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Lug
2006

Cinema e Teatro

Da Supercinema, anno 1, n°1, 1996 (pp.48-53 e su cd-rom allegato)
Negli inevitabili rapporti che il cinema mantiene con altre forme di arte visiva, quello con il teatro è senz’altro il più complesso da esaminare. I punti di contatto fra le due forme di spettacolo sono così numerosi da richiedere la valutazione di molteplici punti di vista; essendo sia il teatro sia il cinema tecniche di messa in scena, qualsiasi film potrebbe presentare elementi tali da suscitare confronti con l’esperienza teatrale. Non è possibile inoltre circoscrivere questo rapporto a un unico genere, a uno specifico periodo della storia del cinema o a una particolare tecnica o estetica dell’immagine. Non a caso i numerosi studi dedicati all’argomento, preferiscono quasi sempre evitare una ricostruzione storica, per suddividere la trattazione in tanti specifici sottotemi, da approfondire separatamente.

Il cinema delle origini non poteva fare a meno di mutuare i propri codici linguistici dal teatro, fino a quel momento l’unica forma di rappresentazione scenica; questo rapporto era naturale ben prima che fosse oggetto di analisi teorica o di consapevole scelta estetica. In un primo tempo, gli artisti di teatro furono tentati di utilizzare la ripresa cinematografica per permettere a un pubblico più ampio la conoscenza di interpretazioni particolarmente valide e la loro sopravvivenza nella memoria storica; il contratto del Film art con la Comédie Française, del 1908, prevedeva proprio la ripresa delleperformance di maggiore successo. Queste operazioni, particolarmente costose e che spaziavano su un amplissimo repertorio, si dimostrarono un fallimento in quanto la formidabile gestualità degli attori della compagnia (Julia Bartet, Albert Lampert, Mounet-Soully) slegata dalla parola perdeva tutto il suo fascino per diventare movimento ridicolo e irrazionale. Era la prova che il cinema non costituiva una semplice mimesi dell’immagine, ma un nuovo e originale linguaggio visivo.

Tuttavia, il cinema non avrebbe potuto acquisire in breve tempo un’autonoma dimensione artistica, senza fare riferimento all’esperienza del teatro: Georges Méliès per primo comprese le possibilità della nuova arte nell’ambito della fiction, individuando nel cinema una tecnica in grado di potenziare, attraverso la manipolazione della visione, l’arte della prestidigitazione, sino ad allora praticata nei teatri o all’aperto. Non è un caso che lo stesso Méliès realizzò un breve film, oggi perduto, intitolato Shakespeare scrive Giulio Cesare, ispirandosi, per uno dei primi soggetti narrativi, alla tradizione teatrale e inaugurando la serie di film, comprendente decine di titoli, ispirati all’opera del drammaturgo inglese.

E’ proprio la tradizione del teatro elisabettiano, del resto, che ha stimolato il cinema nell’elaborazione di un proprio originale linguaggio. David Wark Griffith e Sergej M. Ejzenstejn, i due registi che contribuirono in modo determinante all’affermarsi di una specifica estetica cinematografica, ne furono attenti studiosi e ne mutuarono molte soluzioni tecniche, relative alla struttura narrativa e all’effetto drammatico della messa in scena. Le compagnie del periodo elisabettiano, come è documentato da diverse incisioni, si esibivano all’aperto, in palcoscenici quasi sempre di forma circolare; Eisenstein studiò con attenzione il loro modo di risolvere il problema della rappresentazione narrativa in queste particolari condizioni sceniche, con la necessità di focalizzare l’attenzione sul personaggio da qualsiasi punto di osservazione e, conseguentemente, di semplificare il rapporto fra attore e scenografia. Il regista sovietico, del resto, si interessò anche al teatro giapponese, dove la dizione monotona e non espressiva costringe a un movimento labiale utile ai fini di una recitazione che, nel cinema delle origini, non poteva avvalersi della parola.

Tutto il cinema muto, del resto, manteneva evidenti rapporti con la tecnica teatrale, in quanto la mancanza dell’apporto linguistico imponeva una maggiore espressività della scenografia; in film come Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene (1920), oppure Metropolis di Fritz Lang (1926), o Il ventaglio di Lady Windermere di Ernst Lubitsch (1925) è evidente il richiamo a precedenti esperienze teatrali. L’opera di Carl Theodor Dreyer è quella che forse mostra la totale ambiguità che, nella poetica del muto, si realizza tra cinema e teatro: da una parte, l’uso frequente del primissimo piano sfrutta una possibilità tecnica che accentua in maniera sensibile l’autonomia espressiva del cinema; dall’altra, il ricorso a scenografie essenziali e a un effetto antinaturalistico, necessari per esaltare il significato del dramma in assenza della parola, evidenziano un compenetrarsi della messa in scena teatrale e cinematografica. L’ultimo capolavoro di Dreyer, Gertrud (1964), venne definito teatro filmato; un’espressione che, come si mostrerà più avanti, non possiede alcun fondamento estetico.

Non mancarono poi tentativi, sempre nel periodo del muto, di confrontarsi con il repertorio contemporaneo, esemplificato dalle due opere diGeorge Wilhelm Pabst, Lulù (1928), ispirata ai due drammi di Frank Wedekind Il vaso di Pandora e Lo spirito della terra, e a L’opera da tre soldi (1931) di Bertold Brecht; Pabst comprese come la forza demoniaca presente nel dramma di Wedekind o la straordinaria pregnanza delle figure dei mendicanti in Brecht, potevano essere rese in modo originale, ma altrettanto efficace dalla tecnica cinematografica. Questi tentativi pioneristici vennero condotti nonostante l’evidente ostilità nei confronti del cinema dei principali autori di teatro d’inizio secolo; probabilmente personalità quali Bertold Brecht o Luigi Pirandello temevano che la riproduzione cinematografica dell’opera teatrale, che implicava un rapporto mediato fra attore e pubblico, producesse una fruizione superficiale. Quest’atteggiamento, comprensibile e condotto con lucide argomentazioni teoriche e linguistiche, denunciava però un atteggiamento conservatore, laddove all’autore di teatro non era ancora evidente come la sudditanza del cinema al sistema commerciale di produzione (e Brecht, durante l’esilio americano, vedrà più volte respinte le sue sceneggiature, a Hollywood), non dovesse necessariamente compromettere l’artisticità del risultato.

Con l’avvento del sonoro si aprirono sicuramente molte possibilità di approfondire il rapporto fra cinema e opera teatrale; non a caso alcuni grandi registi del cinema muto, quali Charlie Chaplin e René Clair (di cui pure, in alcuni studi, si è sottolineato il rapporto con il teatro) vedevano nel sonoro un regresso dalla specificità filmica alla dimensione teatrale, in quanto la possibilità comunicativa della parola poteva irrigidire e rendere meno creativo il movimento della macchina da presa.

Il cinema hollywoodiano classico, quale si viene configurando dopo l’avvento del sonoro è, come ormai si sostiene in molti studi, fortemente debitore al teatro: la scorrevolezza e la fluidità della narrazione, una tecnica di montaggio che non fa avvertire la presenza della macchina da presa, un sapiente uso delle luci, una perfetta capacità di risolvere, secondo logiche narrative coerenti, i rapporti fra i personaggi, tutte queste soluzioni tecniche, pur fondando una linguaggio assolutamente originale, non avrebbero mai potuto realizzarsi se non in seguito a una riflessione sulle tecniche di rappresentazione in palcoscenico. Quando però questo cinema, controllato dalle grandi case di produzione, si è rivolto in modo esplicito a pagine del repertorio teatrale, ha finito per impoverirle, privandole della forza drammatica e della complessità psicologica. Ne sono dimostrazione alcuni soggetti shakespiriani, di cui anche Hollywood subì il fascino, ritenendoli facili da imporsi al grande pubblico. Nel 1935 Max Reinhardt realizzò Sogno di una notte di mezza estate, con Olivia de Havilland, Dick Powell e James Cagney. Nonostante la de Havilland avesse già interpretato il personaggio di Erma a teatro in un allestimento proprio di Reinhardt, il film sembra non mostrare alcun interesse per il testo, che infatti venne tagliato in più punti; si ricercò invece l’effetto spettacolare, con la creazione di sfondi particolarmente raffinati e ridondanti che intendevano occultare qualsiasi riferimento al teatro. Un anno più tardi George Cukor realizzò Giulietta e Romeo, con Leslie Howard e Norma Shearer. La MGM impose una riduzione altamente spettacolare e il talento di Cukor non riuscì a mostrarsi in alcun modo.

Analoghe operazioni nei confronti dell’opera shakespiriana, tendenti a sacrificare il testo a un gusto di massa, hanno interessato anche il cinema italiano. Nel 1954 Renato Castellani realizzò, per una cooproduzione italo-inglese, una versione di Giulietta e Romeo, con attori inglesi, quali Lawrence Harvey e Susan Shentall, come protagonisti. Di apprezzabile, rispetto alle opere citate sopra, vi è la ricerca da parte del regista di luoghi particolarmente suggestivi dal punto di vista storico e naturalistico, tesi a esaltare l’ambientazione italiana del dramma. Riccardo Freda propose una versione della stessa opera nel 1964, tesa a sottolineare il dinamismo spettacolare piuttosto delle sfumature psicologiche. Un’altra grande produzione italo\inglese si ebbe nel 1968, con Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli. Anche in questo caso però, la volontà di andare incontro ai gusti del pubblico, ha reso semplicistica l’interpretazione del testo; il regista, per accentuare un effetto di realismo, ha evidenziato particolari irrilevanti, rendendo superficiale la struttura drammatica. Ciò si è ripetuto, con limiti ancora più espliciti, con la recente versione di Amleto di Zeffirelli, dove l’unica preoccupazione sembra quella di mostrare il vigore fisico del personaggio, occultando la sua psicologia contrastata. Nettamente più originale, allora, sembra l’operazione diGabriele Salvatores che riprese la rappresentazione in forma di musical de Sogno di una notte d’estate (1983), nell’allestimento del milanese Teatro dell’Elfo. In questo caso, almeno, la macchina cinematografica si limita a rispettare il lavoro teatrale, senza umiliarlo con i propri imponenti mezzi espressivi.

Nonostante la superficialità di questi tentativi, è stata proprio l’attenzione del cinema nei confronti dell’opera shakespiriana a permettere la scoperta di soluzioni linguistiche adatte ad affrontare il testo o la rappresentazione teatrale secondo criteri estetici esclusivamente cinematografici. Un ruolo rivoluzionario ricoprono, a questo proposito, le due trilogie shakespiriane di Laurence Olivier e Orson Welles, che rappresentano un punto di riferimento indispensabile per qualsiasi disamina relativa alle possibilità espressive del cinema verso il teatro. Olivier e Welles non intendono solo sfruttare le potenzialità narrative del racconto shakespiriano, ma indagare in profondità il valore del testo, cercando, nella trasposizione cinematografica, di rielaborarne e valorizzarne i contenuti originali. Welles e Olivier, d’altronde, avevano curato precedenti rappresentazioni teatrali di queste opere ed era inevitabile, da parte loro, una profonda riflessione sulle possibilità di incontro fra i due linguaggi. In Enrico V, diretto da Olivier nel 1945, vi è un continuo rimando fra la messa in scena teatrale (un gruppo di attori interpreta la tragedia), la contestualizzazione storica (il film è ambientato nel ‘600), e la pura rappresentazione cinematografica (vi sono delle riprese in esterno). Olivier in questo modo può esaltare al massimo il contenuto del testo, mostrandone le sottili connessioni storiche e la continuità con altre forme di espressione artistica (vi sono anche richiami figurativi alla pittura rinascimentale). Una capacità di penetrazione dello spirito dell’opera che la semplicistica ostentazione scenografica delle opere citate in precedenza era ben lontana dal cogliere. Nel 1948 Olivier realizzò Amleto: in questo caso l’artista inserì nella tragedia codici interpretativi mutuati dalla psicanalisi (un lavoro analogo a quello operato da Pasolini nell’Edipo Re). Inoltre Olivier approfondì ulteriormente il rapporto fra linguaggio teatrale e cinematografico concentrandosi, in particolare, sul rapporto fra l’attore e lo sfondo scenografico. L’ultimo lavoro della trilogia è il Riccardo III del 1955: Olivier, scelse in questo caso di concentrarsi unicamente sul personaggio protagonista, intervenendo sensibilmente sul testo. Ne è valorizzata la crudele psicologia di Riccardo, che si realizza solo attraverso l’intrigo e l’annullamento dell’altro;. non si tratta però, nella lettura di Olivier, di una patologia individuale, ma dell’emergere di una parte costitutiva ed essenziale della natura umana, che tende a rivelarsi ogni volta che ci si identifica con la logica di potere. Una recentissima versione di Riccardo III (1995) è stata proposta da Richard Loncraine, ripresa da una produzione teatrale di Richard Eyre e ambientata, senza riferimenti storici precisi, in un contesto bellico moderno, a indicare proprio l’universalità antropologica rappresentata dal personaggio.

La prima opera tratta da Shakespeare di Orson Welles è invece Machbeth, realizzata nel 1948; Welles ne curò in precedenza un allestimento teatrale, dove aveva utilizzato esclusivamente attori di colore. Welles risolve il problema della messa in scena attraverso l’uso dei piani sequenza, mantenendo quindi, in analogia con la rappresentazione teatrale, la continuità dell’immagine; contemporaneamente però, utilizza degli sfondi esclusivamente cinematografici, decontestualizzando l’azione teatrale dalla sua scenografia originaria. In Otello, del 1952 (opera di cui si è apprezzata una recente versione restaurata) Welles capovolge totalmente l’approccio estetico: dove prima dominava il piano sequenza, ora prevale un uso radicale del montaggio. E’ evidente che il risultato non è più la tenuta della scena, ma il sovrapporsi di diversi angoli di ripresa nei quali, però, è evidente una resa volutamente antinaturalistica. Welles non vuole quindi ottenere un effetto di maggiore realismo visivo rispetto al teatro, ma evidenziare caratteristiche determinanti del testo, con delle nuove possibilità espressive, offertegli dalla tecnica cinematografica. Il Falstaff, che conclude la trilogia, è del 1966; essendo la riduzione di quattro differenti lavori di Shakespeare, l’attenzione si concentra in particolare sul personaggio, interpretato superbamente da Welles stesso; ne scaturisce un ritratto umano che si distingue per coscienza morale dagli altri personaggi, in quanto emerge con chiarezza la radicale diversità di Falstaff rispetto alla logica disumanizzante del potere.

Un confronto impietoso con le opere di Welles e Olivier può proporsi con un classico della trasposizione hollywoodiana di Shakespeare, il Giulio Cesare di Joseph L.Mankiewicz (1953) dove, pur con straordinarie interpretazioni, la volontà della produzione (MGM) non permise di andare al di là di una riproduzione effettistica del testo, priva di qualsiasi profondità storica.

Se l’opera di Shakespeare, come si è visto, ha stimolato maggiormente il cinema nella ricerca di nuove soluzioni espressive, è naturale che versioni rilevanti delle opere shakespiriane non si siano limitate ai paesi di aerea anglosassone. Un posto di rilievo meritano anche le riduzioni diGrigorij Kozincev, che ha saputo rileggere Shakespeare, con una sensibilità culturale vicina alla tradizione teatrale russa. Sia nell’Amleto (1963) sia nelRe Lear (1970) egli utilizza le traduzioni di Boris Pasternak che, soprattutto nella prima opera, sottolineano un evidente riflessione sociale, alla base dell’intera struttura drammatica. Per rimanere alle versioni di Re Lear, ricordiamo quella di Peter Brook del 1971: Brook è forse uno dei registi che con maggiore continuità nei risultati ha realizzato trasposizioni cinematografiche di capolavori teatrali. Il suo Re Lear ha un impianto decisamente intellettualistico ed è ambientato in un desolato paesaggio nordico privo di alcuna connotazione geografica, tesa a universalizzare il messaggio della tragedia sulle contraddizioni del potere. Il Re Lear ha fornito poi il pretesto per alcuni importanti opere, quali quella di Jean-Luc Godard del 1987 (Re Lear) dove il tradimento dei figli viene riferito al mondo mass-mediatico; oppure l’ambientazione giapponese del dramma in Ran (1985), di Akira Kurosawa, che ne accentua il carattere epico. Kurosawa aveva già proposto, nel 1957, una dramma shakespiriano ambientato in Giappone, ne Il trono di sangue, ispirato al Machbeth. A differenza di Ran, dove, nonostante fosse presente un’iconografia di tipo pittorico, la ripresa si snodava per ampi spazi, qui vi è un riferimento più diretto alla tradizione teatrale giapponese e un maggiore concentrarsi sulle geometrie narrative. Sempre il Macbeth è strato affrontato da Roman Polanski, nel 1971; il regista polacco accentua i toni cupi e sanguinari della vicenda mostrando tutta la brutalità dell’esercizio improprio del potere e, analogamente a quanto aveva fatto Olivier nel Riccardo III, evidenzia come questa tensione distruttiva costituisca un apetto fondamentale e insopprimibile della personalità umana.

In anni recenti un lavoro di riflessione particolarmente interessante sull’opera di Shakespeare è stato proposto da Kenneth Branagh, con i filmEnrico V (1989), Molto rumore per nulla (1993) e Nel bel mezzo di un gelido inverno (1995). L’approccio di Branagh a queste opere è diversificato: egli non rinuncia a un cast d’eccezione e intende rivolgersi a un pubblico più vasto di quello teatrale, attraverso una evidente spettacolarizzazione; parimenti però, non intende banalizzare il testo shakespiriano ma, semmai, mostrarne l’attualità e la validità anche in contesti meno aulici.

Un discorso a parte meritano le opere di Carmelo Bene: conviene in questo caso non separare artificiosamente l’opera di derivazione shakespiriana (Un Amleto di meno -1973-) dalle altre, tutte inserite in un progetto coerente. Il privilegio che in Bene viene assegnato al testo, reso in maniera antinaturalistica, in quanto fortemente contaminato da altre citazioni letterarie e modificato radicalmente nella sua scansione ritmica, non poteva, portato sullo schermo, non dare luogo a una concezione straordinariamente originale e innovativa della visione. Poco importa che solo Capriccisia tratto da un dramma elisabettiano, mentre Un Amleto di meno derivi dal testo di Laforgue: in Bene il testo viene frammentato e contaminato da una serie di riferimenti che da una parte decontestualizzano profondamente il contenuto, dall’altra lo aprono e lo mettono in correlazione con altri aspetti della cultura, vivificandolo e evidenziandolo in tutta la sua forza. In questo senso, l’opera più significativa rimane Nostra signora dei turchi (1968) dove tutte queste suggestioni, concretizzate in una visionarietà barocca, trovano l’unità nella capacità visionaria del protagonista.

Cechov

Se dovessimo indicare fra gli autori di teatro coloro che hanno maggiormente ispirato i cineasti, sicuramente, dopo Shakespeare, dovremmo citare Anton Cechov. Rielaborazioni della sua opera, alcune delle quali citeremo in altra parte dell’articolo, hanno interessato tutte le cinematografie, non solo quella russa. Probabilmente perché la scrittura di Cechov ha una venatura ritmica assai coinvolgente, entro la quale si dipana l’intera trama e, per questa ragione, rivela una formidabile aderenza alle tecniche di montaggio e alle modalità di ripresa proprie del cinema. Da una parte in Cechov è presente un’approfondita articolazione dei rapporti fra i personaggi che consente notevoli sperimentazioni linguistiche e di messa in scena; dall’altra, però, vi è un’armonia fondamentale e una distacco nelle immagini che rendono particolarmente accessibile e attraente le trame dei suoi lavori. Se la cinematografia russa non è l’unica a essersi dedicata con impegno alla rielaborazione di opere di Cechov, probabilmente però ne ha colto meglio lo spirito originale, inserendole in un contesto culturale adeguato. Le opere più significative sono sicuramente quelle di Nikita Michalchov: inOci Ciornie (1987) egli riunisce alcuni racconti dello scrittore. Il virtuosismo di Marcello Mastroianni, sulla cui abilità attoriale si regge tutto il film, non implica una attenzione superficiale alla trama, in quanto permette di tradurre al meglio il grigiore della vita e la decadenza di una generazione, in un’atmosfera di malinconia e purezza identiche all’opera originale. In Partitura incompiuta per pianola meccanica (1976) la novella Platonov diventa un pretesto per sperimentazioni formali (dall’uso del bianco e nero al piano sequenza, alla camera a mano), anche se rimane quell’armonia del ritmo e delle immagini, che costituiscono la qualità più evidente dell’interpretazione di Cechov da parte di Michalkov. Anche il fratello Andrej Koncalovskiportò sullo schermo un’opera di Cechov, Zio Vanja (1970): è una lettura dell’opera particolarmente apprezzabile, che accentua l’elemento claustrofobico in cui si realizza il dramma; un accenno velato, forse, ai problemi di censura che il regista aveva subito in occasione del film precedente,Storia di Asja Kljaccina.

Solo dopo avere elaborato una piena consapevolezza linguistica nei confronti del repertorio teatrale moderno, il cinema ha osato confrontarsi con la tragedia greca, il genere teatrale più importante dell’antichità e quello da cui sono derivate le principali categorie estetiche in merito alle tecniche di rappresentazione; se nei confronti della tradizione elisabettiana il cinema ha avvertito una attrazione spontanea, in termini tecnici e di contenuto, la tragedia attica, apparentemente difficile da adattare per lo schermo, è stata affrontata solo dopo una profonda riflessione riguardo le proprie capacità espressive. Se però il repertorio tragico è stato a lungo ignorato dalla produzione cinematografica, la sua struttura aveva invece condizionato molti autori americani del dopoguerra; il caso più significativo è senz’altro quello di Douglas Sirk, un regista inserito nel filone del melodramma, che è venuto però elaborando nei suoi criteri stilistici proprio in seguito a una riflessione sulla tragedia. In numerose dichiarazioni, infatti, Sirk ha indicato in Euripide la fonte di molte sue ispirazioni (non a caso il cinema, nell’ambito del tragico, ha affrontato soprattutto il repertorio euripideo). Sirk ritiene che il melodramma abbia la sua origine proprio nella tragedia e che Sofocle e Euripide componessero in realtà dei melodrammi. In La magnifica ossessione(1954), il sacrificio del filantropo Phillips permette la salvezza di Merick, richiamando -afferma Sirk- il tema di Alcesti; in Come le foglie al vento e inTemporale d’estate (1944), lavoro peraltro tratto da Checov, Sirk capovolge la struttura tradizionale del dramma, anticipando gli eventi e utilizzando il flashback; il regista afferma che questa struttura narrativa corrisponde al “metodo d’Euripide” e che il lieto fine assolve le funzioni del deus ex machina. Se non si conoscono queste riflessioni alla base del cinema di Sirk, non si può comprendere il chiaro precedente stilistico che le sue opere costituiscono per Reiner Werner Fassbinder. Fassbinder evidenzia in maniera più visibile la struttura melodrammatica di Sirk e, per accentuarla, ricorre a volte a spazi ristretti, all’unità di luogo teatrale, come in Le lacrime amare di Petra von Kant (1972).

Per quanto concerne dirrettamente il repertorio tragico, le prime opere significative sono state prodotte in Grecia nel 1961(in qualche caso in cooproduzione con compagnie americane), con l’intenzione esplicita di valorizzare il patrimonio culturale nazionale. Georges Tzavellas realizzò l’Antigone, interpretata da Irene Papas, che rivelerà il suo talento e la sua straordinaria presenza scenica proprio in queste opere. Nello stesso annoJules Dassin girò una versione di Fedra che, accentuando l’aspetto melodrammatico, rivelava l’intento commerciale dell’opera. La stessa scelta degli attori, del resto, era indicativa: oltre all’altra grande star del cinema greco, Melina Mercouri, al film partecipavano Anthony Perkins e Raf Vallone. Ancora nel 1961 Michael Cacoyannis realizzò la prima opera di una trilogia tragica destinata ad avere molto successo: l’Elettra, dove si avvaleva, come nelle successive due opere. delle splendide musiche di Mikis Theodorakis e di Irene Papas nel ruolo di protagonista.

La seconda tragedia di Cacoyannis fu realizzata dieci anni dopo, nel 1971, le Troiane, sempre tratta da Euripide. L’opera risente della precedente esperienza di Dessin: vi è sempre Irene Papas nei panni di Elena, ma i ruoli degli altri due fondamentali personaggi femminili, sono interpretati da stelle del cinema americano quali Katherine Hepburn e Vanessa Redgrave. Il film è la trasposizione cinematografica di uno spettacolo teatrale rappresentato dal regista a Broadway e, pur con limiti evidenti, conferma la presenza, nelle concezioni estetiche più generali del cinema americano classico, di elementi stilistici mutuati dalla tradizione tragica: da una parte è vero che, senza compromettersi con la realtà produttiva statunitense, la tragedia non avrebbe potuto imporsi al vasto pubblico cinematografico; dall’altra, però, si nota la naturalezza con cui le strutture narrative del tragico -e Sirk lo ha dimostrato- si lascino coinvolgere in una concezione spettacolare apparentemente meno impegnativa. Nel 1976 Cacoyannis girò la sua terza tragedia, l’Ifigenia, con cast questa volta interamente greco (sempre la Papas protagonista) e una ricostruzione più fedele rispetto alla tradizione.

Una lettura meno agiografica della tragedia è presente invece nel capolavoro di Thodoros Angelopoulos, La recita (1975). La tragedia non viene concepita come un repertorio archeologico da usare quale attrazione per turisti (è noto che, quando girò I cacciatori, Anghelopoulos ebbe a polemizzare contro la maggiore copertura finanziaria che la cinematografia greca garantiva ai lavori di Cacoyannis), ma come una tradizione ancora viva che condiziona la ricerca teatrale moderna; per cui, oltre al tragico, in La recita sono evidenti anche i riferimenti a Brecht.

Una valorizzazione dei contenuti universali del tragico, al di là di ogni recupero storicistico, è visibile nelle tragedie portate sullo schermo da Pier Paolo Pasolini: egli da una parte, utilizzandone il repertorio, intende contestare l’estetica classica del cinema e proporre diverse sperimentazioni a livello figurativo; dall’altra vuole attualizzare il contenuto del tragico alla società contemporanea. Il regista realizzò nel 1967 l’Edipo Re, opera suggestiva proprio per l’evidente presenza, nella biografia pasoliniana, di un sentimento edipico. La scelta del Marocco come luogo per le riprese, oltre a fornire volti particolarmente espressivi per le comparse, dà un senso arcaicizzante senza rimandare obbligatoriamente alla Grecia. Il valore del mito si rivela così nella sua universalità; e l’accenno pasoliniano all’interpretazione psicoanalitica nel mito serve proprio a evitare un semplicistico rimando storico. Con Medea, del 1970, Pasolini chiarisce la sua opposizione estetica al cinema ufficiale, recuperando la lezione di alcuni maestri del primo cinema (Dreyer su tutti), senza peraltro rinunciare a un messaggio di forte pregnanza morale. Pasolini intendeva girare una terza tragedia, l’Orestea, ambientandola in Africa; è noto come del progetto originale sia rimasto un breve film, Appunti per un’orestiade africana (1970) che il regista filmò come preparazione al lavoro. In questo documento vi sono le riflessioni pasoliniane su Eschilo e si dimostra ancora la volontà del regista di universalizzare la dimensione del tragico, valorizzata in questo caso nella contrapposizione fra la società industrializzata e i paesi africani sottosviluppati, sulla via, però, della consapevolezza culturale e politica.

Un discorso a parte merita il lavoro di France Marie Straub e Daniel Huillet, dove il riferimento alla tradizione teatrale è esplicito e produce lavori di estrema coerenza, che intendono con decisione opporsi alle estetiche più semplicistiche del cinema. Nell’ambito della tragedia, la loro opera più significativa è senza alcun dubbio l’Antigone, del 1991, in cui, attraverso la mediazione di Hölderlin e Brecht, si vuole sottolineare il carattere antagonista e irriconciliabile del personaggio; ma anche l’irrducibilità estetica del tragico a qualsiasi conformismo figurativo.

Citiamo infine un esempio particolarmente brillante di richiamo alla struttura narrativa della tragedia: Woody Allen, nella recente opera La dea dell’amore, inserisce, con l’identica funzione di commento e raccordo fra le diverse fasi della narrazione, un coro greco, inserendolo con naturalezza e senza forzature nella dimensione della commedia.

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Se è in qualche modo inevitabile distinguere tra i film che riproducono testi teatrali e film che, in modo originale, narrano una storia ambientata a teatro, nella realtà queste diverse esperienze narrative si condizionano in modo continuo. Le trilogie di Olivier e Welles, per esempio, costituiscono un punto di riferimento imprescindibile anche per quanto riguarda la soluzione estetica adottata per le ripresa del palcoscenico. Si è detto, per esempio, come in Enrico V di Olivier, la rappresentazione teatrale e l’effetto cinematografico si compenetrassero, risolvendo brillantemente la rappresentazione del rapporto tra finzione scenica, vita reale e contestualizzazione storica. E’ l’identico problema che deve affrontare un film sul teatro, laddove la continuità (o la discontinuità) fra ciò che accade nella vita e quello che viene rappresentato in palcoscenico è ovviamente al centro della narrazione. In questi film spesso la vita nel e per il teatro rappresenta una possibilità di salvezza rispetto ai drammi dell’esistenza, in quanto permette di scoprire il proprio io più autentico; l’opera teatrale viene così decontestualizzata dal suo luogo di rappresentazione canonico -e il cinema offre inesauribili possibilità tecniche a questo scopo- per diventare simbolo universale di vita.

Ernst Lubitsch, in Vogliamo vivere (1942) aveva confuso il piano della rappresentazione con quello della realtà, il cui orrore è in grado di superare qualsiasi prodotto dell’immaginazione; il teatro diventa strumento di resistenza per alcuni attori ebrei rinchiusi nel ghetto di Varsavia. Travestendosi da Hitler e da altri aguzzini (e mostrando, sull’esempio del Grande dittatore di Chaplin, attraverso la farsa la tragedia del reale), gli attori confondono gli occupanti e riescono a fuggire con l’aereo personale del Führer, trasferendo la rappresentazione dalla scena alla realtà. Citiamo subito, poiché il confronto viene spontaneo, l’opera di François Truffaut del 1980 L’ultimo metrò. Anche in questo caso il teatro diventa strumento di resistenza contro l’occupante nazista, ma il regista francese, piuttosto che giocare con i doppi sensi impliciti nell’atto della rappresentazione, preferisce vedere nell’amore per il teatro e nella dimensione dell’estetico un esempio di verità che può condurre alla salvezza anche nei contesti più drammatici.

Il capolavoro del cinema francese sull’argomento è certamente Amanti perduti, che Marcel Carné girò nel 1945. La scelta del regista è quella di confrontarsi direttamente con l’estetica nel teatro, nella tradizione sia aulica sia popolare, e di utilizzare un linguaggio di evidente ascendenza letteraria che ricreasse l’atmosfera della rappresentazione in scena. Anche in questo caso il teatro indica una salvezza dalle tensioni esistenziali, laddove i tre attori, protagonisti del dramma, si rifugiano e finiscono per identificarsi con i loro personaggi. Altra storica opera del cinema francese sul teatro è La carrozza d’oro di Jean Renoir: la protagonista Anna Magnani, prima attrice di una compagnia teatrale capitata in Perù, rinuncia alla vita (alla corte di tre uomini) a favore del teatro, capovolgendo ancora una volta i valori fra l’esistenza e la finzione.

Per quanto riguarda il cinema americano di quegli anni, gli esiti sono alterni, nonostante le buone intenzioni di partenza, per l’incapacità di approfondire la psicologia dei personaggi. E’ questo il punto debole de Il principe degli attori (1955), di Philip Dunne, dove si narrano i problemi esistenziali in una famiglia di attori shakespiriani. Notevole è invece l’opera Eva contro Eva (1950) di Joseph L.Mankiewicz, il cui capolavoro shakespiriano -come si è detto- fu invece compromesso dalle esigenze della produzione. L’intenzione è quella di descrivere l’arrivismo di Eva Harrington nell’inseguire la scalata al successo come uno specchio di una diffusa tensione sociale, che senza soluzione di continuità si rivela sulla scena come nell’esistenza quotidiana.

Il rapporto teatro-vita e rappresentazione-mondo esterno, così lucidamente rivelato dal cinema di Olivier ed evidente nell’opera ricordata di Lubitsch, viene magistralmente ripreso da Ingmar Bergman, anche lui artista il cui genio può affrontare contemporaneamente sia l’attività teatrale sia quella cinematografica, rinnovando di continuo le possibilità espressive di entrambe. In Il volto (1958) Bergman si concentra sulle possibilità della rappresentazione di sostituirsi alla realtà; l’attore scoperto nel suo trucco, si vendica della presunzione positivista del medico facendosi credere morto fino al momento dell’autopsia. In Il rito (1969) è ancora un’autorità, il cui ruolo costituito è quello di mantenersi fedele ai fatti, a non saper più distinguere fra realtà e rappresentazione: il giudice Hell, che deve stabilire l’oscenità di uno spettacolo, finisce con lo stuprare l’attrice protagonista, facendosi coinvolgere in prima persona dalla finzione narrativa.

In La sera della prima (1977) di John Cassavetes, viene descritto un altro caso di evidente coincidenza fra teatro e vita; la crisi depressiva che coinvolge la protagonista, diventa esperienza in grado di rinnovare l’interpretazione del personaggio. Il cinema, potendo osservare il teatro da un’angolazione esterna, ha il privilegio di scoprirne un segreto fondamentale, che la visione dello spettacolo non permette di cogliere: nessuna opera può considerarsi definitiva, un reperto storico da riproporre secondo un criterio filologico. E’ invece una sorta di organismo particolarmente reattivo, capace di reinventarsi a seconda delle modificazioni dell’ambiente circostante. Un’altra importante riflessione in merito alle tensioni precedenti una prima teatrale è stata proposta dalla commedia di Peter Bogdanovich, Rumori fuori scena (1992), in cui si sottolineano i meccanismi di causalità che conducono alla realizzazione dello spettacolo. Ancora una volta questo prende vita non in seguito a una razionale preparazione, ma grazie a continui sconvolgimenti che alla fine, nel consueto alternarsi di vita reale e interpretazione sulla scena, danno luogo, quasi miracolosamente, a un nuovo ordine.

Anche nel cinema italiano sono numerose le opere che affrontano il tema della vita di palcoscenico. Ad attrarre l’attenzione di alcuni importanti autori è stato l’ambiente povero del varietà e dell’avanspettacolo, in clima con le principali tematiche del cinema italiano del dopoguerra. La realizzazione di Alberto Lattuada e Federico Fellini, Luci del varietà (1950) è particolarmente significativa; gli intrighi e le falsità che percorrono la vita di una scalcinata compagnia si motivano in base a un’utopica ricerca di successo, che risulta invece frustrata. Un tema simile venne affrontato nel 1974 daAlberto Sordi, in Polvere di stelle, con esiti meno brillanti.

Per quanto concerne una tradizione più aulica del teatro, rimane poi magistrale, anche se il film in questione non è affatto dedicato all’ambiente teatrale, la scena di apertura di Senso (1954) di Luchino Visconti, dove la rappresentazione de Il trovatore di Giuseppe Verdi offre lo spunto per una manifestazione patriottica; la barriera simbolica che divide il palcoscenico dalla vita è ancora una volta infranta. Luchino Visconti rappresenta uno degli esempi massimi (insieme al già citato Bergman) di felice coincidenza fra attività teatrale e cinematografica; in particolare in Visconti è sempre presente l’esperienza del melodramma, (a lui si devono straordinari allestimenti operistici), evidente in molte caratterizzazioni popolari presenti nelle sue opere.

Non perfettamente riuscito, ma interessante come tentativo, e l’adattamento di Maurizio Ponzi de I fanatici di Robert Musil, in I visionari (1968); anche in questo caso l’intreccio sentimentale, vissuto in un clima fortemente drammatico, riguarda uomini di teatro e offre numerosi occasioni per mostrare il sovrapporsi dell’esistenza reale a quella interpretata in palcoscenico. Un soggetto che ha trovato in Italia particolare fortuna è il dramma di Alexandre Dumas Kean, dedicato a un attore inglese mandato in esilio dal Principe di Galles, suo rivale in amore. Realizzato una prima volta nel 1940 daGuido Brignone con Rossano Brazzi come protagonista, se ne ebbe una nuova versione nel 1956, con Vittorio Gassman, oltre che protagonista, anche nell’insolita veste di regista. In entrambe le opere prevale un’impostazione teatrale che, per esaltare le doti degli attori, rinuncia ad operare con originalità sulla struttura narrativa.

Non possiamo non citare l’opera cinematografica di Eduardo De Filippo che, sia in qualità di interprete sia di regista, rappresenta uno degli esempi più riusciti di compenetrazione fra i due linguaggi. Non tutte le sue opere cinematografiche raggiungono un livello di eccellenza, ma ciò che è rilevante è la facilità con cui De Filippo riusciva a trasferire il proprio complesso lavoro teatrale nell’opera cinematografica, sfruttando genialmente la presenza scenica (Totò splendido in Napoli milionaria -1950-) anche di personalità estranee al mondo teatrale (Domenico Modugno in Filumena Marturano -1951-, qualche anno più tardi presente anche in un’opera di Pasolini). Altri autori italiani, alternatisi fra cinema e teatrao, non hanno a nostro parere conseguito risultati di pari rilievo: come Liliana Cavani e, a un livello più modesto, Giuseppe Patroni Grifi e Franco Zeffirelli.

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Abbiamo considerato separatamente le trasposizioni cinematografiche del repertorio teatrale e i film che affrontano tematiche relative alla vita del teatro; contemporaneamente, però, abbiamo messo in luce come una valutazione estetica non possa fare a meno di una loro considerazione congiunta, dove si possano stabilire i rimandi di carattere tecnico e linguistico. Tale ricerca permette di sottolineare un elemento irriducibile dello sguardo cinematografico: per quanto si voglia riproporre la visione del palcoscenico, la macchina da presa non potrà mai identificarvisi; inevitabilmente aggiunge un elemento di interpretazione che pregiudica qualsiasi descrizione oggettiva. Questa constatazione dovrebbe delegittimare quella polemica (o in alcuni casi semplice diffidenza) rivolta al “teatro filmato”, ovvero alla ripresa cinematografica di un allestimento teatrale; si nega infatti a questa scelta estetica una specificità cinematografica e la si riduce a semplice mimesi di un’altra forma rappresentativa. Eppure, proprio analizzando le opere citate sopra, ci accorgiamo che uno sguardo neutro e obiettivo della rappresentazione teatrale è impossibile e che anche queste opere costituiscono pura letteratura cinematografica. Citiamo a questo proposito alcuni esempi significativi: innanzitutto due capolavori di Peter Brook. Brook è sicuramente uno dei più grandi innovatori del teatro contemporaneo, anche se iniziò la sua attività come regista cinematografico. Al 1967 risale Marat-Sade, ripresa dell’allestimento londinese di Brook stesso dall’opera di Peter Weiss. E’ un film che, pur mostrando in pieno la concezione teatrale del regista (spazio della rappresentazione angusto, essenzialità della scenografia, partecipazione diretta del pubblico) non rinuncia a uno specifico filmico; anzi, anche quando Brook sottolinea la finzione scenica (la truccatura degli attori, l’artificiosità dell’ambiente) paradossalmente propone una riflessione sull’originalità della rappresentazione cinematografica, vistosa negli angoli di ripresa impensabili nella visione teatrale. Nel Mahabarata (1989) la ricostruzione non avviene direttamente in palcoscenico ma sono presenti tutte le convenzioni teatrali, dall’essenzialità della scenografia, che si risolve in poche indicazioni fondamentali, alla recitazione antinaturalistica.

Un altro grande esempio di teatro filmato è la monumentale opera di Manuel De Oliveira Le soulier de sautin (1985), tratta dall’opera di Paul Claudel. Un lunghissimo piano sequenza iniziale introduce gli spettatori nel teatro, quindi si ha la messa in scena dell’opera, che procede per oltre sei ore. Le inquadrature sono tutte molto prolungate e la camera è quasi sempre fissa o, quando si muove, lo fa con lievissimi spostamenti; sbaglierebbe però chi interpretasse questa staticità come un volontà di identificare lo sguardo della macchina da presa con quello dello spettatore a teatro, una rinuncia, cioè, allo specifico filmico a favore dell’unicità di un punto di vista. De Oliveira riesce invece ad esaltare al massimo l’autonomia espressiva della macchina da presa, scegliendo diversi angoli di ripresa, a rendere problematica quella sicurezza e quell’oggettività propria della visione teatrale. Un altro esempio significativo è fornito dai due film di Carlos Saura, dedicati a una rappresentazione di balletto, rispettivamente Bodas de Sangre(1981) e Carmen story (1983). Lo sguardo della macchina da presa, che documenta le prove del balletto di Antonio Gades, segue gli artisti anche dietro le quinte, aggiungendo qualcosa alla semplice rappresentazione su palcoscenico; ma se ancora persistessero delle perplessità sulla natura cinematografica di quest’opera, Saura le chiarisce con il successivo Carmen story, dove, oltre alle prove e al balletto, la trama slitta dalla rappresentazione alla realtà, confondendo le due dimensioni come solo il cinema riesce a fare. L’altra opera che prendiamo in esame è Vanya sulla 42ma strada (1994) di Louis Malle. In questo caso la ripresa dell’allestimento dell’opera checoviana di André Gregory è fedelissima: gli attori recitano le prove in abito borghese e in una scenografia particolarmente spoglia; vengono poi seguiti durante l’intervallo fra le prove, senza però cercare artificiosi raccordi narrativi (il solito tema della confluenza fra scena e vita) ma solo per indicare con maggior realismo l’impegno e l’umanità propri del lavoro teatrale. Nell privilegio di seguire il lavoro dell’attore anche dietro le quinte, sta la specificità cinematografica di Zio Vanja. La macchina da presa segue impercettibilmente la genesi della rappresentazione e svela quel momento in cui l’attore, pur rimanendo se stesso – non si cambia neanche gli abiti- dà origine al personaggio, fino a sconvolgere il proprio stato emotivo

Lo sceneggiatore del film di Malle è David Mamet, probabilmente il maggiore commediografo statunitense del dopoguerra, uomo di teatro che ha contribuito in maniera esplicita a rinnovare il cinema americano degli ultimi anni. Questo non solo attraverso le regie personali (La casa dei giochi-1987-; Le cose cambiano -1987-) ma soprattutto nella sua collaborazione in qualità di sceneggiatore o, più in generale, costituendo un punto di riferimento nell’organizzazione della messa in scena. L’esempio forse più eclatante di questo condizionamento esercitato da Mamet nel nuovo cinema americano è Le iene di Quentin Tarantino (1992), dove la vicenda si svolge in un solo ambiente, la cui dimensione claustrofobica gradualmente porta a esasperare la tensione drammatica nelle relazione fra i vari personaggi. Una simile struttura, rispettosa dell’unità di luogo,in cui si realizza un crescendo drammatico, è magistralmente sfruttata in due film di Robert Altman, Jimmy Dean Jimmy Dean (1982) e Streamers (1983); in quest’ultimo caso la struttura claustrofobica è accentuata dalla dimensione monosessuale (una caserma) in cui si trovano coinvolti i protagonisti.

Melodramma musicale

E’ evidente che il cinema, nel momento in cui affronta una rappresentazione musicale, deve per forza di cose presupporre l’effetto antinaturalistico della narrazione: la parola cantata esclude la possibilità di una totale verosimiglianza e impedisce l’immedesimazione con i personaggi; in altre parole, si è sempre coscienti di assistere a una finzione scenica. Da questo punto di vista, però, il melodramma non si differenzierebbe dal musical; anche quest’ultimo, in molti casi, si origina a partire da alcune fortunate rappresentazioni teatrali e deve confrontarsi, per l’elaborazione delle coreografie, con una tecnica che nel teatro trova il proprio luogo naturale. Inoltre molti musical costituiscono splendidi esempi di riflessione sulla vita teatrale, come Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen. D’altra parte però il musical assume con più naturalezza un carattere cinematografico, soprattutto perché si possono ridurre le performance musicali e collegarle fra loro attraverso dialoghi, limitando così i momenti palesemente antirealistici.

Il melodramma però ha anche, rispetto al musical, una maggiore originalità nella struttura della trama; il musical spesso si rifa a moduli narrativi ripresi da altri generi, letterari o cinematografici; il melodramma ha invece dato origine a un genere proprio, caratterizzato da un’accentuazione estrema delle tensioni emozionali. Si può allora parlare di melodramma (ricordandone l’originaria derivazione, ma sempre in quanto genere specifico) per tutti quei soggetti che, nell’esposizione di una trama drammatica, esasperano le reazioni emotive e sentimentali; abbiamo citato in precedenza Douglas Sirk, cui si richiamerà, per esempio, Reiner Werner Fassbinder.

Venendo ora al repertorio lirico, notiamo una prevalenza di soggetti derivati dalla Carmen di Bizet; l’opera, che è in assoluto la più rappresentata al mondo, ha dunque esercitato un pari fascino nel modo del cinema. Si tratta forse dell’unico melodramma che ha avuto diverse versioni nel solo periodo del muto (Cecil B. De Mille, Charlie Chaplin, Ernst Lubitsch, Jaques Feyder e altri). La versione cinematografica dell’opera risale invece al 1984, per la regia di Francesco Rosi, che accentua gli elementi di realismo, girando le scene in piccoli e assolati paesi della Spagna. La scelta dei cantanti prevedeva gli interpreti più accreditati dell’epoca (Placido Domingo, Julia Miguenes, Ruggero Raimondi) dalle qualità recitative differenti.

Il risultato più convincente della storia del cinema, in merito alla ripresa di un melodramma, è Il flauto magico di Ingmar Bergman. La frequentazione delle regie teatrali ha permesso sicuramente la riuscita di questo capolavoro; probabilmente anche Luchino Visconti avrebbe potuto realizzare opere straordinarie ma egli, pur mutuando molti elementi dalla rappresentazione melodrammatica, non decise mai di riprendere un’opera lirica per lo schermo. Nel Flauto magico (1974) si realizza un fenomeno realmente particolare: da una parte vi è un’assoluta fedeltà alla poetica mozartiana e un estremo rigore nel delineare le caratteristiche estetiche dell’opera, nonostante la versione in svedese; dall’altra Bergman riesce a personalizzare la rappresentazione inserendo i temi stilistici a lui più cari, presenti in numerose opere della sua filmografia: l’attenzione per l’invisibile e il mistero e, contemporaneamente, l’adesione e l’interesse per ogni forma figurativa e spettacolare. Sicuramente di minor livello è l’altra nota versione cinematografica di un capolavoro mozartiano, Don Giovanni di Joseph Losey (1979): fondamentale in questo tentativo è l’ambientazione dell’opera nel veneto palladiano e, contemporaneamente, la psicologia distruttiva ma nel contempo quasi eroica con cui Losey descrive Don Giovanni. Il risultato denuncia una certa freddezza e un’incapacità di amalgamare in modo autentico l’ambientazione con la trama, anche se, a differenza del film di Rosi, la recitazione dei cantanti è sempre di alto livello.

Per quanto riguarda il repertorio italiano, non ha avuto particolari produzioni internazionali; non mancano riferimenti espliciti al melodramma in molte opere straniere, specialmente nel cinema USA quando ci si concentra sulla comunità italo-americana; tentativi di filmare opere intere però spettano solo al nostro paese.

La personalità di maggior rilievo è senz’altro quella di Carmine Gallone, che cercò in tutti i modi di divulgare l’opera lirica attraverso il cinema. Filmò diverse biografie di musicisti: Giuseppe Verdi (1938) Casta diva su Bellini (1935, 1954) Puccini (1952) e Casa Ricordi (1954). In egual misura si dedicò al repertorio di Verdi, Puccini e Mascagni. Non è possibile esaminare nel dettaglio tutti i suoi lavori: fra le opere più riuscite possiamo annoverare La forza del destino (1950) e Madama Butterfly (1955). Gallone evidenzia tutti i luoghi comuni collegati alle opere: la retorica risorgimentale nel caso di Verdi, il legame con la cultura popolare, qualche accenno di critica sociale: per fare questo ricorre a qualsiasi mezzo stilistico, dalla descrizione neorealistica, al grottesco o drammatico, finanche al comico. Questo eclettismo stilistico è forse il limite dei suoi lavori e fanno sì che queste opere, sicuramente fondamentali, non possono essere un punto di riferimento estetico sui rapporti fra cinema e melodramma musicale.

Sulla scia dei film di Gallone si collocano poi lavori analoghi di Flavio Calzavara e Amleto Palermi.

Per quanto riguarda gli anni recenti, Franco Zeffirelli ha proposto con continuità versioni cinematografiche di opere liriche: queste risentono degli stessi limiti delle opere teatrali; un effetto di realismo, un attenzione agli aspetti esteriori della scenografia e della recitazione che occulta le sottigliezze musicali e drammatiche dell’opera.