Nord e Sud dell’Italia dal 1896 al 1920
Il presente testo fu concepito all’interno di un progetto, poi non realizzato, di un fascicolo monografico sul nord e sud nella Storia d’Italia da pubblicarsi come numero monografico di una rivista specializzata.
3) Dalla crisi di fine secolo al biennio rosso (1896 – 1920)
a) La crisi di fine secolo e l’avvio della politica di industrializzazione
L’espressione “crisi di fine secolo” – con la quale si sogliono indicare gli anni della storia d’Italia compresi fra il 1896 e il 1900 -, se esprime in modo efficace l’incapacità dei governi di quel periodo di far fronte adeguatamente a un’acuta crisi sociale e di legittimare un’azione politica decisamente reazionaria e antipopolare, rischia di mettere in ombra la trasformazione radicale e positiva dell’economia italiana che proprio in quegli anni si andava delineando e grazie alla quale si rinnovarono i rapporti fra i ceti economici dominanti e il sistema politico. E’ possibile anzi affermare che fu proprio questo mutamento profondo della struttura economica del paese, seppure concentrata in gran parte in singole aree del nord Italia, a favorire, a partire dal 1900, un’azione di governo decisamente riformatrice.
Dal 1896 al 1900, infatti, si registrò una crescita industriale senza precedenti, che sottrasse l’Italia da una condizione di netta inferiorità rispetto agli altri paesi europei – pur rimanendo in buona parte dipendente dagli investimenti dei capitali francesi e tedeschi – e, almeno per quanto riguarda una parte del suo territorio, acquistò una fisionomia più evoluta dal punto di vista dell’organizzazione produttiva. Le ragioni di questo improvviso intensificarsi dello sviluppo industriale vanno individuate nella politica attuata, a partire dagli anni ’80, dai governi della sinistra storica. In particolare fu la crisi agraria che investì l’Europa – e che colpì gravemente l’Italia – a promuovere un’azione di governo tesa a favorire lo sviluppo industriale; ne derivò una politica di stampo protezionistico, concretizzatasi – come si è detto – con la tariffa doganale istituita nel 1887, che protesse la nascente industria nazionale e ne permise, negli anni successivi, uno straordinario sviluppo.
La crescita negli anni 1896-1900, favorita da un periodo di generale prosperità internazionale, portò in una posizione di centralità economica il cosiddetto “triangolo industriale” (Genova, Torino, Milano) e sostenne in particolare lo sviluppo dell’industria pesante (siderurgia e meccanica); questa, per il ruolo decisivo che assolveva in settori strategici dell’organizzazione dello stato, tendeva a condizionare l’attività dei vari governi, costringendo la politica ad entrare nell’orbita di gravitazione dell’economia. Si comprende allora il motivo per cui, fino alla prima guerra mondiale, i conflitti fra i diversi settori industriali, così come quelli fra i grandi complessi industriali e gli istituti di credito, condizionarono le azioni dei vari esecutivi, sia per la politica interna sia per la politica estera. Venne a formarsi in questi anni un nuovo ceto imprenditoriale, estraneo – almeno all’inizio – alle consuete logiche dei gruppi politici dominanti, il quale spinse per un rinnovamento della ormai logora politica economica italiana.
I governi del marchese Di Rudinì, successivi alla definitiva caduta di Crispi, si proposero due obiettivi fondamentali: liquidare la guerra d’Africa, ponendo termine alle velleità imperialistiche dell’Italia, e imporre al paese il pugno di ferro, per rispondere alle crescenti agitazioni sociali dovute allo svilupparsi delle organizzazioni socialiste. Per quanto riguarda il primo obiettivo, Rudinì ebbe l’appoggio degli industriali, che intendevano opporsi alla pressione fiscale causata dall’eccessiva spesa pubblica, per lo più finalizzata proprio alle imprese imperialistiche. Gli industriali sapevano bene che gli eventuali territori conquistati poco potevano offrire in termini di materie prime e ancora meno potevano trasformarsi in mercati per l’esportazione dei prodotti nazionali, com’era l’India per l’Inghilterra.
La politica repressiva ebbe il suo culmine con i morti di Milano del maggio 1898; in quell’anno si intensificarono gli scioperi, soprattutto al nord, anche a causa di un disastroso raccolto del grano verificatosi l’anno precedente, che provocò un vertiginoso aumento dei prezzi. Dal 7 al 10 maggio, nel capoluogo lombardo, i moti popolari – per la verità diffusi in quasi tutta l’Italia -, ebbero la loro massima intensità; ci fu una battaglia urbana e le forze dell’ordine, comandate dal generale Bava Beccaris, presero a cannonate i dimostranti. Si contarono 80 morti fra i civili e due fra le forze dell’ordine e un’ondata di arresti senza precedenti, che non riguardarono solo i socialisti, ma anche repubblicani, radicali e cattolici. Vennero sciolte le associazioni sindacali, le camere del lavoro, le cooperative, i comitati diocesani, i giornali socialisti, anarchici e cattolici. Fra gli arrestati più celebri vi furono Filippo Turati – condannato a dodici anni -, Anna Kuliscioff – condannata a due anni -, il sacerdote don Albertario, direttore dell’Osservatorio cattolico di Milano – condannato a tre anni -. Il re concesse al generale Bava Beccaris la croce di grande ufficiale dell’ordine dei Savoia per i “servizi resi alle istituzioni e alla civiltà”.
Questa politica repressiva, anche se in un primo momento fu condivisa dall’opinione pubblica moderata, realizzò invece un drammatico distacco fra il ceto politico e la realtà sociale del paese. In particolare, il governo diretto dal generale Pelloux inasprì i provvedimenti contro la libertà di stampa e di associazione e attuò un restringimento delle garanzie democratiche. Divenne emblematico, a questo proposito, il controverso articolo pubblicato da Sonnino col titolo Torniamo alla statuto: il governo – secondo le intenzioni del deputato conservatore – avrebbe dovuto essere responsabile dei suoi atti solamente di fronte al sovrano e non nei confronti della maggioranza parlamentare.
Il documento di Sonnino riveste una fondamentale importanza in quanto permette di cogliere, all’interno di queste decise prese di posizione della classe politica più conservatrice, un confronto problematico con le grandi trasformazioni economiche allora in atto nel paese. Sonnino infatti intendeva opporsi soprattutto ai giochi trasformistici che si realizzavano nel parlamento, i quali provocavano una confusione illegittima fra potere esecutivo e potere legislativo.
La pratica trasformistica aveva inoltre pesanti ripercussioni soprattutto nei confronti del Mezzogiorno in quanto, favorendo illeciti legami fra taluni esponenti parlamentari e i latifondisti meridionali, rendeva impossibile ai contadini di incidere dal punto di vista politico e impediva la trasformazione produttiva dell’economia meridionale, aumentando il divario rispetto alle regioni settentrionali; pertanto si può dire che rappresentasse il risvolto negativo della politica d’industrializzazione in atto nel nord del paese.
Le preoccupazioni di Sonnino, pur con tutti i limiti della sua posizione antiparlamentare, riflettevano un’oggettiva situazione critica che investiva il Mezzogiorno in rapporto alla contemporanea crescita economica del Nord. Recenti studi sono giunti, a questo proposito, a conclusioni piuttosto nette: dalla politica d’industrializzazione si sarebbe originata una definitiva divaricazione fra lo sviluppo del Nord e del Sud del paese. Sino ad allora il divario – pur nella differente organizzazione dell’economia – non si presentava così sensibile; a Napoli, per esempio, gli opifici industriali erano secondi per numero solo a Milano. La forza lavoro impiegata nelle attività industriali cominciò sensibilmente a decrescere solo a partire dall’inizio del XX secolo, quando la politica d’industrializzazione nel nord Italia prese il sopravvento. Secondo il principio di agglomerazione, infatti, le nuove iniziative industriali tesero a collocarsi là dove esisteva una realtà produttiva organizzata, sfruttando i servizi già predisposti (energia, trasporti, competenze tecniche, strutture per la commercializzazione).
In questi anni, però, il sud tese a differenziare in negativo il proprio sviluppo anche nel settore agricolo; in molti casi furono proprio le deficienze infrastrutturali a impedire una riconversione tecnico-organizzativa che, invece, si attuò con successo nell’Italia settentrionale. Nel Nord, anche grazie alla politica protezionistica, si sviluppò nuovamente -–dopo la crisi degli anni ’80 – la coltura del frumento; iniziarono ad essere utilizzati i concimi chimici, ad essere sfruttate con criterio le competenze guadagnate in merito alla selezione delle sementi. Nel 1913 il Nord conobbe i più elevati indici di rendimento e arrivò a fornire quasi due terzi della produzione nazionale.
Per spiegare il mancato progresso dell’agricoltura meridionale sicuramente bisogna sottolineare l’incapacità dei governi di dirigere la spesa pubblica a colmare le lacune infrastrutturali, che rendevano il Mezzogiorno un ambiente poco vantaggioso per chi era intenzionato ad investire in agricoltura. La presenza di adeguate infrastrutture permetteva uno sviluppo della produzione: nel nord Italia, la necessità di sfruttare le potenzialità d’irrigazione dei fiumi, portava al coinvolgimento di un considerevole numero di tecnici e alla formazione di consorzi, con conseguente aumento degli investimenti. Nel Sud invece lo stato non riuscì a imporre un uso collettivo delle risorse; l’imprenditore agricolo, quindi, non investiva i profitti accumulati in ulteriori attività produttive (essendo i tempi del profitto, in agricoltura, più lenti di quelli dell’industria), ma con essi si limitava a costruire ville padronali o ad acquistare nuove proprietà; oppure li investiva in banca, per ottenere gli interessi al riparo da ogni rischio.
Un ulteriore motivo per cui nel Sud non si impose alcuna volontà di trasformazione economica fu la mancanza di una diffusa ed efficiente organizzazione delle forze d’opposizione (sindacali e politiche) in grado di rappresentare le varie rivendicazioni del mondo contadino e bracciantile. Al contrario degli scioperi che si organizzavano nel Nord, le proteste contadine del sud erano per lo più spontanee e a volte confuse sul piano rivendicativo; venivano, di conseguenza, facilmente represse.
Il gabinetto Pelloux venne sconfitto in Parlamento dopo una decisa politica ostruzionistica, alla quale partecipò anche il gruppo liberale guidato da Giovanni Giolitti. Persino il re Umberto I, che pagherà con la vita il deciso appoggio da lui dato alla repressione dei moti milanesi, si convinse della necessità di una svolta moderata e nominò capo del governo Giuseppe Saracco, un conservatore rispettoso però della legalità parlamentare. Anche il nuovo sovrano, Vittorio Emanuele III, proseguì su questa linea politica e affidò l’incarico a Giuseppe Zanardelli, dando inizio al periodo della storia nazionale noto come età giolittiana.
b) Giovanni Giolitti: la formazione politica
Al nome di Giovanni Giolitti è legata la storia italiana dei primi quindici anni del nostro secolo; in questo periodo si registrò, nel paese, una indubbia ed efficace attività riformatrice, che coinvolse la totalità delle attività produttive, sia pure – come vedremo – non l’intero territorio nazionale. Si trattò quindi di un momento certamente positivo per la storia d’Italia, in cui si registrarono mutamenti strutturali i quali – vista l’arretratezza economica della penisola – portarono la nazione a realizzare quasi contemporaneamente sia la prima, sia la seconda rivoluzione industriale. Da una parte il processo di industrializzazione procedette spedito e cambiò le caratteristiche economiche dell’Italia centro-settentrionale; dall’altra la stessa attività agricola assunse modalità organizzative capitalisticamente efficienti, registrando un notevole incremento produttivo. Questa fase di netto progresso economico coinvolse in modo sensibile pure la sfera politica e sociale e si contrappose al clima degli ultimi anni del secolo. Dopo i tragici avvenimenti di quegli anni, buona parte della borghesia italiana non appoggiò il risentimento degli esponenti politici più reazionari, i quali avrebbero salutato con favore una svolta autoritaria – magari un colpo di stato promosso dalla stessa monarchia –, ma comprese la necessità di un rinnovamento politico, economico e sociale, di cui Giolitti rappresentò il più deciso sostenitore.
Nonostante l’indubbia azione riformatrice che si verificò in quegli anni, sulla personalità politica dello statista non è facile cogliere giudizi concordanti sul piano storiografico; luci ed ombre pesano sui suoi governi, capaci da una parte di migliorare le condizioni di vita delle fasce sociali più svantaggiate e, nello stesso tempo, tesi a difendere una fisionomia del potere rigidamente conservatrice; perplessità scaturiscono soprattutto dal modo in cui Giolitti affrontò la questione meridionale, dal momento che lo statista sembrò volutamente rinunciare in questo ambito a qualsiasi azione rinnovatrice, favorendo uno scompenso strutturale fra il nord e sud del paese.
Un’ulteriore considerazione, ancorché generica, contribuisce all’ambiguità del giudizio su Giolitti; l’età giolittiana si collocò fra due periodi della storia nazionale fortemente drammatici: la crisi sociale e politica di fine Ottocento, caratterizzata, oltre che dal conflitto sociale, anche da una manifesta corruzione della classe politica e l’intervento nella prima guerra mondiale, quando prevalsero, in seno alla borghesia italiana, le ideologie più nazionaliste, anticipatrici dell’attacco fascista alle istituzioni democratiche. Collocato fra queste due fasi storiche negative, il giolittismo non può essere inteso unicamente come una politica di rinnovamento, destinata ad essere travolta da fattori esterni che non seppe dominare; più convincente è individuare nell’azione politica dello statista atteggiamenti contraddittori e, a volte, opportunisti che – senza negare l’effettivo valore innovativo della sua attività di governo – pure stabiliscono una parziale continuità fra gli eventi precedenti la sua ascesa al potere e quelli successivi ai suoi governi.
Giolitti fu il primo importante statista della storia d’Italia non legato al periodo risorgimentale. Il suo apprendistato politico avvenne all’epoca dei governi di Depretis e la pratica del trasformismo rappresentò per Giolitti un modello irrinunciabile al fine di stabilire contatti fra i diversi schieramenti parlamentari e forzare le diversità dovute alle varie appartenenze ideologiche, con tutti i vantaggi per la governabilità, ma con un conseguente svilimento della funzione rappresentativa del Parlamento. L’attività politica che svolse negli ultimi anni del secolo in qualità di ministro del penultimo governo Crispi e nella breve e fallimentare esperienza a capo del governo e poi durante l’opposizione ostruzionistica al governo Pelloux, evidenzia tutta l’ambiguità della sua concezione del potere: da una parte si oppone decisamente al cieco conservatorismo degli ultimi governi del secolo, passati con una quasi naturale spontaneità dalla guida di esponenti della sinistra a quella di un generale reazionario come Pelloux, dall’altra si mantiene fedele al trasformismo di Depretis, in modo che le riforme auspicate e realizzate non mutino nella sostanza un quadro politico sensibilmente conservatore. Le oscillazioni della politica giolittiana derivano però anche dalle contingenze del momento, dalle opportunità offerte dal quadro politico, come testimoniano le molteplici alleanze politiche da lui realizzate nei diversi anni di governo.
L’età giolittiana – espressione sicuramente felice per indicare il carattere peculiare dei primi quattordici anni del secolo – in realtà vide succedersi ben undici governi, di cui solo tre guidati da Giolitti. Ma è indubbio che quest’ultimo rappresentò sempre, in quegli anni, il punto di riferimento politico, che ispirò l’intera iniziativa dei diversi governi. Come ministro degli Interni del governo Zanardelli e, successivamente, come capo del governo (febbraio 1903 – marzo 1905) Giolitti poté dispiegare a pieno la propria concezione dello Stato: questo doveva mantenere un atteggiamento di neutralità nei confronti dei conflitti sociali, preoccupandosi unicamente del rispetto dell’ordine pubblico. Era assurdo, agli occhi di Giolitti, che lo Stato prendesse parte al conflitto di classe, schierandosi contro la maggioranza della popolazione più disagiata e provocando quindi, tra le masse popolari, un’avversione per le istituzioni. Con Giolitti – suggerisce Marco Meriggi – si “avvia il passaggio dal liberalismo alla democrazia, dallo Stato monoclasse allo Stato pluriclasse”. In qualità di ministro degli interni egli si comportò con coerenza, non intervenendo in modo repressivo nei diversi scioperi che interessarono il nord Italia (quello del 1900 a Genova, quelli tra i braccianti della val Padana fra il 1902 e il 1903, oppure quello – ricordato nelle Memorie giolittiane – dello sciopero generale del 1904).
Il principio che portava Giolitti a sostenere questa prassi era quello secondo cui l’aumento del benessere fra la popolazione e il compromesso scaturito dal conflitto sociale conducevano a una crescita economica complessiva. La preoccupazione principale dei governi giolittiani rimase la crescita della produzione e, quindi, gli atti riformatori e la maggiore accondiscendenza verso le manifestazioni operaie non obbedivano soltanto a un’esigenza di maggiore democrazia, ma avevano come fine anche una ben precisa prospettiva economica. Giolitti riteneva del resto che la principale rivendicazione delle manifestazioni operaie, cioè la richiesta di aumenti salariali, non fosse solo legittima, ma anche necessaria ai fini del progresso economico; i bassi salari, oltre a compromettere la pace sociale, facevano diminuire i consumi e la produttività del lavoro e rendevano, di conseguenza, scarsamente concorrenziale l’industria italiana.
Questo particolare concezione dello Stato era già diffusa in Inghilterra, dove Webb l’aveva denominata democrazia industriale, espressione ripresa più tardi in Italia da Francesco Saverio Nitti, ministro giolittiano e poi presidente del consiglio. Il conflitto fra le parti sociali, conducendo a una partecipazione più attiva delle diverse categorie di lavoratori all’atto produttivo, favoriva una crescita dell’industria che diventava, in questo modo, luogo di coesione sociale, dove le varie classi acquistavano maggiore coscienza del loro ruolo rispetto alla vita economica nazionale; il conflitto, ovviamente, andava istituzionalizzato, appoggiando le varie forme di organizzazione delle categorie produttive, sia degli industriali sia del movimento operaio. In questo conflitto istituzionalizzato lo Stato assolveva a un ruolo di mediazione, depotenziando così i diversi conflitti sociali da ogni carica eversiva e favorendo le attività imprenditoriali che accettavano le condizioni poste dal governo.
Il successo della linea giolittiana negli anni compresi fra il 1901 e il 1903 fu favorito da una positiva congiuntura economica, che sostenne la politica di industrializzazione. Fra i principali provvedimenti previsti dalla legislazione sociale ci furono la legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, l’introduzione del riposo domenicale obbligatorio, l’assicurazione contro gli infortuni e l’istituzione del consiglio superiore per il lavoro. Già a metà del 1903 tale congiuntura era terminata e gli aumenti salariali concessi negli anni precedenti fecero da freno allo sviluppo, provocando un irrigidimento nelle posizioni degli industriali.
La politica di Giolitti, quando poté guidare in prima persona il governo, fu quella di evitare le contrapposizioni frontali fra i diversi schieramenti politici. Per realizzare queste finalità, aveva però bisogno di recuperare allo stato liberale le opposizioni storiche, cattolica e socialista; in un primo tempo egli fu particolarmente interessato a un’alleanza con l’ala riformista del Partito socialista, allo scopo di controllare le masse popolari. Proprio nel 1903, l’anno in cui divenne primo ministro, Giolitti propose a Turati la partecipazione diretta al governo; i socialisti riformisti erano rimasti bene impressionati dall’opera svolta da Giolitti in qualità di ministro dell’Interno: ma Turati rifiutò comunque un accordo con il governo, convinto che avrebbe condotto ad una spaccatura nel partito. Infatti l’ala massimalista o intransigente del PSI, pur in minoranza sia nel partito sia nel sindacato, avrebbe ottenuto probabilmente maggiore consenso fra le masse, se si fosse opposta alla collaborazione con un governo liberale. L’appoggio dei socialisti fu dunque esterno, realizzato ricorrendo a una procedura tipicamente trasformistica; ad avvantaggiarsene fu in modo particolare la classe operaia del nord Italia, che avrebbe ottenuto aumenti salariali estremamente sensibili. I socialisti ritennero in questo modo di favorire una politica di riforme, spostando su posizioni meno rigide e più moderne la borghesia italiana; questa politica però, nello stesso tempo, avrà delle responsabilità nell’appoggiare, sia pure implicitamente, l’azione politica di Giolitti nei confronti del Mezzogiorno, ampliando ulteriormente la distanza esistente fra le organizzazioni politiche socialiste e il mondo contadino e popolare del sud Italia.
Diverse ragioni spiegano questo atteggiamento dei socialisti: da una parte il partito aveva una più solida organizzazione al nord e anche il sindacato – persino per le rivendicazioni bracciantili – era diffuso soprattutto nella pianura padana. Milano – afferma Meriggi – “dopo il ’98 si è imposta come la capitale del socialismo italiano e come il primo importante laboratorio della penisola per la sperimentazione di nuove alchimie e nuove alleanze politiche”. I socialisti, infatti, sperimentarono nei governi locali del Nord le prime alleanze politiche capaci di dare spazio alle rivendicazioni della classe operaia.
D’altra parte, c’erano anche delle motivazioni teoriche che spinsero Turati a prediligere, per quanto riguarda l’azione del partito, la questione sociale e operaia del nord Italia: i socialisti si proponevano infatti di rompere l’alleanza fra la borghesia industriale del nord e i latifondisti del Sud nata in difesa del protezionismo; l’Italia settentrionale avrebbe potuto realizzare un’autentica rivoluzione borghese, in grado di debellare le “forze feudali” ancora presenti nel Mezzogiorno. Questa auspicata alleanza fra proletariato industriale e borghesia si era già realizzata – a parere di Turati – durante l’opposizione all’imperialismo crispino e poteva essere recuperata.
Nel 1905 Giolitti presentò le dimissioni non riuscendo a far fronte agli scioperi dei ferrovieri, conseguenza della decisione di nazionalizzare le ferrovie. Il Parlamento fu vicino ad appoggiare una soluzione di destra (Sonnino o Di Rudinì), poi Giolitti stesso appoggiò il ministero di Alessandro Fortis. Durante questa esperienza di governo l’asse politico si spostò nettamente verso posizioni più moderate, nonostante Giolitti governasse praticamente per interposta persona. La breve esperienza del governo Fortis testimonia come la preoccupazione maggiore di Giolitti fosse quella di limitare l’azione del movimento operaio; quando non si poté più puntare ad un’azione congiunta con i socialisti riformisti, bisognò ricorrere a soluzioni più marcatamente conservatrici che Giolitti, pur appoggiandole dall’esterno, non voleva fossero associate immediatamente alla sua persona.
Al governo Fortis seguì il ministero Sonnino; questo ritorno al potere dell’ala conservatrice della classe politica liberale non si sarebbe rivelato felice; anzi, anche quando la guida dell’esecutivo passò per due volte all’opposizione – sempre con Sonnino alla guida del governo -, la politica di Giolitti rappresentò comunque il referente – per quanto polemico – delle diverse decisioni legislatrici. I due fallimenti dei governi Sonnino imposero allora Giolitti come l’uomo politico non necessariamente più gradito ai ceti economici dominanti, ma in qualche modo come l’unico capace di mediare e conciliare i diversi interessi dell’Italia di quel periodo.
Pure bisogna sottolineare come, dal punto di vista della questione meridionale, le brevi esperienze dei governo Sonnino sembrano auspicare soluzioni più efficaci per realizzare un autentico progresso nel Mezzogiorno. Sonnino, infatti, riteneva che nel Sud non si potesse agire unicamente con legislazioni speciali, ma bisognasse provvedere a riforme strutturali: cercò di ridurre l’imposta fondiaria per favorire l’agricoltura meridionale, obbligò i proprietari a sovvenzionare i contadini con sementi in caso di necessità e introdusse un rigore amministrativo in modo originale rispetto alla pratica di governo giolittiana.
L’apogeo dell’età giolittiana si ebbe, dopo la breve parentesi del governo Sonnino, col “lungo ministero”, durato dal maggio 1906 al dicembre 1909; nel 1906 prevalse inoltre di nuovo nel Partito Socialista la corrente riformista, il che rese possibile la contrattazione tra le forze industriali e i sindacati, favorita dalla mediazione del governo.
Giolitti intendeva inoltre cercare il consenso dei principali esponenti del mondo industriale, i quali dovevano convincersi della opportunità di sostenere il sistema didemocrazia industriale. Ovviamente questo consenso gli fu dato sulla base di specifici interessi e, a seconda dei cicli economici attraversati dal Paese, fu alterno. Gli industriali mantennero un atteggiamento positivo nei confronti del giolittismo quando questi istituì commesse pubbliche e, in alcuni settori, favorì un atteggiamento protezionistico; nella fase espansiva dell’industrializzazione quasi tutti i settori produttivi accettarono la linea riformatrice del governo. Ma questo consenso fu incrinato o si spostò su posizioni più intransigenti nei momenti di crisi. In realtà in Italia mancavano le due condizioni che permisero ad altre nazioni d’Europa il successo di una politica riformista: non c’era una borghesia incline a schierarsi su posizioni radicali, come in Francia, né una situazione economica omogenea e uniforme sull’intero territorio nazionale, come in Germania.
La politica di Giolitti ebbe, nei confronti dell’industria, un indubbio successo: rispetto agli anni precedenti il 1896 si registrò una crescita continua, il reddito nazionale aumentò di circa la metà, il numero degli occupati nelle industrie raddoppiò; per quanto, di questi occupati, il 45% era concentrato nel triangolo industriale.
c) La questione meridionale
Le riforme giolittiane non riuscirono ad affrontare la crisi del Mezzogiorno; anzi, come afferma Castronovo, “nel periodo giolittiano si dileguarono le ultime possibilità di saldare in qualche modo il Sud, o meglio alcune zone del Mezzogiorno, al trend dello sviluppo industriale e si accentuò, per contro, il divario fra le regioni settentrionali e quelle meridionali lungo linee nuove di demarcazione destinate a scandire da allora il diverso corso economico e sociale del paese nella storia dell’Italia contemporanea”. Giolitti agì in piena continuità con quelle che erano state le linee di programmazione economica della sinistra storica: se da una parte potenziò l’apparato industriale del Nord, dall’altra non attuò riforme strutturali al Sud e non prese in considerazione l’idea di una riforma agraria. Nei confronti del meridione, Giolitti offrì un’immagine per certi versi contraria alla propria ideologia dello Stato: se verso gli scioperi operai il governo mantenne un atteggiamento neutrale, le proteste contadine del sud furono duramente represse e si conclusero spesso con eccidi; la condizione contadina rimase precaria, soggetta a un sistema latifondistico poco produttivo e a rapporti di lavoro tanto arcaici quanto poco rispettosi della dignità dei lavoratori. Giolitti non esitò, a questo proposito, a ricorrere all’appoggio della malavita locale, per costruirsi un facile quanto artificioso consenso elettorale, approfittando anche dell’attività dei prefetti e di una magistratura poco incline a riconoscere compiutamente i diritti delle classi subalterne. Giolitti non se la sentì di fare a meno dell’appoggio dei ceti agrari, che erano socialmente dominanti nella realtà meridionale e non appoggiò i gruppi imprenditoriali del sud che, in questo modo, non erano stimolati a ulteriori investimenti. Il governo rendeva così più convenienti le tradizionali attività agricole che rappresentavano ancora, rispetto alle manifatture, una ben più allettante alternativa di continuità7.
Non è un caso che le manifestazioni di dissenso nei confronti di Giolitti acquistarono, quando si riferirono alla politica meridionalista, una tonalità per niente rispettosa, tesa a sottolineare l’abuso, l’arbitrarietà e l’illegittimità (addirittura l’illegalità) dell’azione giolittiana. Lo scritto Il ministro della malavita di Gaetano Salvemini fu in questo senso estremamente significativo, laddove l’azione di Giolitti, considerata criminosa, venne posta in continuità – anzi con caratteristiche addirittura peggiorative – con quelle degli ultimi governi del secolo precedente.
Non per questo la politica di Giolitti fu priva di iniziative nei confronti del Mezzogiorno: la questione meridionale fu al centro di numerosi lavori parlamentari e ne seguirono diverse legislazioni speciali, che prevedevano la costruzione di centri industriali, di acquedotti o linee ferroviarie. I governi si ripromettevano, in questo modo, di rimediare ad alcuni aspetti che rendevano certe aree incapaci, per carenze infrastrutturali, di esprimere pienamente le rispettive potenzialità economiche; furono inoltre presi provvedimenti speciali per Napoli, la Basilicata e la Calabria. Fu durante il periodo giolittiano che si impose la nozione di bonifica integrale, con la quale si tentò di coordinare diversi interventi; la bonifica come opera di integrale riforma del territorio, destinata non a mettere in piedi una qualsiasi opera pubblica, ma di trasformare radicalmente un intero ambiente. Solamente che il governo attuò queste opere con un atteggiamento tipicamente clientelare, comprando il consenso elettorale attraverso concessioni ed escludendo aree geografiche o gruppi economici per puri interessi di parte. Come afferma lo storico Bevilacqua “si veniva alimentando e rafforzando un sistema di mediazioni fra società e stato, destinato a produrre una indiscriminata distribuzione di risorse e a limitare, al contrario, gli interventi volti al potenziamento dei settori o delle aree più suscettibili di crescita e di effetti economici generali sul resto del Mezzogiorno”.
Un’altra grande speranza di sviluppo del Mezzogiorno, coltivata da Francesco Saverio Nitti, fu lo sviluppo dell’energia idroelettrica, forza motrice in grado di sostituire il carbon fossile e che si pensava potesse rilanciare lo sviluppo industriale dell’intero paese. Nitti si fece promotore di un vasto piano di sviluppo delle acque, di cui la Campania era relativamente ricca, per fondare su di esse una moderna industria idroelettrica. Liberata dal pesante costo del carbone straniero, l’industria meridionale poteva trovare a Napoli, attraverso una concentrazione di sforzi, pubblici e privati, un nuovo centro irradiatore, in grado di animare nuove manifatture e di trascinare in un processo di trasformazione il resto delle province italiane.
Il “lungo ministero” fu investito da una grave crisi economica mondiale, scoppiata nel 1907. Durante questa crisi si registrò un forte aumento dei prezzi delle materie prime che incise profondamente sull’economia italiana, che ne era priva e, inoltre, non era dotata di rilevanti domini imperiali. Le industrie siderurgica, automobilistica e cotoniera furono le più colpite dagli effetti della crisi; si trovarono in una difficile situazione i settori produttivi esposti nei confronti delle banche. Si registrò infatti una crisi di liquidità, col risultato che si verificò una corsa dei risparmiatori agli sportelli; la Società bancaria italiana si trovò allora in difficoltà a causa dei crediti che aveva concesso alle imprese. Gli industriali cercarono di riorganizzare la produzione attraverso un’azione di concentrazione monopolistica, creando cartelli col fine di ridurre i costi della concorrenza e rendere meno rischiosa per le banche una politica creditizia. Le stesse organizzazioni padronali si consolidarono: nel 1909 nacque la Confederazione Nazionale agraria e nel 1910 La Confederazione italiana dell’industria, nel 1911 la Confagricoltura. Lo Stato e la Banca d’Italia acquistarono un ruolo di prim’ordine per il salvataggio delle aziende. Questa politica di sostegno creditizio contribuì però ad approfondire lo squilibrio fra Nord e Sud del paese, poiché spostava la stragrande maggioranza delle risorse nelle zone a più alta concentrazione produttiva; in questo la crisi non fece che radicalizzare una tendenza già in corso da diversi anni.
Uno degli effetti paradossali della crisi del Mezzogiorno – paradossale perché, in ultimo, si rivelò come fonte di possibile ricchezza – fu il fenomeno dell’emigrazione che, causa la crescente disoccupazione, continuò ad aumentare durante tutta l’età giolittiana: tra il 1876 e il 1914 emigrarono dalle regioni dell’Italia meridionale oltre 5.400.000 persone. L’emigrazione rappresentò una opportunità per il Mezzogiorno: da una parte contribuì a migliorare le condizioni di lavoro dei contadini; diminuendo infatti la manodopera disponibile, i lavoratori agricoli rimasti poterono contrattare migliori condizioni. D’altra parte, se in un primo tempo i latifondisti cercarono di impedire questo esodo massiccio, più avanti dovettero piegarsi all’incoraggiamento che, nei confronti del fenomeno, venne dal governo. Come ha scritto infatti Francesco Barbagallo, “l’emigrazione meridionale rappresenterà un asse portante dello specifico modello italiano di sviluppo capitalistico, procurando una massa cospicua di capitali decisiva per superare i momenti più gravi del sistema economico nazionale”. Ci furono meridionalisti, quali Francesco Saverio Nitti, che nell’emigrazione videro una possibile soluzione della questione meridionale, dal momento che le rimesse miglioravano la situazione economica dei ceti contadini. Di lì a qualche anno infatti gli “americani”, come venivano chiamati gli emigrati che avevano fatto ritorno in patria, ebbero accesso alla proprietà fondiaria; in quegli anni, infatti, ci furono nelle regioni meridionali significativi spostamenti di proprietà. In realtà queste rosee previsioni andarono in buona parte deluse: da un lato le rimesse finirono per finanziare proprio l’industrializzazione del Nord, dall’altra “la fuga dalle campagne si rivelerà fenomeno dissolvitore e disgregatore del tessuto sociale ed economico” (Barbagallo, p.14).
In riferimento alla crisi del 1907, furono in buona parte le rimesse degli emigranti a fornire alle banche la liquidità necessaria per salvare l’industria italiana dagli effetti della crisi; lo storico Paolo Bonelli ha documentato nei dettagli l’uso delle rimesse degli emigrati meridionali ai fini del finanziamento e salvataggio dell’industria settentrionale: “Le banche di credito ordinario e l’istituto di emissione mobilitarono ogni loro mezzo per allargare gli impieghi del portafoglio nelle zone in cui era in atto un processo d’industrializzazione. Si può ben dire che l’altra Italia, quella agricola e quella degli emigrati, quasi non si accorse di quello che stava succedendo, ma dalla crisi essa fu coinvolta nella misura in cui aveva fornito al sistema bancario i mezzi che allora servirono a sbloccare la situazione di impasse in cui si era cacciata la gestione bancaria deltriangolo industriale”. (p.169)
La crisi del 1907 mutò anche l’azione riformatrice del governo che si propose, da questo momento in poi, di realizzare un controllo sulle grandi concentrazioni monopolistiche; Giolitti condivise infatti un atteggiamento “statalista” nei confronti dell’iniziativa privata, al quale si opposero ben determinati soggetti economici e finanziari. Anzi, è possibile affermare che il riformismo di Giolitti trovò un ostacolo insormontabile proprio in questa opposizione e che, dunque, le sue riforme si limitarono a una legislazione sul lavoro che, pur apportando in singoli settori decisi miglioramenti, non riuscì tuttavia a modificare strutturalmente il capitalismo italiano in modo da impedirne una futura deriva reazionaria. Un esempio emblematico dei limiti cui fu costretto il riformismo giolittiano fu il fallimento del progetto di creare un monopolio di Stato sulle assicurazioni della vita: l’idea di Giolitti, e di chi lo sosteneva, era quella di creare un potere forte che si opponesse all’eccessiva concentrazione, in alcuni settori, delle imprese, per tutelare le pensioni e il lavoro privato. Dopo un’aspra battaglia parlamentare Giolitti si vide accettare il provvedimento, la cui attuazione veniva però rimandata di dieci anni. Anche i tentativi di imporre la riforma tributaria e la nominatività obbligatoria dei titoli azionari dovettero essere rimandati.
La crisi del 1907 segnò una svolta pure rispetto al clima ideologico prevalente nella borghesia italiana; in essa, come acutamente suggerisce Carocci, a partire del 1907 si registrò un netto passaggio “dall’ideologia del liberalismo a quella più reazionaria del nazionalismo”. E fu proprio la cultura nazionalista a rappresentare, almeno a livello di visibilità sociale, l’opposizione più esplicita al giolittismo; d’altra parte il nazionalismo riuscì ad avere un peso nella politica italiana solo quando divenne funzionale agli interessi della grande industria; e lo sviluppo in senso monopolistico – poco sopra ricordato – del mondo industriale italiano favoriva una scelta imperialistica legata alle necessità di una politica di potenza, all’esigenza che lo Stato facesse delle forti commissioni, alle previsioni positive per l’industria nel caso di un impegno militare.
Furono queste ragioni a convincere Giolitti dell’opportunità di dichiarare, nel 1911, la guerra alla Turchia per la conquista della Libia. Fu una impresa appoggiata – dopo qualche iniziale incertezza di alcuni settori – praticamente da tutto il mondo economico italiano, diversamente da quanto era accaduto durante l’imperialismo crispino; le ragioni di questo mutato atteggiamento stavano nella cartellizzazione realizzatasi in seguito alla crisi del 1907. La guerra, d’altronde, ebbe un positivo influsso sull’economia del paese; sia la Banca di Roma, che aspirava a espandersi in Tripolitania, sia la Banca Commerciale, che gestì le forniture militari all’esercito, la appoggiarono e ne trassero benefici.
Giolitti pensava di poter sfruttare gli ideali nazionalisti senza compromettere il moderatismo della propria politica; egli riteneva una necessità strategica l’invasione della Libia che, senza l’azione dell’Italia, sarebbe sicuramente caduta preda di qualche altra potenza, compromettendo la sicurezza nazionale nel Mediterraneo. Su questa base anche alcuni esponenti socialisti moderati, quali Bonomi e Bissolati, si allontanarono dal tradizionale neutralismo del partito per appoggiare la causa libica. Inoltre l’impresa libica venne sfruttata anche in nome della questione meridionale, promettendo nuove terre ai contadini del Sud. La guerra di Libia ebbe però l’effetto di radicalizzare la scena politica, dando voce, oltre che ai nazionalisti, anche ai socialisti intransigenti che accusarono i vertici riformisti di avere tradito i valori più alti del partito.
Ma la causa principale delle tensioni sociali e politiche che portarono a conclusione l’età giolittiana fu la crisi economica che attanagliò l’Europa nel 1913 e che vanificò i vantaggi che l’impresa libica aveva procurato. Si ebbero contraccolpi sui salari, già sensibilmente colpiti dalle imposte che, per portare a termine la guerra, Giolitti aveva inasprito; gli industriali si opposero con decisione a qualsiasi rivendicazione migliorativa, difendendo i principi del privatismo e negando allo Stato quel ruolo mediatore nei conflitti che aveva prevalso negli anni immediatamente precedenti. Contemporaneamente, i socialisti intransigenti, ormai alla guida del partito, diedero luogo ad una serie di scioperi che si conclusero con una sconfitta per il movimento operaio. Parallelamente a questo radicalizzarsi dello scontro sociale e politico, la maggior parte del ceto intellettuale si schierò su posizioni antigiolittiane, portando a compimento quel percorso antagonista iniziato con la crisi del 1907, che si era tentato di integrare nella cultura di governo con la conquista della Tripolitania.
Giolitti sperava di opporsi a questa radicalizzazione della vita politica con la riforma elettorale, da lui proposta nel 1911: si trattava di un suffragio universale esteso a tutta la popolazione maschile che aveva compiuto i trenta anni di età e assolto agli obblighi di leva; il progetto fu trasformato in legge nel 1912, in piena guerra di Libia. Ancora una volta Giolitti intendeva, con una riforma progressista, bloccare il quadro politico in un clima decisamente conservatore. Egli riteneva che il voto contadino avrebbe premiato le forze moderate, costituendo un argine decisivo nei confronti del movimento socialista. Non a caso lo statista promosse le elezioni del 1913 proponendo un’inedita alleanza fra liberali e cattolici in funzione antisocialista. Da una parte questa intesa elettorale si spiegò con la situazione politica creatasi all’indomani dell’impresa libica, quando non era più proponibile un’alleanza con i socialisti, che all’azione imperialista si erano opposti con energia; dall’altra Giolitti volle proporre un’alternativa al netto spostamento a destra di buona parte della borghesia italiana, che stava abbandonando il moderatismo giolittiano. La strategia di Giolitti ebbe senz’altro successo, ma questo non bastò a impedire la fine del suo progetto politico; come era quasi sempre avvenuto dopo una nuova elezione parlamentare, Giolitti preferì presentare le dimissioni e gli successe Antonio Salandra. Questi guiderà il governo destinato a far entrare in guerra il paese e, per ottenere questo scopo, esasperò oltre ogni limite il clima antigiolittiano portato avanti da alcuni gruppi intellettuali e da alcuni settori industriali, non lasciando più margini a qualsiasi politica di mediazione.
h) La prima guerra mondiale
La decisione di entrare in guerra fu sostenuta con energia solo dopo che il mondo dell’industria colse nell’intervento una possibilità di crescita per i profitti; nonostante il positivo esito, dal punto di vista dell’economia industriale, della guerra di Libia, non tutto il mondo produttivo e finanziario fu all’inizio schierato per l’intervento. In un primo tempo prevalse la volontà di sfruttare la vantaggiosa posizione di paese neutrale, per realizzare un sicuro mercato di retrovia di prodotti industriali per i paesi belligeranti; in seguito la partecipazione alla guerra divenne una necessità perché, come fa notare Nicola Tranfaglia, il conflitto provocava danni immensi a “un’economia come quella italiana che doveva importare quasi tutte le materie prime e molti beni essenziali”. A prendere posizione favorevole all’entrata in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa fu l’Ansaldo, appartenente ai fratelli Perrone; l’Ansaldo era stato il gruppo siderurgico industriale che meglio aveva superato la crisi del 1907, grazie ad un accordo con l’impresa francese Schneider. L’accordo Ansaldo\Schneider condusse ad un coinvolgimento finanziario sempre crescente del capitale francese nell’economia italiana e portò a ridurre le collaborazioni con le industrie tedesche (favorite in particolare dalla Banca Commerciale, la cui dirigenza proprio per questo venne duramente contestata); la Francia poté così condizionare apertamente il dibattito politico italiano. Oltre all’attività del gruppo Ansaldo e delle banche che lo appoggiavano, la Francia finanziò il Popolo d’Italia, giornale fondato da Benito Mussolini, passato su posizioni apertamente interventiste.
Nel momento in cui il mondo industriale si decise per l’intervento e finanziò quindi le forze politiche sostenitrici dell’entrata in guerra, la minoranza nazionalistica riuscì a intimidire e a condizionare in modo sempre più efficace la vita politica. Le conseguenze negative dell’entrata in guerra si videro tutte negli anni successivi alla firma dei trattati di pace. Il colpo di stato di Salandra e Sonnino che, in accordo con l’esercito, avevano ignorato le posizioni prevalenti nella maggioranza dello schieramento parlamentare e nella maggior parte dell’opinione pubblica, condusse a una ulteriore spaccatura che separò sempre più il mondo politico da quello delle masse. Ancora una volta, inoltre, si ignorò l’esigenza profonda del mondo meridionale: non solo gli agricoltori, ma anche gli industriali e i commercianti si resero conto dei danni che avrebbe subito l’agricoltura del Mezzogiorno per l’arresto delle esportazioni di molti prodotti; la guerra, per le esigenze che imponevano ai paesi belligeranti, avrebbe portato benifici soltanto alle attività produttive concentrate nel triangolo industriale. Il ceto contadino era per lo più contrario alla guerra e non capì mai le ragioni per cui gli veniva richiesto un cosi enorme sacrificio sul Carso.
La guerra ebbe l’effetto di radicalizzare tutte i processi e le tendenze allora in atto in Italia, dal clima politico, ai rapporti di lavoro, alla questione meridionale. Alle dimissioni di Salandra, avvenute nel giugno 1916, quando risultò evidente l’impossibilità di una guerra breve, seguì un governo di coalizione nazionale, che comprese gli interventisti democratici ed i cattolici. Non mancarono però i rischi di una dittatura militare, favoriti dai contatti di parte dell’ambiente politico nazionalistico con le più alte gerarchie militari, in particolare il generale Cadorna. Le vicende politiche furono in realtà alterne: dopo i moti di Torino, nel 1917, i socialisti ritentarono una strategia insurrezionale contrapponendosi ai propri dirigenti riformisti; i cattolici cominciarono a porre le basi del futuro Partito Popolare. Con la sconfitta di Caporetto si ricompose invece un clima di unità politica, con tutti gli schieramenti stretti introno ai più alti interessi della nazione. In questo clima le forze interventiste democratiche si trovarono per lo più a fare da spalla ai partiti nazionalistici e a favorire un clima politico antidemocratico.
Dal punto di vista economico, la guerra diede notevoli profitti ai gruppi industriali che avevano favorito la partecipazione dell’Italia al conflitto: l’industria pesante venne particolarmente avvantaggiata, favorita dalle commesse dello Stato che aveva sempre più bisogno di materiale bellico. La guerra risolse temporaneamente molti problemi affacciatisi nel periodo giolittiano in connessione con le crisi recessive del 1907 e del 1913 ma si era trattato di una crescita fittizia, in parte destinata a vanificarsi nella crisi post-bellica. Sicuramente però il mondo industriale approfittò sia del clima autoritario che contraddistingueva l’attività politica sia della possibilità eccezionale di incrementare i profitti: venne usato il pugno di ferro contro le rivendicazioni operaie e i salari diminuirono decisamente.
Le industrie siderurgiche e meccaniche incrementarono di molto i profitti; la Fiat passò, nella graduatoria delle aziende italiane, dal trentesimo al terzo posto; i suoi addetti si decuplicarono, …il suo capitale sociale crebbe di quasi dieci volte. Identico discorso valse per l’Ansaldo. Si svilupparono “rami industriali (chimico e idroelettrico) che si riveleranno decisivi per la seconda industrializzazione del paese e addirittura nacquero produzioni che in precedenza erano sconosciute in Italia e dunque legate all’importazione di prodotti tedeschi e francesi”. Si creò una forte interdipendenza e una concentrazione fra alcuni gruppi bancari e i principali gruppi industriali: “Pochi grandi finanzieri e pochi grandi industriali – ha osservato Caracciolo – di fatto detengono il potere nelle quattro grandi banche, e direttamente o attraverso delegati detengono anche il potere nella immensa schiera delle società industriali, mercantili, marittime, che costituiscono la clientela delle banche e a queste si connettono”.
Dal punto di vista del contrasto Nord\Sud, la guerra non fece altro che aumentare il divario tra le due zone dell’Italia: l’apparato industriale si sviluppò, in quegli anni, intorno ai principali gruppi siderurgico-meccanici concentrati in poche zone del Nord e del Centro Italia. La maggior parte delle risorse dello Stato andavano dunque ad essere investite in quei luoghi, aumentando la disgregazione, gli squilibri sociali, il contrasto fra agricoltura e industria. Inoltre – e sarà questa una pesante eredità per il dopoguerra – dopo la sconfitta di Caporetto, dovuta anche alla disumana disciplina che Cadorna aveva imposto alle truppe, il generale Diaz, per galvanizzare di nuovo i soldati, organizzò una fitta propaganda, nel corso della quale venne promessa una riforma agraria ai soldati contadini e future posizioni di privilegio per le prossime conquiste imperialistiche. L’impossibilità dello stato di mantenere queste promesse avrà – come vedremo – esiti drammatici.
Il dopoguerra italiano fu caratterizzato da un forte conflitto sociale, che diede origine a una serie innumerevole di scioperi nelle industrie e nelle campagne; proruppero inoltre i grandi partiti di massa, coerentemente all’adozione di un sistema elettorale proporzionale. Eppure l’Italia nel dopoguerra non era affatto diretta verso un processo di maggiore democratizzazione. La guerra aveva favorito una forte crescita dell’economia industriale e aveva aumentato le possibilità del mondo economico di condizionare la sfera politica; la borghesia si era fatta meno incline alle concessioni e sempre più ostile alle rivendicazioni operaie e contadine.
Questa tensione si esacerbò alla luce della crisi che, presente un po’ in tutte le nazioni europee, travolse in particolar modo l’Italia dopo la guerra. Le ragioni della crisi furono varie: c’era l’esigenza di riconvertire gli impianti industriali, soprattutto del settore siderurgico, che avevano aumentato di molto la produzione nel periodo bellico e che ora non potevano più beneficiare delle vantaggiose commesse dello Stato. Inoltre la guerra aveva interrotto il flusso migratorio, costringendo al rimpatrio decine di migliaia di emigrati; facendo così venir meno uno dei fattori che durante il periodo giolittiano aveva contribuito in misura rilevante a finanziare il decollo economico italiano in una situazione di relativo equilibrio dei conti con l’estero. Infine si era aggravato il debito estero dell’Italia, che ormai era soprattutto contratto nei confronti degli Stati Uniti.
La prima guerra mondiale aveva sicuramente reso le masse protagoniste, avendo prodotto una mobilitazione non solo al fronte e non solo della popolazione maschile; la manodopera femminile era aumentata, l’esigenza di asservire l’economia all’impegno bellico aveva condotto a un coinvolgimento senza precedenti delle istituzioni e di tutta la popolazione all’evento bellico. Nonostante il crescente autoritarismo, i vertici militari e politici avevano dovuto tenere conto delle esigenze delle masse e fare promesse molto impegnative per assicurarsi un deciso impegno al fronte. Negli anni successivi alla guerra crebbero moltissimo gli iscritti al Partito Socialista e ai sindacati e questo portò a sopravvalutare la possibilità di un’insurrezione rivoluzionaria (sull’onda anche dell’entusiasmo suscitato dalla vittoria dei bolscevichi in Russia). Se l’insurrezione comunque non si verificò, le numerose lotte e gli scioperi furono sufficienti a preoccupare la piccola e grande borghesia; d’altra parte, quelle lotte non avevano più un carattere esclusivamente rivendicativo, ma intendevano porre istanze sovvertitrici dell’ordine esistente. Gli industriali temevano si mettesse in discussione lo stesso diritto di proprietà: così avvenne, per esempio, quando si rivendicò l’imponibile di mano d’opera nel settore agricolo; e così fu, in questo biennio passato alla storia come biennio rosso, con l’occupazione delle fabbriche del settembre 1920.
Il governo che aveva portato l’Italia alla vittoria, guidato da Vittorio Emanuele Orlando, non ebbe il coraggio di ricorrere alle misure di riconversione: non volle aumentare le entrate tributarie né scontentare la borghesia finanziaria. A Orlando successe l’economista e meridionalista Francesco Saverio Nitti, il quale si oppose al moderatismo del suo predecessore e tentò di realizzare riforme più incisive: impose il prezzo politico per i beni di prima necessità, progettò un’imposta sui redditi progressiva e un’imposta straordinaria sul patrimonio. Nitti fu costretto a dimettersi travolto da problemi di ordine pubblico e dall’impresa dannunziana a Fiume.
In questo clima incandescente venne chiamato a un compito di mediazione ancora Giolitti, ormai ottantenne, la cui posizione sfavorevole all’intervento gli procurò in questa fase una notevole rendita politica. Decise di agire ancora una volta secondo criteri riformisti: propose la revisione dei contratti stipulati dallo Stato con le grandi aziende; impose la rigida applicazione dell’imposta sul capitale soprattutto per quanto riguardava le ricchezze mobiliari (tutti i titoli al portatore sarebbero stati perciò trasformati in titoli nominativi); promulgò la confisca dei profitti di guerra e l’aumento delle tasse sulla successione.
Questo programma garantì a Giolitti, in un primo tempo, ampi consensi. Giolitti cercava ancora una volta di coinvolgere in una prospettiva democratica la classe dirigente, chiedendole opportuni atteggiamenti di responsabilità per far fronte alla crisi post bellica, evitando ancora una volta di scaricare tutti i costi sulle masse popolari.
Proprio nel pieno della politica giolittiana, si verificò l’occupazione delle fabbriche, dopo che l’anno precedente erano scoppiate violente rivolte nelle campagne. Gli operai aderenti alla FIOM avevano chiesto sensibili aumenti salariali per il rinnovo contrattuale. Gli industriali si rifiutarono. Era una lotta che scaturiva dal consueto problema dell’Italia post bellica, su chi dovesse caricarsi i maggiori oneri della crisi. I sindacati proclamarono lo sciopero bianco e gli imprenditori risposero con una serrata. Allora gli operai occuparono le fabbriche in tutto il triangolo industriale senza che avvenissero gravi incidenti; gli operai tutelarono le macchine e assunsero le proprie responsabilità nella produzione. Ai vertici delle organizzazioni sindacali si riformò il contrasto fra massimalisti e riformisti, il che produsse una grande confusione ideologica e l’incapacità di comunicare direttive precise al movimento. Fu in quell’occasione che il movimento operaio manifestò tutta la propria insufficienza strategica; l’indecisione fra obiettivi di riforma e strategia rivoluzionaria paralizzò la direzione dello sciopero e fornì l’occasione ai fascisti per riscuotere un decisivo consenso presso l’opinione pubblica moderata.
La situazione fu risolta da Giolitti, con un atto di grande statura politica. Coadiuvato da Turati, mise d’accordo industriali e sindacati: venne fissato un aumento del salario, notevoli miglioramenti in materia di straordinari, ferie annuali. Venne addirittura formulato un decreto-legge, mai applicato, che “costituì una commissione paritetica di rappresentanti industriali e operai, con l’incarico di formulare proposte di legge al governo” per il controllo della gestione amministrativa delle fabbriche.
Al di là del felice esito politico di questa trattativa, la borghesia liberale, la stessa che aveva appoggiato la politica di Giolitti, mostrava sempre maggiore timore nei confronti delle lotte operaie. Oltre ai conservatori, a buona parte della gerarchia ecclesiastica, anche gli assertori del giolittismo cominciarono a preoccuparsi che l’apertura sociale potesse preludere ad una futura azione rivoluzionaria di sinistra. Questo, nonostante la fine pacifica dell’occupazione smentisse di per sé la teoria massimalistica e dimostrò che in Italia non c’era il pericolo della rivoluzione, che la borghesia non era affatto una classe in crisi, che la macchina dello Stato, l’esercito e la polizia erano saldamente nelle mani del governo.