1
Feb
2009

Introduzione alla teoria delle idee di Platone

Come i precedenti, estratto da uno scritto più ampio già compreso nel sito, per gli studenti di Terza

LINEAMENTI DI METAFISICA PLATONICA

Platone discepolo di Socrate

Da questo punto di vista, il discepolo che si ricollega in maniera compiuta a Socrate è sicuramente Platone. Da una parte in lui si conferma la continuità fra biografia e filosofia: la filosofia deve coinvolgere la vita e uniformarsi al comportamento. Platone fonda la scuola dell’Accademia e, quindi, dedica la propria vita a un’attività pedagogica tesa a comunicare e a realizzare le proprie convinzioni filosofiche; inoltre egli tentò di realizzare concretamente le proprie convinzioni politiche che, come vedremo, corrispondevano al propino ideale morale e filosofico

A differenza però delle scuole socratiche minori, Platone si ricollega anche all’insegnamento scientifico di Socrate e, in particolare, alla definizione della verità come universale e alle capacità di comprensione logica dell’intelletto umano. E’ proprio nell’accentuare quest’aspetto della filosofia socratica che Platone arriverà a differenziare la sua dottrina da quella del maestro.

Platone e la scrittura

In un dialogo platonico che noi abbiamo già citato nel corso precedente, il Fedro, Platone riporta il ragionamento socratico a proposito della scrittura; è evidente che egli accetta il giudizio riduttivo di Socrate sui testi. Platone però è autore di ben 50 dialoghi, destinati a una pubblica diffusione. Come mai?

Per spiegare questa apparente contraddizione dobbiamo tenere presente l’importanza che per il filosofo, ancora giovane, ebbe il processo a Socrate; dopo la condanna del maestro, egli temette che il suo insegnamento potesse andare perduto, in un clima di decadenza in cui i mediocri e gli opportunisti riuscivano a insidiarsi al potere. Avvertì dunque la necessità di testimoniare per iscritto l’opera del maestro, perché il suo esempio fosse tramandato ai posteri; in seguito egli volle lasciare traccia anche del proprio percorso intellettuale.

Platone però non scrisse dei freddi trattati filosofici; egli realizzò invece dei dialoghi, ovvero rappresentò sulla pagina scritta una discussione fra interlocutori diversi. E’ evidente come questa scelta rappresenti un compromesso: il dialogo era infatti la forma scritta che più di tutte si avvicinava all’esempio socratico; nelle obiezioni degli interlocutori si potevano anticipare i dubbi dei lettori e quindi ovviare in parte a quell’aridità che, secondo Socrate, possedeva la pagina scritta.

Il problema costituito dai dialoghi platonici

Socrate è il protagonista di quasi tutti i dialoghi di Platone, anche quelli che il filosofo scrisse in età matura e nei quali egli riporta la propria teoria e non quella di Socrate; in questo modo egli intende rivendicare il legame fra la propria speculazione e quella del maestro e manifestare, nel contempo, l’identica tensione morale.

Un’eccezione costituiscono i dialoghi che Platone scrisse durante la vecchiaia, dove Socrate ha un ruolo marginale o addirittura, nelle Leggi, non compare affatto. Più avanti spiegheremo come questa presa di distanza da Socrate negli anni della vecchiaia non sia casuale. Certo è però che le convinzioni mature di Platone, prima che andassero in crisi nella loro pratica attuazione, rivendicavano, pur nella diversità, la loro continuità col pensiero socratico.

Per gli interpreti rimane però il problema di distinguere, all’interno di questo notevole corpus di opere, l’autentico pensiero platonico dalle testimonianze relative al le concezioni di Socrate. Nel corso precedente avevamo parlato dei dialoghi socratici, quelli in cui il filosofo si sarebbe limitato a testimoniare momenti significativi della vita del maestro; nell’esporre in seguito le genuine teorie platoniche, ci rifacciamo alle convinzioni critiche più diffuse e rappresentate dalla totalità della manualistica corrente, secondo le quali esistono, all’interno dei dialoghi, delle tematiche particolarmente evidenti, in cui si distingue l’impostazione socratica da quella platonica. Avvertendo però che, da alcuni autorevoli studiosi, la separazione fra pensiero socratico e pensiero platonico che presenteremo è stata messa in dubbio.

Le lettere di Platone

Oltre ai dialoghi, di Platone sono giunte a noi dodici lettere che, pur non avendo particolare interesse filosofico, rappresentano documentazioni importantissime della biografia del filosofo. Alcune di queste lettere sono dubbie circa l’autenticità ma altre, indubbiamente del filosofo, possiedono un interesse di prim’ordine. Faremo un altro importante riferimento alle lettere di Platone, più avanti; oggi ci interessa, per introdurne la personalità, soffermarci su quelle pagine della VII lettera in cui Platone descrive le circostanze che lo condussero a occuparsi di filosofia.

Platone infatti, pur essendo discepolo di Socrate, avvertì in un primo momento un’attrazione per la poetica (in particolare la drammaturgia) e, successivamente, per l’ideale politico. Furono il processo e la condanna di Socrate a spingerlo a modificare questi propositi:

da Platone, VII lettera, 324 b – 326 b:

“Da giovane caddi nell’errore in cui soglion cadere i più dei giovani; pensai che, appena padrone di me stesso, avrei subito posto mano alle faccende della città. Or le condizioni in cui quelle si trovavano erano queste. Biasimata da molti, l’antica costituzione era stata rovesciata, sostituita con cinquantuno magistrati, undici dei quali comandavano nella città, dieci al Pireo, incaricati di vigilare la piazza e gli affari civili; gli altri avevano l’autorità suprema di ogni cosa. Fra questi io avevo parenti ed amici, che ben presto mi chiamarono ad uffici che potevano essere adatti per me. Ciò che mi toccò non deve punto meravigliare, a causa della mia età. Credevo governassero in modo, che la città fosse liberata dall’ingiustizia, per esser messa sulla via della giustizia; ero perciò molto attento a ciò che essi facessero. Mi accorsi tosto che si comportavano in maniera, che l’antico regime sembrava aureo a loro confronto. Tra gli altri misfatti, ordinarono a Socrate, mio vecchio amico, che non ho ritegno a dichiarare fosse il più giusto fra quanti allora vivevano, di andare, insieme con altri, ad arrestare un cittadino che volevano far perire, perché divenisse, così, loro complice, volente o nolente. Ma Socrate si rifiutò, preferendo correre ogni rischio, piuttosto che associarsi alle loro scellerataggini. Alla vista di tutto questo, e di altri misfatti non piccoli, mi allontanai indignato, per non assistere a tanti mali. Dopo non molto tempo cadde il governo dei Trenta, e insieme le istituzioni cui essi dieder vita. Di nuovo, ma con minore vivacità, mi sentii trascinato alle faccende pubbliche. Anche allora, nello scompiglio di ogni cosa, avvennero fatti odiosi, né era a meravigliarsi che, in tali rivolgimenti, l’ostilità dei partiti desse luogo a vendette eccessive: tuttavia, molta moderazione usarono quelli che vennero allora al governo. Ma caso volle che alcuni potenti trascinassero in tribunale Socrate, il nostro amico, accusandolo dei delitti più gravi, di cui egli appunto era meno capace: lo accusarono infatti di empietà, e lo fecero condannare e perire, egli che, per non commettere un’empietà, si era rifiutato di prender parte all’arresto di uno dei loro amici che tentata di fuggire, quando essi medesimi provavano la durezza dell’esilio. Riflettendo su tali cose, e sugli uomini che pigliavano parte al governo, come sulle leggi e sui costumi, quanto più andavo innanzi negli anni, tanto più mi pareva difficile che potessi dare un buon indirizzo alla cosa pubblica. Non era possibile, infatti, governare senza amici e cooperatori fedeli, né persone siffatte avrei scoperto facilmente, se anche ve ne fossero state, dacché la città non era più governata secondo i costumi e le istituzioni dei nostri padri: formare, d’altra parte, costumi e istituzioni nuove, non era facile, mentre leggi scritte e consuetudini si corrompevano straordinariamente. Io pertanto, che prima avevo tanto desiderio di prender parte al governo, a tale spettacolo, a vedere che tutto era in balia di un torrente, finii coll’essere preso da vertigine: non cessai, però, di osservare gli avvenimenti, chi sa le circostanze migliorassero, dandomi occasione di agire; finii invece col persuadermi che tutti i paesi sono oggi mal governati. Le loro leggi, infatti, son talmente difettose, che solo un miracolo le tiene in piedi. Fui perciò costretto, facendo l’elogio della filosofia vera, a convenire che essa sola può discernere ciò che è giusto, sia nei riguardi degli individui che dei popoli; e che i mali degli uomini non avranno termine, finché i veri filosofi non si occuperanno essi del governo della città, ovvero quelli che nelle città hanno il potere, siano, per divino caso, davvero filosofi.”

Platone si dedicò allora alla filosofia seguendo un’istanza tipicamente socratica: la filosofia è l’unica disciplina in grado di cogliere la verità o, quanto meno, di comprendere ciò che è bene per gli individui e per la comunità. Solo la filosofia può allora salvare la politica, liberarla dalla decadenza e dalla corruzione imperante, per restituirla alla sua autentica finalità la realizzazione della giustizia.

Platone intraprende allora lo studio filosofico, per cogliere quella verità da realizzare concretamente fra gli uomini; in questa lettera, cogliamo già il carattere forse più significativo dell’intero pensiero platonico: la filosofia possiede una finalità eminentemente politica.

La svolta filosofica di Platone rispetto a Socrate: la teoria delle idee

Se dovessimo individuare in modo estremamente sintetico il punto in cui si manifesta la maggiore differenza fra i pensieri di Socrate e Platone, potremmo indicarlo nel modo di concepire la verità. Socrate coglieva il carattere della verità sulla base di un procedimento logico, che partiva dal problema della definizione; la verità, come universale capace di comprendere in sé i fenomeni particolari, diventava oggetto della ricerca socratica, punto di riferimento per orientare in modo positivo il discorso e per giungere a risultati rilevanti dal punto di vista morale. Pure questa verità non veniva mai definita in maniera determinata da Socrate, “riempita” nelle sua caratteristiche qualitative. Era un riferimento che poteva essere concepito dall’intelletto umano e che, pur nella sua generalità, poteva costituire un punto d’orientamento per la condotta e la ricerca.

Platone afferma invece di cogliere la verità nella sua determinatezza, la definisce nelle sue peculiari caratteristiche, la identifica in modo preciso e, in poche parole, la indica come un realtà specifica.

La verità non si identifica, come vedremo, con un solo essere bensì con diversi, che fanno però riferimento a una dimensione dell’esistenza in cui non vi è spazio per il dubbio. E’ il mondo delle idee, intese come realtà spirituali, trascendenti e intellegibili, totalmente estraneo alle caratteristiche del mondo sensibile, pur essendo fondamento di quest’ultimo.

La genesi delle idee: da Socrate a Platone

Se l’idea rappresenta il concetto distintivo di Platone nei confronti del maestro, pure egli vi arrivò a partire dalla dottrina socratica. Teniamo presente il tema della definizione, più volte esaminato nella discussione della filosofia socratica: secondo Socrate la definizione, in quanto capace di comprendere in sé tutte le realtà particolari, spiega i diversi fenomeni dell’esperienza. La definizione rimaneva però in Socrate una pura evidenza logica, un concetto capace di giustificare in sé le realtà particolari; secondo Platone questa concezione dell’universale deve avere un’esistenza concreta e identificarsi con un essere che egli chiama idea.

Proponiamo l’esempio del bello, da noi già esaminato nel corso precedente a proposito dell’Ippia maggiore. Socrate ricerca quella bellezza in grado di rendere belli tutti gli oggetti che chiamiamo tali; ora la bellezza per Platone non è solo un puro concetto, che richiamiamo per necessità logica, ma una realtà effettiva (l’idea) che rappresenta il modello cui si ispirano i fenomeni del mondo. Alla domanda “perché esistono tante cose belle? che cos’è che le rende belle?, noi potremmo rispondere; esiste una realtà che rappresenta la bellezza ideale, che riassume in sé tutte le caratteristiche della bellezza e che costituisce un punto di riferimento per tutte le realtà sensibili che ad essa si richiamano.

Notiamo allora come le idee, oltre a fondare una realtà metafisica ancora da delineare nelle sue specifiche caratteristiche, si propongano come strumenti di spiegazione del mondo; la varietà del mondo di cui, come Socrate notava, non riusciamo a dare una spiegazione soddisfacente, si rivela nel suo senso grazie al mondo ideale, che contiene gli archetipi, i modelli essenziali di ciò che nel mondo esiste attraverso la molteplicità. In altre parole il mondo dell’esperienza non sarebbe potuto esistere se non fossero preesistite le idee, che potevano dargli un modello. La natura sensibile è infatti costituita da fenomeni molteplici che, in alcuni casi, sono classificabili in base a caratteristiche comuni, grazie alle quali è possibile ordinare il mondo (diversi esseri viventi, non viventi, liquidi, solidi, ecc.). Ora le idee (che sono molte) rappresentano queste caratteristiche allo stato puro; e la sensibilità (la materia) caotica può esistere in modo ordinato proprio perché le sue forme hanno come riferimento l’essere perfetto delle idee.

Questa intenzione di spiegare il mondo sensibile attraverso realtà che non appartengono a esso (un proposito opposto a quello della filosofia naturalistica) è chiamata da Platone seconda navigazione. Come ha fatto notare un illustre studioso italiano di filosofia antica, Giovanni Reale, laseconda navigazione rappresenta un’autentica rivoluzione nella storia della cultura occidentale. Per la prima volta si pone l’esistenza di una realtà intellegibile per spiegare il mondo sensibile, anticipando una convinzione che sarà propria della cultura cristiana; non a caso il cristianesimo, nel momento in cui cercherà dei fondamenti filosofici alla propria concezione del mondo, si avvicinerà proprio alla metafisica platonica.

L’ontologia (la concezione dell’essere) platonica

Secondo Platone esistono dunque due dimensioni dell’essere, una intellegibile e l’altra sensibile. La differenza sta nel fatto che la sfera sensibile possiede tutte quelle caratteristiche che, sia l’intera tradizione filosofica sia, in particolare, la dottrina socratica, avevano associato al concetto di verità: l’universalità, l’immutabilità, l’immobilità, la perseità (ovvero rimanere per l’eternità sempre uguale a se stessi). E’ ovvio il motivo per cui queste caratteristiche si identificano con la verità, proprio perché la verità, per essere una certezza, deve indicare un’identità che resiste fra tutte le mutevolezze del mondo.

Alla realtà delle idee si contrappone il mondo sensibile, dove prevale il mutamento, la diversità, dove ogni cosa non è mai quella che è perché in ogni istante, anche se impercettibilmente, muta; ogni cosa, in due momenti diversi, non è mai identica a se stessa.

La realtà intellegibile è dunque il vero essere, mentre la realtà sensibile è precarietà, dominio del relativo. La conoscenza sensibile dunque, che a noi sembra così certa, è la più fallace di tutte, in quanto è valida solo nell’istante in cui viene esperita: lo stesso oggetto, percepito un po’ oltre nel tempo, può apparire completamente diverso.

Eppure nella realtà sensibile la mutazione sembra obbedire a una realtà costante; riprendendo l’esempio socratico, noi vediamo diversi fenomenibelli, nessuno dei quali può essere identico all’altro. Percepiamo però una realtà, la bellezza, che sentiamo identica in tutti quegli oggetti così diversi fra loro. Come mai nella realtà sensibile, in cui domina la mutevolezza, si individuano delle caratteristiche universali? proprio perché il mondo sensibile si è costituito a partire da quello ideale; ne è una sorta di copia imperfetta. Possiamo dunque coglierne la verità individuando nell’idea la sua origine e la fonte del suo significato.

Ogni oggetto sensibile costituisce allora una realtà particolare, destinata a morire o a scomparire ma che, nel breve tempo della sua esistenza, ha una sua coerenza strutturale, un ordine o un’immagine a cui corrisponde (uomo, animale, diverse qualità). Il sensibile, che è di per sé dispersivo e disordinato, può assumere quest’ordine transitorio, solo perché si modella sulle idee eterne preesistenti e ne prende a prestito la natura.

Leggiamo alcuni passi del Fedone in cui è possibile verificare quanto appena esposto:

da Platone, Fedone 100 c, sgg.:

“Ebbi paura che l’anima mia si accecasse completamente, guardando lecose con gli occhi e cercando di coglierle con ciascuno degli altri sensi.E perciòritenni di dovermi rifugiare nei ragionamenti e considerare in questi la verità delle cose […]. Comunque io mi sono avviato in questa direzione e, di volta in volta prendendo per base quel ragionamento che mi sembri più solido, giudico vero ciò che concorda con esso, sia rispetto alle cause sia rispetto alle altre cose, e ciò che non concorda giudico non vero […].”

Questo passo è importante proprio per valutare l’eredità socratica della teoria delle idee: nella prima parte Platone pone l’accento sull’insufficienza della conoscenza sensibile, che acceca nei suoi esiti confusionari. La verità capace di svelare il mistero del molteplice la si coglie invece attraverso i ragionamenti, individuando ciò che permane nel mutamento; si tratta di un evidente riferimento al modo di ragionare socratico, inteso però non come fine in sé, ma come importante momento conoscitivo in gradi di condurre la mente all’autentica verità metafisica.

Ibid.

Con questo non dico nulla di nuovo, ma dico quelle cose che sempre, in altre occasioni e anche nel precedente discorso, ho continuato a ripetere.Mi accingo infatti a mostrarti quale sia questa specie di causa che io ho elaborato e, perciò, torno nuovamente su quelle cose di cui molte volte si è parlato, e da esse incomincio partendo dal postulato che esista un Bello in sé e per sé,unBuono in sé e per sé, un Grande in sé e per sé, e cosi di seguito […].

Questo passo è importante per i riferimenti ai concetti di bello in sé e altri; si tratta delle problematiche che già Socrate poneva ai suoi interlocutori e che Platone risolve in verità metafisica..

Ibid.

Allora guarda […] se le conseguenze che da questi postulati derivano ti sembrano essere le stesse che sembrano a me. A me sembra che, se c’è qualcos’altro che sia bello oltre al Bello in se per nessun’altra ragione sia bello, se non perché partecipa questo Bello in sé, e così dico di tutte le altre cose […].

In questo passo i concetti mutuati da Socrate vengono risolti in verità metafisiche; il bello in sé non è un concetto, un’astrazione logica, ma è la realtà più autentica del bello, la bellezza nel suo massimo compimento.

Ibid.

Allora io non comprendo più e non posso più riconoscere le altre cause, quelle dei sapienti [cioè dei naturalisti]; e se qualcuno mi dice che una cosa è bella per il suo colore vivo o per la sua figura fisica, o per altre ragioni del tipo di queste, io, tutte queste cose, le saluto e le mando a spasso, perché, in tutte queste cose, io perdo la testa, e solo questo tengo per me, semplicemente, rozzamente, e forse ingenuamente: che nessuna altra ragione fa essere quella cosa bella, se non la presenza o la comunanza di quella Bellezza in sé.

In quest’ultimo passo si compie un progresso ulteriore rispetto alla citazione precedente; si pone infatti in rapporto diretto il mondo intellegibile con quello sensibile, ovvero si fa del primo il criterio di spiegazione del secondo. Le diverse forme di bellezza che esistono nel mondo sono tali proprio in ragione della Bellezza in sé; questa, rimanendo sempre se stessa per l’eternità, rappresenta il modello per tutte le bellezze sensibili, destinate a sfiorire trascinate dalla realtà del mutamento.

La gnoseologia (teoria della conoscenza) di Platone

Ovviamente Platone, affermando l’esistenza della realtà intellegibile, deve affermarne la conoscibilità. Anzi, la conoscenza della realtà intellegibile sarà, per ovvie ragioni, nettamente superiore alla fallace informazione dei sensi; ad essa spetterà la denominazione di scienza (episteme).

D’altra parte la verità intellegibile non può essere colta dall’uomo in maniera immediata, proprio perché la mutevolezza sensibile gli impedisce, in un primo momento, di cogliere l’uniformità che sta dietro a tutte le mutazioni. La conoscenza intellegibile è dunque complessa, realizzabile solo dopo severa disciplina. Noi non ci soffermeremo sui caratteri di questa disciplina, la dialettica, se non per indicare, più avanti, la sua importanza nella dottrina politica di Platone.

La natura dell’uomo

L’esistenza del mondo intellegibile rinnova totalmente il modo d’intendere la natura umana. Se l’uomo fosse pura sensibilità, non potrebbe conoscere la realtà intellegibile, in quanto secondo Platone ciò che è imperfetto (e l’uomo, se fosse solo sensibilità, lo sarebbe) non può conoscere la perfezione; il simile conosce solo il simile. Abbiamo notato infatti come le idee non si possano percepire con i sensi, radicalmente estranei alla loro natura.

L’uomo di conseguenza, poiché è in grado di cogliere la realtà ideale, deve essere costituito, oltre che dalla sensibilità rappresentata dal corpo, anche da una parte intellegibile. Questa, proprio perché non associabile al corpo, si identificherà con l’anima.

L’anima secondo Socrate e l’anima secondo Platone

Anche la concezione platonica dell’anima si differenzia radicalmente da quanto aveva asserito Socrate, in quanto Platone implica una certezza di carattere metafisico assente nel suo predecessore. D’altra parte questa “novità” deriva proprio dal portare alle estreme conseguenze la dottrina socratica dell’anima.

Ricorderete come l’anima (psyché) per Socrate indicasse la vita psichica, intesa come attività intellettuale che caratterizza l’esistenza umana insieme alla facoltà sensibile. Socrate si disinteressò del destino dell’anima dopo la morte e, semmai, anche dove ne accenna (cfr. gli ultimi passi de l’Apologia di Socrate) mantiene un atteggiamento di incertezza.

Platone invece considera l’anima come una realtà indipendente, che non si limita a manifestarsi nella dimensione psicologica; è importante notare, prima di esaminare questa differenza, come egli però ricavi questa caratteristica metafisica proprio a partire da uno dei principali concetti socratici, quello di maieutica.

Leggiamo il passo tratto dal Menone.

da Platone, Menone 85 b, 86 c

SOCR. Che te ne sembra, Menone? Nelle sue risposte ha mai espresso una sola opinione che non fosse sua propria? MEN. No, egli ha cavato tutto da sé SOCR. Eppure, come dicevamo poco fa, non sapeva nulla MEN. E’ vero. SOCR. E tali opinioni) erano in lui, o no? MEN. Sì. SOCR. Ma allora, in chi non sa sono insite opinioni vere sulle stesse cose che ignora? MEN. Sembra SOCR. Tali opinioni) sono emerse ore, sollevate in lui come in un sogno, e se ripetutamente lo s’interrogasse sugli stessi argomenti e da punti di vista diversi), puoi star sicuro che alla fine ne avrebbe scienza non meno esatta di chiunque altro. MEN. Sembra. SOCR. Senza, dunque, che nessuno gl’insegni, ma solo in virtù di domande giungerà al sapere avendo ricavato lui, da sé la scienza ? MEN Si. SOCR. Ma ricavar da sé, in sé, la propria scienza, non è ricordare? MEN. Senza dubbio. SOCR. E la scienza. che ore possiede: o l’ha acquisita in un certo tempo o la possiede da sempre. MEN. Sì. SOCR. Se la possiede da sempre, egli sa da sempre; se l’ha fatta propria in un qualche tempo, ciò non è sicuramente avvenuto nella pre­sente vita. Vi è forse qualcuno che a questo ragazzo ha insegnato i primi elementi) della geometria? Nello stesso modo si comporterà relativamente a tutta la scienza geo­metrica e a tutte le altre discipline. Vi è forse qualcuno che gli abbia insegnato tutto? Lo saprai certo, tanto più che egli è nato e cresciuto in casa tua! MEN. So benissimo che non gli ha insegnato nessuno. SOCR. Ma ha o non ha tali sue opinioni ? MEN. {Incontestabilmente, Socrate, sembra che le abbia. SOCR. E se non le ha acquisite nella presente vita, non è già di per sé evidente che le possedeva, e che le ap­prese in un altro tempo? MEN. Evidente! SOCR. E’ non è forse questo il tempo in cui non era ancora uomo ? MEN. Sì. SOCR. Se, dunque, nel suo tempo umano e nel tempo in cui non era uomo, saranno in lui opinioni) vere, che ridestate dalle interrogazioni divengono scienze, non dovrà l’anima sue averle apprese da sempre ? poiché, evidentemente, egli ” è ” per tutto il tempo, sia quando è uomosia quando non lo è. MEN. Evidente. SOCR. Se, dunque, sempre è nella nostra anima la verità degli enti, immortale deve essere l’anima, per cui, coraggiosamente, non si deve porre mano a ricercare e a ridestare nella memoria ciò che ore ti capita di non sapere, e che, invece, è un dimenticare? MEN. Non so come, ma, Socrate, mi sembra che tu dice bene. SOCR. Anche a me, Menone! Forse su altri punti del discorso non mi sentirei d’esser tanto sicuro, ma per questo, che, cioè, pensando sia quasi un dovere cercare ciò che non si sa, diverremmo migliori, più forti), meno pigri che se ritenessimoimpossibile trovare e non dover cercare quello che non sappiamo, per questo, se ne fossi capace, com­batterei con forza, con la parole e con i fatti . MEN. An­che in questo, Socrate, mi sembra che tu dica bene.

Questo passo è ritenuto dalla maggiorparte degli interpreti come il più significativo per intendere il “salto” che si realizza da Socrate e Platone; è il momento in cui Platone, dopo avere reso un’ultima testimonianza del pensiero del maestro, si emancipa da quella dottrina per fondare la propria, identica dei presupposti ma contenente un ben più spessa convinzione metafisica. Sino a quando il passo traccia un quadro della maieutica siamo ancora all’interno del pensiero socratico, quando da questa si evince l’immortalità dell’anima, ecco che ci troviamo nel più genuino pensiero platonico. L’anima infatti, prima di incarnarsi, deve avere visto le idee; dopo essersi incarnata in un corpo, le ha dimenticate. La visione delle realtà sensibili però, copia delle idee, permette all’anima di ricordarle. Noi possiamo capire che due fenomeni sono uguali solo perché, prima di incarnarmi, abbiamo contemplato l’idea dell’uguaglianza; la realtà sensibile mi ricorda questa visione.

Eppure questa fondamentale differenza tra Socrate e Platone si realizza nel segno della continuità, con una naturalezza sconvolgente, a testimonianza che la metafisica platonica è un punto di approdo (se non necessario, quantomeno possibile) della grande lezione socratica.

La critica di Platone a Socrate

Se è evidente che le concezioni platoniche non avrebbero potuto essere concepite se non a partire dal pensiero socratico, pure è possibile individuare, negli sviluppi metafisici che Platone propone, una critica anche severa a Socrate, analoga per certi versi a quella che lo stesso Socrate aveva avanzato nei confronti dei sofisti.

La tecnica sofistica -ricordate-, in quanto neutra e fondata sull’utile, poteva degenerare nell’individualismo; ma anche la verità puramente formale di Socrate -sembra dire Platone-, non riempita di alcun contenuto, poteva alla fine distogliere i discepoli dalla ricerca del vero e, soprattutto, non essere sentita come vincolante. La bellezza della verità, che ci spinge a dedicare a essa la nostra vita, ha senso solo se questa ricerca può avere un esito, altrimenti rischia di essere sopraffatta dagli istinti egoistici, non appena ci si accorge della vanità dello sforzo.

Il mito in Platone

Dobbiamo ora analizzare il passo forse più famoso di tutta la letteratura platonica, il Mito della caverna contenuto ne La Repubblica. Queste righe riassumono praticamente l’intera filosofia platonica e la loro conoscenza può consentirci sia di riepilogare quanto finora detto, sia di proseguire il nostro percorso verso la filosofia politica di Platone.

Soprattutto però queste pagine sono in grado di rispondere a un interrogativo fondamentale, in particolare per l’argomento del nostro corso: che rapporto esiste tra la metafisica platonica, come l’abbiamo sino a ora descritta, e la riflessione politica del filosofo?

Conviene però proporre prima un’osservazione preliminare, che sottolinea un’ulteriore distacco di Platone da Socrate. La pagina che ci accingiamo a leggere è, come abbiamo detto, un mito. Ricorderete come la razionalità socratica diffidasse delle spiegazioni affidate all’immaginario mitologico, caratteristiche del periodo prefilosofico. Avevamo potuto constatare in un esempio significativo come fosse l’interlocutore di Socrate, Protagora, a proporre semmai un’argomentazione mitologica.

Platone invece recupera il mito; alcuni dei miti platonici costituiscono fra le pagine più celebri della letteratura filosofica. Perché egli realizza quello che, in confronto a Socrate, sembra un passo indietro sulla strada della chiarezza?

Platone ha mostrato come, per spiegare efficacemente la realtà, è necessario affermare l’esistenza di un mondo intellegibile; questo però non è accessibile alla normale conoscenza umana (sensibile) e richiede, per essere pienamente compreso, oltre che una solida preparazione filosofica, una capacità intuitiva molto sviluppata che si forma comunque, come vedremo, su assunti logici e scientifici fondamentali.

Per comunicare la logica interna a questa realtà ad individui che non sono ancora in grado di percepirla bisogna ricorrere, secondo Platone, al mito; il linguaggio razionale infatti, fondato comunque sulla realtà sensibile cui si riferiscono le diverse parole, non può comunicare la realtà intellegibile. Se ne può però svelare il senso attraverso immagini esemplari, oppure metafore che, in qualche modo, ci facciano capire come questa realtà è costituita.

Il mito torna d’attualità nella comunicazione filosofica, laddove bisogna spiegare, a coloro che non sono in grado di coglierla direttamente, la verità intellegibile.