Estetica d’avanguardia e ricerca musicale: per la formazione di un ascolto critico
Da “L’Acropoli”, n°3 giugno 2002, pp 372-390.
Per ritardi nella trasmissione, il testo venne pubblicato con l’inadeguato titolo “La musica del 900”, invece di quello qui proposto, concepito in origine dall’autore.
La tematica più rilevante emersa dal convegno “Due, tre cose sulla musica del secondo Novecento” [1] è probabilmente quella relativa all’incapacità della musica contemporanea di coinvolgere ampie fasce di pubblico. La maggior parte degli interventi individua le ragioni di questo disinteresse nella ricezione problematica di tale repertorio, così scostante da impedire anche il semplice manifestarsi di un interesse iniziale, da confermare poi attraverso una frequentazione periodica.
Questa discussione non rappresenta certo una novità nel quadro della cultura musicale del nostro paese; eppure, quasi sempre, viene riproposta in un modo sostanzialmente ripetitivo, che impedisce un’analisi adeguata del fenomeno e lascia campo libero ai denigratori radicali, i quali, demagogicamente, hanno gioco facile nel considerare le complessità linguistiche quali assurdità.
Mi sembra però che alcuni degli interventi al convegno, pur in forma molto limitata, hanno contribuito ad ampliare il campo dell’indagine; nella consapevolezza che solo in tale dimensione più allargata la questione può trovare – se non soluzione – almeno una definizione adeguata. A partire da quello spunto, il proposito della seguente analisi è di delineare i contorni di tale contesto; solo infatti se la tradizione musicale contemporanea esce dal suo isolamento, e viene anzi fatta interagire con le altre espressioni dell’avanguardia artistica, possono spiegarsi le difficoltà che sembra suscitare nel suo potenziale pubblico.
1. E’ necessario, innanzitutto, storicizzare il problema: la crisi di pubblico che coinvolge i concerti di musica contemporanea è sì un fenomeno di carattere generale, ma nello stesso tempo attraversa fasi storiche facilmente individuabili, che permettono di precisare il contesto socio – culturale che impedisce o facilità una ricezione della sua poetica. Molti analisti si lasciano confondere dalla constatazione che, nel campo musicale, la tradizione d’avanguardia ha sempre faticato ad affermarsi, in modo ben più consistente delle altre espressioni artistiche: le reazioni di esplicito dissenso, nel momento in cui le composizioni contemporanee venivano esibite in luoghi di lunga tradizione musicale e per di più affiancandosi a brani di ben sperimentato repertorio, si sono verificate sempre, anche nei periodi in cui le rassegne dedicate alla Nuova Musica conoscevano un coinvolgimento molto diverso da quello di oggi. Eppure, non bisogna dimenticare come, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, i concerti di musica contemporanea rappresentavano in sé degli eventi ed erano capaci di costituire autonome stagioni concertistiche con una quantità più che accettabile di abbonati [2]. Anche allora esistevano evidenti problemi di fruizione da parte della maggioranza delle persone abituate a frequentare i concerti di musica colta; eppure era meno prese nte quel senso di isolamento – addirittura di delegittimazione estetica – che ha prevalso in seguito [3].
L’attuale crisi della musica contemporanea si inserisce quindi in una crisi più generale del linguaggio delle avanguardie, in particolare per il periodo relativo al secondo dopoguerra. Se infatti le avanguardie storiche sono ormai storicizzate e messe in relazione a un particolare momento storico ed estetico, gli sviluppi radicali derivati da quelle sono, secondo alcuni studiosi, oggetto di critica proprio perché non contestualizzabili, estranei alla sostanza ontologica della modernità. La musica allora, non farebbe altro che risentire di quella crisi dell’avanguardia radicale che interessa tutte le espressioni artistiche.
Non c’è dubbio però – ma questo non fa altro che replicare un fenomeno già manifestatosi nel passato – che nell’ambito musicale tale crisi abbia effetti più visibili, dia luogo a reazioni di rifiuto a volte eccessivo, motivate dalla volontà di correggere uno sviluppo storico che, secondo molti, si è avviato verso una strada sbagliata, tenuta in piedi da interessi elitari.
Ritengo che le motivazioni della particolare ostilità incontrata dall’avanguardia musicale siano ancora quelle indicate da Adorno: “per definire il precario rapporto del pubblico con la musica nuova non basta però affatto ricorrere all’alienazione sociale tra la produzione avanzata e intransigente e le masse. Basta una visita a qualche sovraffollata esposizione di pittura contemporanea per dimostrare che esiste una stridente diversità fra i due campi … Si possono chiudere gli occhi, e si può smettere di guardare un quadro troppo impegnativo, per poi tornare a rivederlo. Ma l’organo aperto dell’orecchio è, indifeso, in potere dello stimolo sensoriale. Un’arte che si svolge nel tempo non permette che la si trascuri impunemente, come invece è possibile con le arti spaziali” [4]. Il fattore tempo è determinante: la musica non permette al pubblico di stabilire autonomamente i tempi di fruizione, laddove il frequentatore di mostre può sorvolare su molte opere; l’interruzione della fruizione, in musica, è già un atto di rifiuto dell’opera.
L’osservazione di Adorno non isola però la musica in una sua particolare specificità; identica caratteristica è posseduta infatti dal cinema. Anche in questo campo la frequentazione delle opere di avanguardia ha subito un forte calo e, anche tra gli addetti ai lavori, è spesso “sopportata” o valutata con scetticismo. All’edizione 2001 del festival del cinema a Cannes, la proiezione dedicata ai giornalisti accreditati di un film straordinario, Operai, contadini di Jean-Marie Straub e Danièle Huillett, “ha probabilmente battuto il record delle defezioni” [5]. Esempi di questo genere sono molto frequenti.
Per spiegare il fenomeno, e trovare una motivazione comune alle opere cinematografiche e al repertorio musicale contemporaneo, bisogna cercare di capire quali ragioni giustificano oggi il rifiuto da parte del pubblico; la risposta più plausibile sembra essere la richiesta continua e pressante di concentrazione che tali opere richiedono; l’apprezzamento estetico non si offre da sé, ma deve essere ricercato attraverso un’analisi approfondita e un accostamento vigile delle immagini o dei suoni che costituiscono, rispettivamente, l’opera cinematografica e la composizione musicale. Non si tratta del fatto che in tali produzioni l’elaborazione intellettuale sostituisce del tutto il godimento estetico; nell’arte d’avanguardia – e vorrei dimostrare questo in seguito – il piacere estetico è presente in misura eguale a quello vissuto nel repertorio classico. Tant’è che difficilmente appassionati della nuova musica rifiutano o sono incapaci di giudicare un brano di repertorio tradizionale; ed è assurdo ipotizzare che l’interesse per il passato musicale e quello per l’avanguardia contemporanea corrispondano a modi d’intendere la musica o a esperienze di ascolto radicalmente diverse.
Il fatto è che nelle opere di tradizione può esistere un doppio livello di fruizione: l’ascoltatore può abbandonarsi a un godimento passivo, approfittando di un codice linguistico già conosciuto e quindi rassicurante, oppure attivamente sovrapporre la propria attenzione critica al brano, cogliendone in modo più attivo le caratteristiche strutturali e le sfumature dell’interpretazione. Resta inteso che solo quest’ultimo è l’atteggiamento corretto, capace di chiarire il valore estetico dell’opera; di conseguenza, possono esistere forme di appropriazione compiaciute del repertorio che corrispondono però a una vera e propria “falsa coscienza”, dove non si realizza il confronto critico con l’opera d’arte, ma si riflettono in essa i limiti della propria conoscenza. Nella musica contemporanea l’apprezzamento estetico si dà solo in questo secondo atteggiamento, in quanto richiede l’individuazione e in molti casi l’istantanea elaborazione dello stesso codice. La musica contemporanea, in altre parole, impone un atteggiamento corretto dell’ascolto – l’atteggiamento corretto per confrontarsi con qualsivoglia oggetto estetico -, che dovrebbe in realtà applicarsi anche al repertorio tradizionale.
Se riflettiamo sull’esempio adorniano riportato poc’anzi, potremmo considerare la possibilità del visitatore di una mostra di pittura d’avanguardia di accelerare o di sorvolare su determinate opere, a quella dell’ascoltatore di rifugiarsi, anche solo per un breve periodo di tempo, nella tranquillità dell’ascolto passivo; ovvero la possibilità di decidere l’utente i tempi e le modalità della concentrazione.
In particolare, ciò che viene rifiutato – e ciò mi sembra il tratto più caratteristico dell’epoca attuale – è l’essere costretti a mantenere l’attenzione costante, la lentezza implicita nella pratica della riflessione; il gusto dell’assaporamento, della considerazione di un singolo attimo viene negato dall’esigenza che stimoli diversi continuamente modifichino l’atto fruitivo, per evitare la sensazione della noia.
Da questo punto di vista, la riflessione elaborata in ambito cinematografico ha delineato adeguatamente il problema, in una maniera che si può trasporre anche al contesto musicale; a riprova che è sempre più urgente seguire i dibattiti estetici e le linee poetiche delle diverse arti, per un’utile considerazione comparativa. “Il vero nodo teorico del cinema americano contemporaneo è infatti proprio la questione della velocità … tutto il cinema spettacolare hollywoodiano procede a una velocità unica …elimina dal proprio orizzonte visivo tutto ciò che viaggia al di sotto di una determinata velocità … Tutto si amalgama all’interno di un unico movimento, teso sostanzialmente nemmeno a stupire quanto (più banalmente) a conservare l’attenzione dello spettatore. La velocità a oltranza si traduce in una sorta di (paradossale) diffidenza nei confronti dell’immagine che pur essendo memore (attraverso l’abuso pubblicitario operato) della storia del cinema, non è in grado di dialogarvi se non deprivandola della sua differenza”[6]. Queste osservazioni mettono in risalto un nodo concettuale determinante: la velocità, utile a favorire l’attenzione dello spettatore a scapito però della riflessione sull’evento, nega alla radice il fondamento estetico su cui poggia una determinata espressione artistica. Nel caso in questione, la velocità nega valore e pregnanza estetica all’immagine, che un appassionato di cinema dovrebbe di per sé apprezzare; nel caso della musica, l’insofferenza per un codice linguistico nuovo e per una scelta timbrica anomala rivela il rifiuto di esplorare il mondo del suono. Laddove l’avanguardia musicale ha tentato, dall’iniziale superamento della tonalità attuatosi con la Scuola di Vienna e con la nascita della serialità, di appropriarsi dell’intero universo sonoro, l’appassionato di musica ostile all’avanguardia rifiuta a priori quell’atteggiamento finalizzato alla scoperta di nuovi orizzonti sonori, che in lui dovrebbe invece essere naturale.
Mi è venuto in mente il comportamento di alcuni appassionati (non li definirei studiosi) di cinema che, in occasione della messa in onda televisiva dell’opera prima del regista ungherese Bela Tarr, Satantango, opera di quasi otto ore di durata, lo hanno visionato sul videoregistratore a velocità doppia, per accelerare le scene girate in rigorosi piani – sequenza. E’ un caso tipico in cui l’appassionato di cinema nega (anche in questo caso paradossalmente) il valore dell’immagine, che in sé non gli fornisce piacere o interesse estetico. Nell’opera cinematografica, invece, l’immagine dovrebbe essere capace di esaltare anche la trama più banale e caricare così di senso la visione; si noti che in Satantango non manchi affatto una struttura diegetica rilevante [7], solamente che la trama stessa si dipana con lentezza, caricando progressivamente le immagini di valore espressivo e obbligando lo spettatore a considerare in modo più articolato la relazione tra scelta estetica e contenuto narrato.
Un uguale considerazione si vuole sostenere a proposito di alcuni atteggiamenti distruttivi rivolti alla musica contemporanea: le critiche più radicali al valore estetico della musica del Novecento – in alcuni casi accusata di assurdità – in verità implicano un rifiuto di ciò che dovrebbe essere a fondamento dell’estetica musicale, il culto del suono e della sua organizzazione.
Sulla base di tali convinzioni, suonano assurde le affermazioni tese ad identificare modernità e velocità [8], in quanto confondono la degenerazione realizzatasi nelle capacità di fruizione in seguito alla sempre più evidente mercificazione della creatività individuale, con la riflessione critica sulla stessa. Paradossalmente, tutto ciò che la modernità esprime quale atteggiamento critico verso le involuzioni espressive che vi si verificano, sarebbe estraneo ad essa, un suo tradimento. La modernità, in altre parole, sarebbe un’epoca a cui si nega la riflessione su di sé, forse perché – come abbiamo già detto – l’idea stessa di riflessione è rifiutata dalla dimensione della spettacolarità.
2. L’inconsistenza delle posizioni più iconoclaste verso la musica d’oggi non devono però condurre a misconoscere il problema; la scelta a favore del linguaggio d’avanguardia fatica a formare un gruppo di appassionati stabile, numericamente significativo, non necessariamente esperto e addetto ai lavori. Di conseguenza, pur rifiutando le affermazioni più demagogiche, è necessaria una riflessione autocritica. Non tanto sul valore dei singoli repertori (il valore estetico di un brano musicale non cambia in base al pubblico che è capace di apprezzarlo), quanto sull’immagine che di sé ha coltivato l’avanguardia artistica in alcuni suoi momenti storici.
Il problema così impostato differisce notevolmente dal modo in cui lo aveva affrontato Adorno. Nel suo saggio L’apprezzamento della musica [9], egli considera quale unica modalità di ascolto valida per apprezzare il repertorio contemporaneo l’ascolto strutturale [10], fondato su solide basi musicologiche. Un ascolto per musicisti dunque, che esclude a priori l’esistenza di un pubblico ampio, privo di approfondite cognizioni musicali e che, dunque, sembra condannare la musica d’oggi a una sorta di circolo elitario. L’idea che si possa apprezzare la nuova musica semplicemente abituandosi, attraverso un ascolto ripetuto, guidato e consapevole – in modo da introdurre all’ascolto anche la persona musicalmente inesperta – che abitua gradualmente alla diversa concezione del suono e insegna a individuare la struttura, di volta in volta diversificata, con cui organizza le composizioni, viene da Adorno negata recisamente [11].
Ad Adorno è inoltre imputabile un altro atteggiamento di incomprensione destinato a pesare sull’ambiente musicale occidentale del Novecento. Mi riferisco in particolare alla chiusura, a volte settaria, che a livello teorico e pratico si è realizzata nei confronti di quelle esperienze estetiche le quali, pur mostrando in sé un grande valore, mantenevano un rapporto stretto con la dimensione della produzione di massa [12]. Questa incapacità di individuare il valore espressivo e la genialità nei contesti dove meno ci si aspetterebbe di trovarli caratterizza soprattutto l’ambito musicale. Sul fronte pittorico o su quello cinematografico tale sintesi è più diffusa; non a caso molti registi considerati “ostici” affermano di essersi ispirati a figure marginali dei cosiddetti “B movie” [13]. In musica l’ostilità da parte dei compositori dell’avanguardia per tutto ciò che poteva sembrare compromesso con il mercato ha condotto a misconoscere contemporanee forme espressive di straordinario valore. In particolare, la musicologia colta ha per lungo tempo ignorato il fenomeno del jazz, lasciato in balia di una critica specialistica che ha faticato prima di trovare una propria identità musicologica coerente e riconosciuta [14].
E interessante allora sottolineare come molti degli interventi al Convegno di Firenze prevedessero riferimenti al jazz, quale forma espressiva capace di riavviare quella riflessione critica sulla musica del Novecento, destinata altrimenti ad avvilupparsi sterilmente intorno ai medesimi problemi. In molti casi, però, tali riferimenti danno l’impressione di un interesse recente e non coltivato in modo approfondito, che porta a formulare giudizi affrettati e non articolati su singoli musicisti e a ignorare riflessioni analoghe che avevano caratterizzato in passato la critica jazzistica italiana, di cui molto si ignora e della quale sarebbe utile una sintesi storica.
Prima di entrare nel merito di questa indagine, è utile cercare di comprendere lo spirito con cui queste frequenti citazioni del jazz sono state proposte; si è infatti raggiunta la consapevolezza che la tradizione musicale afroamericana ha, nel corso della sua storia, affrontato e risolto problemi analoghi a quelli dell’estetica musicale occidentale contemporanea e, in alcuni casi, le conclusioni della ricerca e le affinità espressive sono molto più strette di quanto il materiale sonoro, a prima vista, lasci pensare. Un’analisi approfondita di alcuni nodi musicologici cruciali della storia del jazz permette di comprendere meglio molte scelte espressive della tradizione contemporanea, fosse solo perché da molto tempo i jazzisti – un tempo isolati in un angolo culturale non totalmente disconosciuto ma comunque relegato ai margini della ricerca musicale colta – si sono confrontati in modo più aperto con la tradizione occidentale, condizionando importanti svolte stilistiche.
Non è il caso in questa sede di ricordare i motivi della storica diffidenza nei confronti del jazz da parte della musicologia occidentale, in parte giustificata da una evidente difficoltà di comprendere – ad inizio secolo – la reale portata del fenomeno jazzistico. “…all’arrivo del jazz le orchestrine europee si adeguarono prontamente. La musica che diffusero, variante attenuata della variante attenuata del jazz nero popolarizzata dalla ODJB [Original Dixieland Jass Band, N.d’A.], fu il jazz in cui si imbatté qualche intellettuale in cerca di sensazioni vergini e disposto a dar credito a una denominazione d’origine non controllata. … Cio che veramente stupisce -–sono le parole crude ma vere di André Hodeir – è come abbia potuto Ravel, sia pure per poco tempo, interessarsi a così evidenti cianfrusaglie” [15]. Probabilmente tale sfortunato primo incontro fu responsabile di molte incomprensioni, per quanto non mancarono analisi successive più attente; l’isolamento conseguente portò l’appassionato di jazz – musicalmente colto e consapevole del valore estetico della musica amata – ad isolarsi in un limbo dove scaricava le proprie frustrazioni per non essere accolto nel “salotto buono” della musica mostrando un analogo snobismo verso la tradizione del rock’n’roll, alla quale da molti osservatori superficiali il jazz era accostato. Il carattere provinciale assunto così dall’appassionato di jazz – e dalla iniziale critica jazzistica – spiega anche il disinteresse di Adorno: “Accade così che perfino lo studioso serio non può giungere al cuore della problematica del jazz perché gli si frappone una barriera di patiti i cui comportamenti non lasciano prevedere nulla di buono sull’oggetto del loro interesse. E accaduto, tra gli altri, ad Adorno, che è riuscito in pari tempo a scrivere cose sommamente idiote sul jazz e cose illuminanti sul suo pubblico, sia pure dall’alto di una sprezzante cattedra eurocentrica la cui patente arbitrarietà oggi difficilmente passerebbe inosservata” [16].
3. Intendo soffermarmi su un particolare periodo della critica jazzistica italiana, risalente agli anni ’70. Si tratta di un periodo che succede al cosiddetto “Free-jazz” [17], rivoluzione estetica che già aveva suscitato forti perplessità presso gli appassionati, che lo interpretavano, in parte sbagliando, come una radicale contestazione e come rottura di una struttura linguistica che si riteneva, dogmaticamente, intrinseca e necessaria alla stessa espressività jazzistica. Per rendere un’idea dell’impatto storico suscitato dal free-jazz, possiamo citare l’incipit del capitolo su Gerry Mulligan del celebre testo di Arrigo Polillo: “Per molti amatori del jazz Gerry Mulligan è l’ultimo grande che abbia fatto della musica accettabile prima che venisse il caos. Per tanti altri invece è stato l’ultimo dei borghesi: un conservatore che si presentava sotto le mentite spoglie dell’innovatore per fare della blanda musica di consumo, ben costruita e gradevole quanto disimpegnata”[18]. Il giudizio estetico teso a identificare il free-jazz con il caos, che richiama evidentemente le accuse di assurdità rivolte al repertorio classico contemporaneo, si ritrovano anche in uno dei protagonisti del jazz di questi anni, Wynton Marsalis: “Se per caso si riferisce al free – jazz, be’, penso che questi revivalisti faciano proprio bene ad evitare di riprendere tali drammatiche esperienze. … Il free jazz … guarda caso, è morto e sepolto e nessuno ne rimpiange la dipartita … Il free jazz ha costituito una colossale gaffe …E adesso serve un forte impegno comune per riconquistare certe posizioni catastroficamente distrutte. I giovani jazzmen stanno tentando di farlo, riproponendo il vero linguaggio, il vero spirito, il vero cuore del jazz.”[19]. L’autorevolezza di Marsalis quale esecutore del repertorio barocco ha dato purtroppo una eccessiva eco a tesi molto rozze, frutto di una semplicistica filosofia della storia applicata alla tradizione musicale afroamericana del ‘900, e assolutamente non corrispondente con gli effettivi valori estetici espressi dal jazz durante gli anni ’60.
E’ certo però che la radicale scelta estetica del free, con le conseguenti difficoltà di ordine comunicativo, comportò, alla fine di quel decennio, una crisi per alcuni dei suoi protagonisti[20]. Il testimone passò allora a gruppi di avanguardia che riproposero scelte estetiche radicali con maggiore consapevolezza storica e critica, cercando in molti casi ispirazione in quelle che erano le più avanzate ricerche in ambito europeo. Tale svolta liberò la ricerca d’innovazione linguistica nel campo del jazz dal semplice riferimento al free, articolandosi in differenti opzioni stilistiche, dovute sia alla formazione del singolo musicista, sia all’area geografica di appartenenza. In Europa si diffuse l’esperienza dell’’improvvisazione radicale [21], dove veniva dissolto qualsiasi legame col jazz dal punto di vista della sintattica musicale, rimanendo un collegamento esclusivamente sul piano della pratica strumentale e della tecnica improvvisativa. Tale esperienza, emergendo nella sua radicalità e autonomia, pure si inscriveva coerentemente in un’esigenza espressiva che risaliva alla tradizione afroamericana, tanto è vero che molti esponenti dell’area jazzistica statunitense ed europea hanno più volte collaborato a tali situazioni.
Non c’è dubbio che tale evoluzione degli anni ’70 tese a dividere la critica e a produrre atteggiamenti manichei che, oltre a caricarsi di un plusvalore ideologico superfluo, occultavano l’autentico contenuto estetico di tali ricerche. Gli esponenti più tradizionalisti della critica jazz negavano valore artistico a queste esperienze con argomentazioni simili a quelle che si opponevano alla musica contemporanea: ne denunciavano una palese irrazionalità rispetto al codice linguistico – in questo caso del jazz – necessario per l’effettuarsi di qualsiasi comunicazione [22]. All’interno della rivista Musica jazz, la redazione appoggiava probabilmente nella sua maggioranza tale riserva, ma sicuramente alcuni esponenti proponevano con fondate argomentazioni opinioni contrastanti. L’aspetto più interessante del fenomeno fu però che l’immagine del periodico venne superficialmente appiattita su una posizione di gretto conservatorismo da una rivista musicale concorrente, in realtà “rivista di musica e cultura progressiva”, Gong. Tale pubblicazione fu la principale sostenitrice di tutte le avanguardie degli anni ’70 di derivazione jazzistica, con commenti a volte qualificati, altre volte francamente condizionati da un atteggiamento mitopoietico che inevitabilmente impoveriva il contenuto estetico, in molti casi alto, degli oggetti analizzati per evidenziare invece un’immagine obbligatoriamente di rottura spesso estranea alle intenzioni degli artisti [23].
Non ci interessa in questa sede, però, ripercorrere il rapporto polemico tra le due testate, che il più delle volte, ma non sempre, avvenne attraverso riferimenti reciproci impliciti che non ricorrevano a citazioni specifiche. Intendo invece porre all’attenzione una convinzione comune a entrambi questi schieramenti: la considerazione critica della personalità musicale di Miles Davis, successivamente all’incisione di Bitches Brew [24] e a tutta quella esperienza che a lui si richiamò, denominata in modo generico jazz – rock. E’ importante notare questa sorprendente analogia in quanto Miles Davis è il musicista jazz più citato nel convegno di Firenze, senza peraltro dare l’idea che gli studiosi conoscano la difficoltà con cui la critica si è rapportata all’opera recente di questo autore.
Il Miles Davis successivo a Bitches Brew veniva contestato in entrambi i casi per avere commercializzato la musica afroamericana; nel caso, però, dei sostenitori delle avanguardie, Davis rappresentava l’esito reazionario rispetto alla cultura progressiva rappresentata dalle avanguardie post-free. Attraverso un ideologismo spicciolo, era facile accusare Davis, di essersi compromesso, per ragioni commerciali, con la logica di consumo delle case discografiche e di avere così deviato dalle più profonde motivazioni sociologiche della tradizione musicale afroamericana [25]. Nell’altro caso, invece, probabilmente si rivelava efficace l’indagine sociologica adorniana; l’appassionato di jazz, nello sforzo di differenziare il valore estetico della propria musica dal rock – considerato una degenerazione – e mal tollerando l’equiparazione che spesso tra i due generi la musicologia colta proponeva, rigettava la possibilità di qualsiasi relazione estetica, impedendosi così, con tale atteggiamento pregiudiziale, di cogliere le effettive motivazioni poetiche del nuovo genere e di distinguere i diversi valori qualitativi all’interno di tale produzione. In entrambi i casi, l’analisi puramente musicologica veniva lasciata in secondo piano, a favore di una presa di posizione ideologica.
Bisogna dire che gli interventi su Musica jazz manifestano sempre un’attenzione più attenta al dato musicale: nella recensione di Agartha [26], Giuseppe Piacentino ammette che il disco presenta “una situazione autenticamente creativa, come quel sorprendente e splendido intervento solistico in Theme from Jack Johnson” [27]. Tuttavia l’intenzione stroncatoria è evidente: “Davis in questo documento registrato dal vivo non è creativo ma pesca a piene mani dall’urna in cui sono raccolte le ceneri della musica che ha fatto per un quarto di secolo. … è evidente come questa musica non sappia contro quale muro battere la testa: spesso il discorso, se così possiamo definirlo, si arresta e viene poi ripreso in tutt’altra direzione fino a diventare una debole contemplazione del nulla”. La conclusione è comunque di grande crudezza: “L’unica spiegazione è che Miles Davis non sia minimamente cosciente di ciò che sta facendo. Arriverà la parabola discendente a toccare quel fondo che Agartha ci lascia chiaramente intravedere, decretando definitivamente la morte dell’artista Davis? Non vorrei sembrare cinico, ma con tutta franchezza io spero che ciò avvenga; ritengo che sarebbe un ben più importante accadimento assistere alla rinuncia da parte del trombettista della sua creatività piuttosto che un’inutile (e del resto improbabile) sua resurrezione. Spero che ciò avvenga, ripeto, anche se in tal caso il trauma sarebbe violento per ciascuno di noi” [28]. L’impressione suscitata da simili valutazioni è che la proposta davisiana venga sempre giudicata in base al passato dell’artista, al quale è vietata un’evoluzione indipendente da ciò che si avverte essere in continuità con la tradizione jazzistica precedente; idea che il recensore avrebbe mantenuto inalterata anche molti anni dopo [29].
Su Gong la posizione è diversa; in base al fondamentale ruolo esercitato da Davis nel corso della storia del jazz, si cerca di separare nettamente la sua poetica dal contesto strumentale, ritmico e timbrico di cui si è circondato, cercando in quel “caos” sonoro di rintracciare le sonorità del genio: “Se la centralità ritmica e percussiva del gruppo soffre di una pesantezza indistinta e ossessiva, gli interventi della tromba, le frasi gravide di lancinanti intuizioni, trasmettono scosse a tutta la materia; la sonorità, l’eleganza, il senso del blues non si sono fulminati al contatto con tonnellate di amplificatori; il lirismo ha incontrato la violenza, anche se Miles echeggia certe tematiche da lontano, più che viverle dall’interno, anche se questo incrocio è avvenuto in termini poco disinvolti. Forse anche qui il gioco della sintesi subisce una crisi di rigetto, ma almeno nel conflitto delle prevalenze il linguaggio non è insabbiato da tentazioni semplicistiche: sequenze come quelle di Agartha vibrano di una tensione che nessun bluff riuscirebbe mai a tracciare, non temono la forza imprevedibile dell’improvvisazione, ancora elemento determinante che annoda intorno a sé ogni altra componente in campo” [30].
La migliore rivalutazione critica del Davis elettrico di quel periodo è stata svolta invece da Gianfranco Salvatore [31]; lo studio dell’autore è a nostro parere interessante soprattutto sul piano metodologico. I giudizi espressi da questo studioso, infatti, pur giustificati da ampi e dotti riferimenti musicologici, risentono in molti casi di un entusiasmo verso la corrente del jazz elettrico che conduce a numerose sopravvalutazioni, nell’ansia – ci sembra – di valorizzare una maggiore continuità con la tradizione da parte della corrente del jazz-rock rispetto al free storico [32]; pur tuttavia è vero ciò che è stato detto in sede di recensione, ovvero che lo studio di Salvatore concentra l’attenzione su “un corpus di musiche in genere analizzate con poca reale attenzione e passione, quasi sempre simbolo di sterili polemiche tra chi si immedesimava nello spirito davisiano tout court e chi invece tracciava un solco moralistico tra il bene e il male dell’opera del trombettista; musiche più commentate che ascoltate, ci sembra, ridotte al loro valore funzionale e sociologico prima che artistico, non riconosciute soprattutto nella loro varietà e diversità” [33]. E’ evidente in queste parole non tanto la differenza dalle opinioni sopra citate, ma la novità dell’impostazione critica verso lo stesso oggetto, finalmente privo di pregiudizi ideologici.
Si tratta dunque di una vera e propria innovazione nella storia della critica, dove finalmente le opere del periodo elettrico vengono valutate secondo un criterio puramente musicologico. I risultati esegetici sono stati notevoli: è stato riconosciuto il ruolo del trombettista nell’ambito della ricerca più avanzata della musica contemporanea; in particolare, il fondale stesso che Davis ricerca in modo ossessivo e che caratterizza la sua musica in modo unico e raffinato – attraverso la ricerca di microvariazioni, di straordinari slittamenti timbrici, capace di creare imprevedibilità nella scansione, al di là della stesso ruolo esercitato dalla sezione ritmica del gruppo – presenta interessanti somiglianze con alcune analoghe esperienze della musica contemporanea, pure tesa a costituire un oggetto sonoro di radicale diversità. Un’attenzione sincera a quest’aspetto – che non è certo l’unico a rendere interessante la musica del Davis degli ultimi anni, capace tra l’altro di sorprendere chiunque cercasse di immaginare la tappa successiva della sua ricerca poetica – rende ragione della figura artistica del trombettista e la rende pure più complessa: Davis partecipò a molte rivoluzioni stilistiche della storia del jazz senza esserne in assoluto il creatore, a dimostrazione della sua straordinaria sensibilità nel percepire innovazioni creative dall’ambiente circostante; la sua grandezza non dipende solo dalle qualità solistische – relativizzando le critiche proposte negli anni ‘70 – ma dall’intera sezione ritmica che ha organizzato intorno a sé (per cui la rivoluzione del Davis elettrico andrebbe indubbiamente divisa con alcuni partner di quegli anni di pari valore).
Queste brevi osservazioni possiedono, dal punto di vista del presente saggio, una estrema importanza: in primo luogo demoliscono definitivamente la visione dualistica con cui spesso si è interpretata la storia del jazz dagli anni sessanta in poi: da una parte un’avanguardia decisa a mettere in discussione il codice dell’ortodossia jazzistica, dall’altra una ricerca che cercava l’innovazione mantenendosi ancorata ai caratteri distintivi del jazz quale genere musicale. La pratica della ricerca e dell’innovazione appartiene invece ad entrambi gli sviluppi stilistici che si sono spesso fra loro incontrati molto più di quanto si creda[34], e questo al di là della esegesi che gli stessi artisti hanno a volte fornito della loro opera. Non c’è dubbio infatti che, pur dichiarando molti di questi musicisti una decisa ostilità verso le ricerche dell’improvvisazione jazzistica più radicali, pure ne hanno riconosciuto per alcuni aspetti le esigenze espressive, adattandole alla loro poetica [35].
4. Le valutazioni ora proposte ci fanno comprendere quanto ingiustificata fosse l’autocomprensione solpsistica ed elitaria cui si rifugiarono i compositori più avanzati della scena europea; il confronto con quanto contemporaneamente accadeva nella scena jazzistica è fruttuoso nel momento in cui conduce alla consapevolezza che ogni proposta d’avanguardia è sempre in relazione con altri tipi di repertorio, del passato o contemporanei; di questo, almeno nel campo della musica jazz, i musicisti erano sicuramente consapevoli ben più di alcuni loro interpreti. Tale incomprensione – e la tesi che ritengo di poter sostenere – ha sicuramente nuociuto alla possibilità per la musica contemporanea europea di allargare il proprio pubblico.
Alla luce di quanto sopra osservato le citazioni relative a Davis al Convegno di Firenze potrebbero acquistare maggiore valore se proposte con tale consapevolezza storica. Mi sembra che l’interesse mostrato al convegno nei confronti del grande jazzista lo indichi quale modello di musicista che riesce a fondere tra di loro diverse esperienze espressive andando al di là della semplice giustapposizione, del pastiche o della citazione estemporanea, priva di profondità e dagli effetti tutti esteriori. Da questo punto di vista, l’estetica neoromantica, che spesso utilizza in modo effettistico e ben poco pregnante la citazione, sarebbe all’antitesi della creatività davisiana, capace di elaborare invece autentiche sintesi.
Questa lettura coglie in parte nel segno, ma si sottrae al nodo dell’avanguardia e della sua proposta linguistica; addirittura, sembra risorgere la convinzione che sia comunque auspicabile inserire nelle composizioni di ricerca frasi musicali riconoscibili, per liberare l’estetica dell’avanguardia dall’impressione di sgradevolezza; in pratica, si condivide l’idea che è necessario rendere accessibile il linguaggio piuttosto che sensibilizzare e migliorare la capacità d’ascolto dell’appassionato. E’ sicuramente vero che scelte espressive vicine all’estetica di consumo di per sé non compromettono il valore musicologico della ricerca, purché chi si accosti allo studio del musicista lo faccia ricercando le innovazioni linguistiche e non semplicemente la piacevolezza o l’accessibilità all’ascolto.
Negli ultimi quindici anni é sicuramente mutato l’atteggiamento in molti compositori del secondo dopoguerra; è maturata la consapevolezza che la ricerca musicale avviene anche in altri ambiti della musica moderna. La collaborazione realizzatasi, per esempio, tra Pierre Boulez e Frank Zappa, ha rappresentato sicuramente una delle esperienze più significative e più felici d’incontro tra compositori che hanno individuato un elemento comune nelle rispettive ricerche, a prescindere dalle diverse tradizioni cui i repertori facevano riferimento e, conseguentemente, dal differente bacino di pubblico. Questo dimostra come una corretta disposizione all’ascolto consente di prescindere da una rigida schematizzazione dei generi, senza rinunciare alla loro specifica poetica e superando qualsiasi atteggiamento pregiudiziale di derivazione adorniana.
Congiuntamente al realizzarsi di simili esperienze, la stessa musicologia contemporanea ha saputo uscire da quei limiti con cui si accostava alle ricerche più avanzate; è venuta meno in particolare quella tendenza a interpretare l’avanguardia musicale – sia nella tradizione accademica sia in quella di derivazione jazzistica – in una prospettiva teleologica: la dissoluzione delle strutture linguistiche costituiva un avvenimento di per sé irreversibile e, in quanto tale, destinato sempre più a radicalizzarsi, sino a portare addirittura alla scomparsa delle differenti identità musicali. La scelta espressiva più o meno radicale è invece una delle infinite possibilità di ricerca estetica, che può tranquillamente unirsi ad altre apparentemente più legate alla tradizione, purché si esca dall’equivoco della spettacolarizzazione o della necessità di essere per forza accessibili ai potenziali appassionati. Uguale appare l’impostazione teoretica di chi sostiene l’identità fra modernità e spettacolarizzazione; nell’impossibilità di riproporre una classicità (e constatata la dissoluzione dell’universo tonale), si smontano e rimontano le suggestioni del passato, decontestualizzandole e mutando il punto di vista in cui possono essere valutate; in questo modo non si produce alcuna innovazione linguistica, ma si sollecita unicamente il compiacimento del pubblico grazie a una riconoscibilità delle fonti che evita però la riflessione sul loro senso autentico [36]. La ricerca musicale deve invece procedere –e il jazz da questo punto di vista rappresenta un importante esempio –attraverso un rapporto con il passato che comporti però anche l’innovazione linguistica [37]. Non è vero infatti che nelle composizioni d’avanguardia manchi una relazione autentica con la tradizione: spesso il legame con il passato non viene citato esplicitamente, ma sotteso come retaggio che emerge, quasi inconsciamente, in alcuni frammenti. In campo jazzistico, ciò appare con evidenza nella proposta musicale di Albert Ayler, dove il legame con la tradizione (anche quella della fanfara alla New Orleans), pur non mostrandosi in richiami diretti, risulta palese e senz’altro più autentico di tutte le citazioni ellingtoniane di Archie Shepp. E gli esempi potrebbero continuare a decine anche all’interno del repertorio contemporaneo accademico.
5. Il problema va allora ribaltato o, comunque, le colpe vanno egualmente distribuite: se è vero che, in alcuni momenti storici, i compositori dell’avanguardia hanno peccato di autocompiacimento o si sono lasciati irretire da prese di posizione rigidamente ideologiche (per esempio a proposito della serialità o dell’aura), pure la richiesta del pubblico di avere a disposizione solo opere facilmente decifrabili e immediatamente godibili è in contrasto con le più autentiche motivazioni dell’arte. Parte della responsabilità, dunque, è anche della maggioranza del pubblico, che pretende da qualsiasi proposta artistica una immediata capacità di coinvolgere a prescindere dall’atteggiamento motivato con cui ci si accosta. Tenendo conto che tale degenerazione del pubblico aumenta mano a mano che nei media si restringe lo spazio dedicato alla riflessione, è necessario valutare le possibilità di un’azione culturale ad ampio raggio in grado di ricreare condizioni adatte ad una autentico avvicinamento all’opera d’arte.
Ammettere i limiti propri del pubblico non significa affatto disprezzarlo, ma prendere consapevolezza di un dato di fatto sociologico e avere presente la distanza esistente tra il valore conoscitivo dell’arte e l’immagine che della stessa offrono i mezzi di comunicazione. E’ un atteggiamento senz’altro più onesto intellettualmente di chi si affida alle spontanee e ingenue reazioni del pubblico medio per screditare con forza gli artisti più impegnati, salvo poi deriderlo per alcune particolari prese di posizione [38].
E’ doveroso però constatare come i detrattori della musica contemporanea, nonostante l’inconsistenza teorica delle loro tesi, appaiano vincenti all’opinione pubblica, in quanto capaci contemporaneamente di condizionare in negativo l’interesse verso le rappresentazioni della nuova musica e di distruggere in poco tempo il faticoso lavoro di educazione musicale che molte istituzioni cercano di proporre. E’ facile dileggiare un fenomeno che, all’apparenza, sembra sconvolgere la razionalità della tradizione e proporre il ribaltamento di quei canoni dell’ascolto tradizionalmente stabiliti. Ridicolizzare l’apparenza dell’oggetto significa impedirne un approfondimento, rassicurare il pubblico in merito al disorientamento e alla sensazione di inadeguatezza personale sperimentata all’ascolto. Alla “arte degenerata” venne dedicata persino una mostra, facendo leva sull’assurdità che al pubblico comune a prima vista quelle opere suscitavano; l’importante era distruggerle successivamente, evitarne la fruizione prolungata.
E’ evidente che tale rozza propaganda non può impressionare gli appassionati, ma riesce a tenere lontano quella fascia media di pubblico, in grado di dare forza anche a logiche e proposte di mercato. Come è possibile, per contrastare questa apparentemente impari propaganda, avvicinare quel pubblico, sensibilizzarlo alle nuove ricerche, motivarlo nella esplorazione di nuovi orizzonti espressivi? Va da sé che è necessario rinunciare all’ascolto strutturale adorniano e a tutto l’isolamento intellettuale che questo comportava; bisogna accettare l’idea che, anche nel caso del repertorio contemporaneo, sia possibile produrre diversi livelli di ascolto, a seconda della preparazione tecnica più o meno articolata del pubblico. Qualsiasi livello però, se condotto in maniera critica, non impedisce l’apprezzamento del valore di un’opera. In altre parole, pur condividendo gli aspetti di evidente originalità della musica contemporanea rispetto agli altri repertori, bisogna uniformare le modalità di ascolto fra questa e tutte le altre esperienze musicali.
Innanzitutto, è a mio parere necessario dirigere l’argomentazione, solitamente rivolta contro la ricerca d’avanguardia, anche nei confronti del repertorio classico; si tratta di contestare il privilegio di tale repertorio di essere accessibile. Si può sicuramente sostenere che determinate proposte espressive, in quanto coerenti con una tradizione di linguaggio codificata, non creino una reazione di rigetto da parte dell’ascoltatore; tale constatazione non implica affatto però che il valore dell’opera venga compreso e apprezzato in modo adeguato: il godimento dell’aria di un’opera non permette necessariamente di collocarla nel contesto drammatico di cui è parte integrante; la cosiddetta “accessibilità”, dunque, consente sì di rispondere alle esigenze del mercato, ma non è in grado di accertare una diffusa sensibilità estetica. Lo stesso discorso vale per tutte le altre arti: al di là della maggiore comprensione delle arti figurative, chi ne coglie solo l’aspetto descrittivo non è sempre in grado di distinguere il valore tra un’opera di Leonardo ed una del Veronese.
La fruizione dell’arte classica non è affatto meno problematica di quella dell’arte d’avanguardia; permette solo di occultare i problemi o, in altri più positivi casi, favorisce una frequentazione che alla lunga, esercitandosi la sensibilità, grazie anche al ricorso di strumenti critici, permette al gusto di evolvere. Non è di per sé affatto più facile cogliere la poetica di Beethoven rispetto a quella di Luigi Nono; o decodificare un’opera di Botticelli rispetto a quella di Emilio Vedova. Il riconoscere questo fatto permetterebbe di evitare quegli atteggiamenti o di acritica adesione o di superficiale supponenza nei confronti del pubblico medio.
Può essere utile, a riguardo, una riflessione sull’importanza del programma di sala; Alessandro Baricco ironizza sul fatto che senza tale supporto sia impossibile accostarsi a un brano di nuova musica [39]. In realtà però esso diventa un utile strumento per qualsiasi appassionato che intende seguire con consapevolezza un brano di repertorio da lui non ancora conosciuto. Se si parte dal presupposto che l’ascolto possa essere anche inconsapevole, e che dunque prescinde da un’adeguata preparazione e da una precedente informazione, si entra forse nella dimensione ludica e spettacolare del post moderno difesa da alcuni, ma si realizza definitivamente la sconfitta dell’arte, della sua funzione critica e riflessiva, facendo trionfare l’alienazione in ambito estetico.
Il problema dimostra di essere dunque unicamente di tipo culturale e l’unica soluzione possibile è, a mio parere, una soluzione didattica; in questo senso, la difficoltà di sensibilizzare i giovani all’apprezzamento dell’arte [40], rientra più in generale nella difficoltà incontrata dai docenti nel loro quotidiano tentativo di stimolare gli studenti verso le problematiche culturali, in concorrenza continua, ma sleale, con l’invito al disimpegno costantemente reiterato dai principali media. In alcune recenti dichiarazioni, Maurizio Pollini sembra confermare il quadro che abbiamo tracciato: “I giovani sono ultrasensibili alla bellezza e alla grandezza, ma l’educazione corrente nella scuola italiana e nell’apparato di comunicazione del nostro Paese non li aiuta a conoscere la musica davvero importante, forte ed eloquente. Molti giovani vanno in estasi accogliendo le emozioni molto modeste e deboli che la musica di consumo offre. Quanta felicità e quanti benefici traumi riceverebbero da un’arte ricca e complessa, se essi potessero conoscerla!” [41].
Un’abitudine all’ascolto musicale maturata a scuola [42] (ma anche alla visione approfondita di film o ad altre proposte artistiche, sia quelle che godono del generale consenso giovanile, sia quelle solitamente emarginate dalla programmazione commerciale) ridurrebbe sicuramente il credito goduto da quelle teorie più distruttive verso la ricerca sperimentale; in particolare – relativamente alla musica – si potrebbe contrastare l’idea che la sperimentazione sia irricevibile in quanto propone un tipo di organizzazione sonora che va al di là degli stessi “limiti fisiologici” [43]. Un lavoro effettuato a scuola di semplice confronto fra diverse tradizioni musicali farebbe comprendere l’inesattezza del concetto di “naturalità” del sistema tonale [44]; l’abitudine all’ascolto, la riflessione sulle modalità di composizione di un’opera musicale, il confronto fra le poetiche dei diversi autori, la considerazione dell’evoluzione storica della stessa ricerca musicale contemporanea, il confronto fra tradizioni musicali diverse del secondo dopoguerra, permetterebbe in parte di superare quella difficoltà iniziale che indubbiamente incontra l’ascoltatore al suo primo impatto con la nuova musica. Soprattutto, al di là della conoscenza del lessico musicale -–che inevitabilmente forma gli specialisti -, è necessario far comprendere come anche la scelta sonora del repertorio d’avanguardia miri a suscitare in molti casi una reazione emozionale, che il suono all’apparenza sgradevole possa risultare attraente in un contesto poetico articolato. Non si tratta dunque di tornare a un ascolto strutturale, quanto insegnare a rapportarsi ad un’opera d’arte in modo consapevole, sapendone decifrare le strutture linguistiche a seconda della personale conoscenza tecnica e sapendone nel contempo cogliere il messaggio espressivo. In un contesto di questo tipo – extracurricolare – è più facile mostrare la relazione tra i diversi generi musicali – partendo da quelli preferiti dai giovani -, e anche fra le diverse espressioni artistiche, in quanto il confronto fra la musica con altre forme espressive è stato spesso fondamento della nuova estetica, al di là della superficiale lettura del fenomeno quale spettacolarizzazione.
L’obiettivo di questa comunicazione didattica non vuole essere esclusivamente la maggiore sensibilizzazione nei confronti del linguaggio artistico contemporaneo, ma intende rivolgersi proficuamente anche verso il repertorio classico dove, anche se assente il rifiuto pregiudiziale, pure è diffusa l’ignoranza e l’indifferenza. Un lavoro dunque di potenziamento della sensibilità estetica, capace di esaltare lo spirito critico e di sviluppare da parte del giovane che si accosta all’arte, un atteggiamento di scoperta e di confronto con il nuovo. Disposizione necessaria sia rispetto al repertorio tradizionale sia verso quello più recente, capace di evitare che il culto dell’arte si trasformi in semplice archeologia e di mettere in feconda relazione le opere del passato con quelle contemporanee.
Questo corretto atteggiamento permette di evidenziare nella sua irrilevanza lo sperimentalismo edulcorato dell’estetica post moderna, dove l’apparenza della trasgressione rivela un forte incapacità di coniugare contenuti con espressioni formali. Non è forse un caso che Alessandro Baricco consideri, in campo cinematografico, il debole film di Oliver Stone Natural Born Killer [45] come il massimo di sperimentazione linguistica; si tratta in realtà di uno sperimentalismo figurativo (applicato alla specificità video televisiva) senza alcuna effettiva relazione estetica con il contenuto, tanto da far cadere l’opera in una palese contraddizione etica: l’obiettivo del film è la denuncia del carattere cinico dell’informazione televisiva, che amplifica la violenza sino ad esaltarla e rende i due giovani criminali nient’altro che strumenti dello spettacolo dell’informazione, pur con una loro paradossale consapevolezza. Tale volontà del regista viene totalmente disattesa dalla scelta visiva, tanto che, fra il pubblico medio, sono state maggiori le reazioni di compiacimento con la violenza dei protagonisti, piuttosto che l’assunzione di tale punto di vista critico. [46].
Giovanni Carosotti
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[1] Cfr. Simonetta Ruju, Due, tre cose sulla musica del secondo Novecento, in L’Acropoli, febbraio 2001, pp.102/105.
[2] Mi riferisco in particolare alla rassegna milanese Musica del nostro tempo.
[3] I compositori appartenenti alla corrente detta “neoromantica” hanno rivendicato la loro scelta estetica, alternativa rispetto alla tradizione dell’avanguardia musicale, attraverso espliciti attacchi ai maggiori compositori della nuova musica, la cui fama veniva sostanzialmente definita un’impostura. Eguale atteggiamento critico, teso a porre l’avanguardia al di fuori di una più o meno condivisibile scelta estetica, contestandone addirittura il fondamento razionale, è contenuto nel volumetto di Alessandro Baricco,L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin, Garzanti Milano 1992. Ritorneremo più avanti in dettaglio su queste posizioni.
[4] Theodor W.Adorno, Der getreue Korreptikor. Lehrschriften zur musikalischen Praxis, Frankfurt am Main 1963; trad. it. Il fido maestro sostituto, Einaudi Torino 1982, p.45.
[5] Cfr. la recensione di Alberto Crespi in Cineforum, n° 406, luglio 2001, pag.40.
[6] Giona A.Nazzaro, Seduzione della velocità immobile. “Pearl Harbour” e l’estetica del blockbuster, in Cineforum, n°406 luglio 2001, pag.80. Il corsivo è mio. Cfr. ancheScientific American, febbraio 2002, nel quale si riportano i risultati di recenti studi, in base ai quali è necessario, per tenere costante l’attenzione del pubblico televisivo, non fermarsi su ogni singola immagine per più di pochi secondi.
[7] Uno degli aspetti che rende eccezionale il lavoro di Bela Tarr è proprio la relazione fra una trama concepita sul confronto di diversi punti di vista e la scelta stilistica del piano sequenza, che sembrerebbe comportare l’unicità della visione.
[8] Cfr. A.Baricco, La spettacolarità, in op. cit., pp.75-99.
[9] T.W.Adorno, op. cit., pp. 9-40
[10] Id.
[11] Id..
[12] Condivido a proposito il giudizio fornito su Adorno da Paolo Prati: “Quello che è mancato ad Adorno per essere la più fine mente musicale di questo secolo è la capacità di ascoltare”. P.Prati, Minima adorniana, in Musica oggi, n°61 marzo 2000, p.13.
[13] E’ il caso di Raul Ruiz che, in occasione di una rassegna a lui dedicata presso il cinema De Amicis a Milano, dichiarò, presente in sala la sera del 27 maggio 1986, di ammirare fra i registi una serie di personalità, tutte protagoniste del cosiddetto “B movie”.
[14] La corrente neoromantica ha avuto dunque buon gioco nel ritenersi alternativa alle composizioni sperimentali, riappropriandosi in modo acritico sia del repertorio tradizionale, sia del repertorio della musica commerciale attraverso pastiche e contaminazioni di brutale ingenuità, incapaci di reggere esteticamente ad ascolti ripetuti.
[15] Marcello Piras, Introduzione all’edizione italiana de: Gunter Schuller, Il jazz classico, Milano 1979, pp.8 e 9.
[16] Ibid., p.12.
[17] Tale formula è valida nel momento in cui fa riferimento a uno stile ormai riconoscibile e codificato dalla storiografia jazzistica; meno corretta è l’espressione se viene intesa in senso letterale, giacché la “libertà” faceva pure riferimento a strutture rigide e a rigorose organizzazioni compositive. Si veda, tra i numerosi contributi, C.Sessa, Free jazz, in Musica Jazz, luglio 2001, pp..XXXVII-XLVIII.
[18] A.Polillo, Jazz: le vicende e i protagonisti della musica afroamericana, Milano 1975, pag. 661.
[19] I testi sono tratti da un intervista concessa da Marsalis a Bruno Schiozzi, in Musica jazz, dicembre 1991, p.17.
[20] Esempi particolarmente rilevanti di un sofferto ripensamento estetico mi sembrano essere l’incisione di Albert Ayler New Grass, Impulse 1969 e quella di Archie Shepp,Attica Blues, Impulse 1972.
[21] Cfr. Derek Bailey, L’improvvisazione, sua natura e pratica in musica, Milano 1982; Denis Levaillant, L’improvisation musicale, Paris 1981.
[22] Cfr. due saggi di Arrigo Polillo: A proposito di una contraddizione, in Musica jazz dicembre 1976; Nota sull’improvvisazione jazzistica, in Ibid. febbraio 1978.
[23] Da notare a questo proposito l’ostilità della rivista nei confronti di Lee Konitz, con affermazioni risibili, che conduce addirittura alla stroncatura, con motivazioni nient’affatto musicologiche, delle incisioni dell’artista con Anthony Braxton, musicista invece più volte esaltato sullo stesso periodico (cfr. Gong, novembre 1977, pag.68). Un esempio di tale sterile apologia critica è il volume di F.Bolelli, Musica creativa, Milano 1978.
[24] Miles Davis, Bitches Brew, Columbia 1967.
[25] Sul carattere superficiale di questa esegesi del jazz d’avanguardia mi sono già espresso sopra.
[26] Miles Davis, Agartha, CBS 1975.
[27] Giuseppe Piacentino, recensione di Miles Davis, Agartha, in Musica Jazz, luglio 1976, pag 32.
[28] Id.
[29] Bisogna riconoscere a Giuseppe Piacentino una indubbia coerenza poiché dodici anni dopo, nello speciale dedicato a Miles Davis in Musica Jazz, maggio 1986, pp. 12-51, evita di riprendere il giudizio su quegli anni, anche se aggiunge che i dischi di Davis “continuavano a deludere le attese di quanti si aspettavano un Miles sulla via di Damasco: cioè l’addio definitivo ai modi del rock e il ritorno ad una dimensione propriamente jazzistica”. Solo poco più che accettabile il giudizio sugli ultimissimi anni: Davis “ha guardato al rock come a un punto di riferimento emozionale e non commerciale …Dai suoi ultimi e discontinui tre dischi se ne sarebbe potuto cavar fuori uno memorabile. Ma ci sarebbero mancate tutte le tappe di un caparbio e commovente recupero”.
[30] Franco Bolelli, Sull’operazione jazz-rock: la parbola dei talenti, in Gong, luglio-agosto 1976, pag.59.
[31] G.Salvatore, Miles Davis. Lo sciamano elettrico (1969 – 1980), Roma 1995.
[32] Cfr, per esempio G. Salvatore, Steps Ahead, la pietra dello scandalo, in Musica Jazz maggio 1984, pp.28/29, dove la difesa del gruppo appare esagerata rispetto al magro bilancio estetico che, ad anni di distanza, si può attribuire alla formazione e ai suoi solisti.
[33] Stefano Merighi, recensione a G.Salvatore, op. cit., in Musica Jazz, Dicembre 1995, pag. 50.
[34] Un esempio significativo è quello del contrabbassista Dave Holland, il quale ha collaborato con le prime e maggiormente significative incisioni del periodo elettrico di Davis, ma pure ha partecipato ad esperienze di improvvisazione radicale.
[35] Del resto lo stesso Charles Mingus sottolineava la sua estraneità agli uomini del free – jazz; pure è indubbio che, in molti casi, la sua musica sia molto vicina a quel tipo di espressività
[36] Sulla base di queste convinzioni Alessandro Baricco ha potuto proporre una lettura “spettacolare” del sinfonismo di Mahller, associato alla poetica cinematografica. Cfr. nota 8.
[37] Giusto mi sembra il riferimento a Berg proposto al convegno da Enzo Siciliano (cfr. Simonetta Ruju, cit., pag.104); non bisogna d’altronde cercare di legittimare la ricerca contemporanea individuando per forza identità di strutture con la tradizione. Ha ragione, da questo punto di vista, Giacomo Manzoni il quale, prendendo le distanze da Adorno, precisa: “E’ proprio questa misura amministrativa, apparentemente destinata a facilitare la lettura e la comprensione del testo musicale, che cela un momento di cattiva coscienza. E’ come se si volesse ad ogni costo tenere in vita una categoria di tema inculcandola dall’esterno a una materia che come tale si rifiuta a una simile operazione. … non si tratta tanto di introdurre l’ascoltatore a individuare questi temi, le loro combinazioni, sovrapposizioni, modificazioni, e ad aggrapparsi ad essi, quanto di metterne in luce la costante frizione con il carattere generale del discorso che la smentisce”. G.Manzoni, Introduzione a T.W.Adorno, Der getreue Korreptikor, cit., pag. XX.
[38] E’ il caso sempre di Alessandro Baricco, il quale in op.cit., oscilla fra un atteggiamento di patetica commiserazione verso il pubblico (incapace di definire correttamente la musica colta, colpevole di praticare un ascolto “culinario” di Mahler, di formulare giudizi semplicistici sugli interpreti), e atti di assoluta fiducia verso lo stesso pubblico quando giudica inascoltabili le composizioni dell’avanguardia; in questo caso, l’A. afferma addirittura che certe reazioni composte del pubblico ai concerti d’avanguardia deriverebbero da un senso di colpa che le composizioni ispirerebbero, grazie al quale chi non le apprezza si sente colpevolmente ignorante
[39] A.Baricco, op. cit., p.58.
[40] Non ‘c’è dubbio che a livello giovanile, si assista a un progressivo decadimento del giudizio estetico. Nella mia esperienza di insegnante ho potuto notare come, nel corso degli anni, diventino sempre più frequenti gli atteggiamenti di insofferenza estetica per opere d’arte di diverso genere: l’aggettivo “lento” associato a qualsiasi tipo di film che non preveda montaggi frenetici, lo stupore di fronte alla consapevolezza che in musica esista un problema di “interpretazione”, il disinteresse per qualsiasi espressione artistica che non faccia riferimento al contesto sociale occidentale, il disinteresse per le “statiche” arti figurative. Tale atteggiamento, muta notevolmente, invitando gli studenti a un accostamento maggiormente riflessivo all’arte.
[41] Il testo, tratto da un’intervista radiofonica concessa dal pianista in occasione del suo sessantesimo compleanno, è riportato ne Il sole 24 ore, 6 gennaio 2002, pag.23.
[42] Il lavoro che intendo non è da confondere con l’educazione musicale quale materia curricolare, nei confronti della quale il nostro paese vanta una situazione di assoluta arretratezza. Bensì a lavori di tipo extracurriculare, frequenti oggi nei diversi istituti, che sfruttano la naturale curiosità degli alunni e li inducono maggiormente a confrontarsi con le sollecitazioni proposte dal docente.
[43] L’espressione è sempre di A.Baricco, Op.cit., pag. 55.
[44] Tale osservazione è stata proposta, fra gli altri, da Pierre Boulez in un colloquio con Daniel Boremboin. Cfr. Pierre Boulez, Prova e esecuzione di Notations, video
[45] “Quella [di Assassini nati] è una spettacolarità che non ha paragoni, e che stabilisce una nuova unità di misura”; A.Baricco, l’affermazione, pubblicata su La Stampa, è citata in Cineforum, n°343, pag.48.
[46] Decisamente condivisibile ci appare a questo proposito il giudizio di Franco La Polla il quale, dopo avere definito l’opera di Stone un film di “destra”, giustamente afferma: “il suo [di Stone} è un discorso moralistico aggravato dal profitto che egli trae dalla sua sedicente denuncia. Certo il suo è un cinema abile, tecnicamente perfetto, addirittura (falsamente) sperimentale. Stone si rivolge ai modelli iconografici di altri media, li affastella insieme, creando un piccolo catalogo di modi comunicativi come sinora soltanto l’avanguardia estrema aveva utilizzato; ma – e la differenza è fondamentale – al servizio di una sorpresa, di una meraviglia che non trovano adeguato corrispettivo in ciò che narra…”. F.La Polla, Cineforum, n°337 pag. 56. Tale valutazione, ci sembra possa essere estesa alle altre problematiche estetiche affrontate in queste pagine e, dunque, confermare le tesi ivi espresse.
Il severo giudizio di La Polla dà origine a una polemica che continua sul n° 345 della stessa rivista: F.La Polla, Assassini cinema e videoclip, p.65