27
Lug
2007

Secolarizzazione e legittimità del moderno

Secolarizzazione e originalità del moderno
A proposito di «La legittimità dell’epoca moderna» di Hans Blumenberg.

Da Itinerari Filosofici,
Anno III n° 5
Gennaio – Aprile 1993
Gianni Carosotti
SECOLARIZZAZIONE
E ORIGINALITÀ
DEL MODERNO
in margine a La legittimità dell’epoca moderna
di Hans Blumenberg

La traduzione del mo­numentale studio di Hans Blumenberg Die Legitimitat der Neuezeit, appare in Italia con un ritardo di 26 anni rispetto alla stesura originale; rappresenta dunque unavveni­mento importante, non solo perché tende a colmare una delle piùvistose lacune della pubblicistica filosofica del nostro paese, ma anche perché questo ritardo induce a criteri di lettura inusuali;consente infatti di effettuare una disamina complessiva dei diversi giudizi formulati in questi anni sul presente testo, che hannocondizionato gran parte del dibattito sulla secolarizzazione.

Già quando in Inghilterra l’opera venne tradotta, nel 1983, ci furono dichiarazioni di rammarico poiché la tardiva traduzione aveva di molto rallentato il dibattito intorno alle nozioni di “progresso” edi “razionali­tà”. Questo disappunto deve essere ul­teriormente confermato oggi, in Italia; per tutti coloro che erano rimasti affascinati dalle tesi esposte in Pardigmen zu einer Metaphorologie, opera tradotta invece in tempi relativamente brevi, l’impossibilità di leggere questo ulteriore studio ha rappresentato una lacuna incolmabile, in quanto Blumenberg ha ivi compendiato in modo esaustivo e specificato a livello categoriale la sua interpretazione dell’epoca moderna nei termini di “metafora assoluta”. A questo testo del resto hanno sempre fatto riferimento i più importanti studi italiani sull’argomento, tant’è che a livello scolastico le tesi principali di Blumenberg sono conosciute: in particolare iltentativo di giustificare la legittimità dell’epoca moderna attraverso una contestazione del valore ermeneutico della categoria di secolarizzazione, in opposizione alle note tesi di Karl Lówith. Si può addirittura affermare come nel corso del dibattito filosofico di questi 26 anni, la posizione di Blumenberg sia stata perverti versi superata, ritenuta in qualche modo legata a uno specifico momento del dibattito filosofico, e non più proponibile nei medesimi termini. In particolare ha trovato maggiori consensi una posizione che non contrappone frontalmente le ipotesi delle legittimità e della secolarizzazione, ma tende piuttosto ad una loro possibile integrazione.

La lettura complessiva di Die legitimitat der Neuezeit permetteallora da una parte di correggere e ampliarne la conoscenza sin­tetica, grazie al controllo diretto della fonte e concesse le eventuali discrepanze di tra­duzione, dall’altra di verificare proprio questa sua presunta inattualità rispetto al dibattito contemporaneo.

E’ necessario innanzitutto chiarire i meriti storici che questo lavoro possiede, non sempre messi a fuoco nella loro complessi­tà in taluni riferimenti riportati in qualche studio: Blumenberg èriuscito ad individua­re la problematicità concettuale della cate­goria di secolarizzazione, attraverso una analisi storico-semantica di rara precisione, opponendosi a qualsiasi semplificazione della sua utilizzazione in ambito filosofico. Tale constatazione ha condotto Blumenberg ad una radicale disamina critica delle tesi esposte da Lówith nell’opera Weltgeschi­chte und Heilsgeschehen, dove il procedi­mento di derivazione presupposto dalla teoria della secolarizzazione veniva a suo dire semplicisticamente applicato a conte­sti storico-culturali irriducibili a qualsiasi relazione di continuità. Una tale procedura interpretativa non può realizzarsi, afferma Blumenberg, se non attraverso l’uso della categoria di “sostanza”, inaugurando una storia teleologica dei concetti dagli esiti filosofici paradossali. E’ questa una osser­vazione di grande finezza ed importanza: un’analisi che punti la sua direzione in chiave storico-lessicografica è a fondamento di qualsiasi ricerca sulla storia dei concetti, tira non può essere caratterizzata da un’impostazione teleologica, pena la per­dita di tutti i vantaggi di carattere euristico che è in grado di conseguire. La storia dei concetti è infatti preziosa in quanto permette un controllo semantico sul moderno uso della lingua, impedendo la definizione astratta di un concetto filosofico ed un suo uso non riflessivo e dogmatico: essa è in grado di raggiungere un tale risultato at­traverso un’analisi rigorosa dei diversi orizzonti di significato presenti in una espressione concettuale, in maniera da ri­velare i differenti contesti culturali che concorrono alla sua formazione. Una visio­ne sostanzialistica, quindi teleologica, non contribuisce ad altro che impoverire e irri­gidire la ricchezza concettuale, mantenen­dola impermeabile ai diversi condiziona­menti storici.

Gli argomenti con cui Blumenberg sotto­linea l’ambiguità e la polivalenza culturale dei presunti contenuti secolarizzati sono digrande rilievo intellettuale, e, pur in un differente progetto strutturale e con una diversa enfasi espositiva, richiamano alcuni importanti studi di Santo Mazzarino e di Gennaro Sasso che si sono soffermati sulla concezione della categoria tempo nel mon­do cristiano e moderno. Non si può, afferma Blumenberg, parlare di un solo tempo cristiano, che si differenzierebbe completa­mente dalle precedenti nozioni ellenisti­che; in realtà la visione cosmologica e temporale del cristianesimo è inconcepibi­le se non si considera il suo richiamarsi allo stoicismo e il suo opporsi alle correnti gnostiche. Non si può affermare l’esistenza di una cesuranetta tra temporalità pagana e cristiana, dalla quale sarebbe derivata la concezione temporale della modernità, secolarizzatasi a partire dall’epoca illumi­nistica. La svolta epocale che fonda la legittimità dell’età moderna è invece avve­nuta nel XVII secolo, attraverso l’eviden­ziarsi di quel processo chiamato da Blu­menberg “autoaffermazione”, originatosi dal la di s soluzione dell’immagine del cosmo antico.

Individuare il fondamento di legittimità dell’età moderna nelle filosofie del XVII secolo potrebbe sembrare un elemento scontato; in realtà le argomentazioni di Blumenberg offrono un punto di vista inter­pretativo affatto nuovo, e contribuiscono a smascherare molti luoghi comuni su questo periodo cruciale della storia del pensiero. Da una parte la centralità individuata nella nuova visione cosmologica copernicana si oppone al disegno storico-sostanzialistico lówithiano, che nel descrivere il passaggio dalla teologia della storia cristiana alle fi­losofie della storia moderne non si era soffermato sulla specificità del pensiero scientifico, e sulla sua capacità di modifi­care la categoria del tempo; dall’altra sot­tolineare l’autonomia speculativa del pen­siero moderno rispetto al sapere teologico permette il passaggio dalla nozione di “derivazione” a quella di “sostituzione”. E’ questo un passaggio fondamentale del dise­gno complessivo di Blumenberg, in quanto chiarisce il rapporto istituito dal filosofo tra l’immagine del mondo moderna e la tra­dizione.

La filosofia moderna non eredita la pro­spettiva soteriologica ed escatologica della teologia medievale, masi limita ad occupare luoghi affrancati dalla trascendenza, di nuovo reinvestita in un principio assoluto attraverso l’esperienza nominalistica. Si tratterebbe, afferma Blumenberg, di un secondo superamento della teoria gnostica, della quale il nominalismo sarebbe unasorta di riproposizione. L’inessenzialità del mondo rispetto alla sostanza divina im­porrebbe una nuova spiegazione della mondanità rispetto alle tradizionali tesi scolastiche; il mondo si ridurrebbe a spazio autonomo e limitato nel quale l’uomo potrebbe muoversi a proprio piacimento. «La continuità della storia al di là della soglia epocale non consiste nella sopravvivenza di sostanze ideali, ma nell’ipoteca di pro­blemi che essa impone: sapere anche, e nuovamente, ciò che un tempo è già stato saputo». In altre parole l’eredità dell’epoca moderna sarebbe insita nella riassunzione di alcune domande, lasciate inevase dalla radicale estraneità della trascendenza nei confronti del mondo, e non nella rielabo­razione di identiche risposte; la derivazione sarebbe di carattere puramente funzionale e non contenutistico.

Blumenberg è cosciente che tale deriva­zione funzionale può suscitare l’apparenza della continuità; e concorda sul fatto che lo stesso pensiero moderno abbia responsabi­lità per tale fraintendimento. Riprendendo la critica di Leibniz a Cartesio, Blumenbergrileva come il filosofo francese «avrebbe introdotto nel mondo un’esigenza di cer­tezza che, dato il rigore della sua ambizione, non avrebbe potuto essere soddisfatta né da lui né da nessun altro». Questa “debolezza della filosofia moderna” può però essere superata se si tiene presente che «la so­pravvivenza del sistema delle questioni […1 non è fenomeno che caratterizzi unicamen­te l’origine dell’età moderna»; ma riflettendo soprattutto sullo stesso pensiero cartesiano, dove il primato del “cogito” è in realtàsubordinato a quello della libertà, come dimostra il fatto che «la ritenzione dell’as­senso è il primo passo metodico delle Me­ditationes, la prima conclusione tratta dal­l’esperienza dell’inaffidabilità delle opinioni tramandate e apprese, ancor prima che siaedificata l’argomentazione del dubbio». Compare cioè un “atto di decisione per l’indecisione” che non ripropone sic et simpliciteril problema del fondamento assoluto, ma semmai concorre alla disso­luzione delle garanzie teleologiche nei confronti della natura. Cartesio dunque non ripropone in chiave secolarizzata una con­cezione spazio-temporale propria dell’epoca medievale, ma «evidenzia sino all’assurdo il concetto medievale di realtà». La conti­nuità speculativa di Cartesio è una continui – tà disgregatrice, in cui «la metafisica non può rendere possibile la fisica». L’utilizzo in ambito conoscitivo delle “ipotesi”, non è altro che «l’espressione formale della ri­nuncia alla verità nel senso tradizionale dell’adeguazione», ma anche «il mezzo del l’autoaffermazione, potenziale della produzione umana di ciò che la natura limita o nega all’uomo» .

Blumenberg non nega quindi un rappor­to con la tradizione, ma lo interpreta come puro ritorno delle problematiche, e non come assoluta derivazione di semplici istanze teoriche. E’ convincente dunque il filosofo quando risponde alle critiche di Gadamer, che aveva sottolineato la positiva funzione ermeneutica della categoria di secolarizzazione, capace di svelare il senso nascosto del presente, e non affatto sostitui­bile con la nozione blumenberghiana di “curiositas”. La lacuna della critica gada­meriana, secondo Blumenberg, consiste nella mancata puntualizzazione del mo­mento sostanzialistico dell’ermeneutica della secolarizzazione; non èin gioco infatti la sua funzione descrittiva, in alcuni casi — per esempio lo studio semantico dei concet­ti — indispensabile; ma la sua pretesa di cogliere una realtà sostanziale che, identi­ca, si trasmetterebbe nelle diverse epoche, dichiarandole illegittime nella loro pretesa di originalità.

Più profonda è un’altra critica che ha colto nel vivo l’impostazione di Blumenberg, in quanto ne ha messo in discussione i pre­supposti, allo stesso modo in cui Blumen­berg aveva rivendicato l’onere della pro­va” ai teorici della secolarizzazione. Non potendo giustificare l’autofondamento del­l’epoca moderna anche Blumenberg ope­rerebbe una dogmatica sostanzializzazione della storia, e ricadrebbe così nell’errore fatale dei suoi avversari. L’ obiezione è stata mossa da Odo Marquard e, anche se nei suoi termini specifici appare poco determinante, è in grado di rivelare il momento di maggiore debolezza dell’ istanza teorica di Blumenberg.

Marquard condivide la sostanziale infe­condità ermeneutica dell’ipotesi della se­colarizzazione; ma ritiene nello stesso tempo che la prospettiva di derivazione funzionale proposta da Blumenberg sia un’ancora di salvezza lanciata proprio alla teoria della secolarizzazione, smentita dal punto di vista dell’analisi storica. Si ricre­erebbe così una filosofia della storia che per Marquard rappresenta “l’anti-età moderna”, in quanto, radicalizzando l’auto­nomia dell’umano «presuppone la propria filosofia della storia come teodicea», affer­mando «la prova radicale della non col­pevolezza di Dio».

Non conviene addentrarsi in questo pro­blema specifico, che si presta ovviamente a comprensibili critiche reciproche di infe­deltà rispetto al principio di inderivabilità dell’epoca moderna, quanto cogliere la questione di fondo che esso suscita, e che non sembra sviluppata da entrambi i filo­sofi: il volere in tutti i modi negare efficacia ermeneutica al concetto di secolarizzazio­ne conduce a delle conclusioni deboli nel momento in cui si deve giustificare il rapporto con la tradizione. In realtà il processo di secolarizzazione non è com­pletamente estraneo a quello di autoaffer­mazione, e forse Blumenberg l’avrebbe potuto rilevare se avesse dedicato una maggiore riflessione al pensiero di Spino­za, trascurato in buona parte della trattazio­ne. Per comprendere tale intendimento è necessario approfondire la valenza se­mantica del concetto di secolarizzazione, non appiattendolo semplicemente sul si­gnificato di derivabilità, ma individuando­ne le molteplici possibilità interpretative che implica nel modo d’intendere il rappor­to con la tradizione. Contestare il suo uso senza elaborare tale approfondimento si­gnifica ricadere in continue ambiguità; e in effetti ha buon gioco Marquard nel sottoli­neare come l’espressione di “continuità funzionale”, lungi dal sostituire definitiva­mente la teoria della secolarizzazione, finisce paradossalmente col legittimarla. E’ con­veniente allora individuare anche in un processo secolarizzante un aspetto eman­cipativo, da contrapporre ad una sua inter­pretazione troppo unilaterale di continuità. Derivare, riprendere modelli teorici, non equivarrebbe più in questo senso a “ripete­re” in contesti mutati identiche esperienze speculative, ma a trasformarle e a inserire in esse quel nucleo emancipati vo che si dipana secondo un procedimento originale nella pratica del I autoaffermazione” e nella ca­tegoriadi “legittimità”. “Legittimità” come risultato del processo di secolarizzazione, che supera in questo modo i limiti della semplice ripetitività, quasi coatta.

Queste osservazioni, pur implicando un mutamento di prospettiva rispetto all’im­pianto analitico di Blumenberg, non vo­gliono ritenere le analisi del filosofo tedesco di scarsa incidenza nei confronti dell’at­tuale dibattito; al contrario, esse non possonoprescindere da un diretto riferimento alle tesi di questo studio. In particolare alla constatazione illuminante, tuttora valida,secondo la quale rispetto alla categoria della secolarizzazione ci si comporta come se ci si trovasse di fronte ad un problema giàrisolto e acquisito.

La conoscenza dello straordinario im­pianto analitico di Blumenberg e delle va­lutazioni di ordine storico cui conduce, diventa così un presupposto indispensabile per qualsiasi approfondimento del signifi­cato del concetto di secolarizzazione, an­che se dovesse condurre alla contestazione del suo rapporto antitetico con la categoria di legittimità. Già in ambito sociologico Larry Shiner ha affermato che «l’unica cosa che si può dire con certezza del concet­to di secolarizzazione è che raramente si può essere sicuri di che cosa significhi quando esso viene usato». La mole stessa del volumedi Blumenberg, nella sua impo­nenza, testimonia la complessità insita in tale concetto, suggerendo in questo modo ulteriori ipotesi di ricerca.