo linguaggio. Una lettura che si concentra sullo sviluppo storico della musica, sfuggendo alle pur comprensibili valorizzazioni contenutistiche. Anche in questo caso l’ascoltatore dovrebbe, prima di prendere una netta posizione, cogliere con esattezza queste intenzioni.

[27] Cfr. l’intervista rilasciata a Gaia Varon per Radiotre nell’intervallo del concerto del 17 novembre 2004.

[28] Molte voci vogliono Riccardo Muti a Vienna, vista l’alta stima che l’orchestra austriaca ha più volte manifestato per il maestro. E’ possibile però che Muti, il quale ha sempre ricordato il periodo in cui dirigeva l’orchestra di Filadelfia come uno dei più felici della sua vita, scelga il continente americano, della cui vita musicale è un profondo conoscitore. In particolare, sembra essere la Chicago Symphony Orchestra a volerlo quale direttore. Cfr. Wynne Delacom, Is Muti our man?, in Chicago Sun Times, 20 maggio.

[29] Il caso più celebre di orchestra senza direttore rimane quello della statunitense Orpheus Chamber Orchestra; il complesso ha sempre offerto esecuzioni di alta qualità, ma nello stesso tempo viziate da un evidente meccanicismo, l’unico modo possibile per conservare la coesione in assenza di una guida che garantisca, contemporaneamente, l’unità d’insieme e l’originalità e imprevedibilità delle interpretazioni.

[30] Cfr. Corriere della Sera, 5 maggio 2005.