La politica internazionale negli anni ’60
5. La politica internazionale negli anni’60
La distensione: Kruscev, John F. Kennedy, Giovanni XXIII
Gli ultimi focolai di tensione negli anni’50
Col finire del decennio la guerra fredda diede luogo ancora a episodi di forte tensione che però, come vedremo, lasciarono il posto, nei primi anni del decennio successivo, a un clima di maggiore collaborazione e dialogo fra le due superpotenze atomiche che venne chiamato, in modo significativo, distensione.
Il 1957
Un anno molto significativo a questo proposito fu il 1957 quando, con la quasi contemporanea crisi dell’Ungheria e di Suez si comprese come non vi fosse una concreta possibilità di modificare le aree d’influenza che si erano imposte dopo la seconda guerra mondiale.
Kruscev
Fu il processo di destalinizzazione portato avanti da Kruscev a favorire questa modifica delle relazioni internazionali; l’Unione sovietica era in possesso della bomba atomica, aveva un appartato industriale imponente, era il paese di riferimento per un’ampia fascia della popolazione mondiale e, il 12 settembre 1959, inviò addirittura un razzo sulla luna, a indicare la sua straordinaria capacità di evoluzione tecnologica. Piuttosto che continuare un sfida strategico-militare dispendiosa per entrambe le superpotenze, era meglio spostare la competitività sul piano della ricerca e dello sviluppo, per arrivare a una situazione di sempre maggiore pacificazione.
La realtà dell’Unione Sovietica
In realtà Kruscev sapeva che, dal punto di vista del benessere individuale, l’Unione Sovietica si trovava in condizioni d’inferiorità rispetto ai paesi occidentali, come abbiamo già notato citando gli interventi repressivi da lui promossi verso i paesi satelliti; d’altra parte egli sperava di poter effettivamente raggiungere uno sviluppo socio-economico simile a quello dei paesi capitalistici e, a quel punto, godere di un consenso tale da parte della popolazione che portasse a limitare gli interventi repressivi.
Chang Kai-shek e la Cina
Il momento culmine della tensione fra l’URSS e gli USA si ebbe nel settembre 1958 quando, in seguito all’installazione a Formosa di missili con testata atomica per evitare un’eventuale invasione dell’isola guidata da Chang Kai-shek da parte delle truppe comuniste cinesi, Kruscev minacciò di usare le armi atomiche nel caso di un’invasione statunitense della Cina.
La questione di Berlino
Ma il problema più grave per gli stati a governo socialista era la città di Berlino; nel settore Ovest infatti, le potenze occupanti occidentali avevano fatto della città una vera e propria vetrina del capitalismo, la cui ricchezza e abbondanza di merci contrastava con l’aspetto austero e il tenore di vita disagiato della parte orientale della città. A Berlino era prevista, fra l’altro, assoluta libertà di movimento tra i vari settori e lavoratori orientali potevano andare a ovest a lavorare, guadagnando così valuta preziosa. D’altra parte molti, ed era la parte intellettualmente e anagraficamente più attiva della popolazione, ne approfittavano per stabilirsi definitivamente in Occidente, creando forti problemi di stabilità socio-politica alla Repubblica Democratica Tedesca.
La Conferenza su Berlino
Nel maggio 1959, quando già la tensione fra USASS era diminuita grazie a un viaggio del Ministro degli esteri sovietico a Washington, si aprì unaConferenza delle quattro potenze sul problema di Berlino, a Ginevra. La questione era di difficile soluzione, in quanto i paesi socialisti ritenevano le parti della città occupate dalle truppe occidentali un attacco all’integrità territoriale della Repubblica Democratica Tedesca e ritenevano, dunque, che l’intera città dovesse essere annessa allo stato socialista; gli occidentali non avrebbero mai rinunciato alla loro presenza nella regione.
La visita di Kruscev negli Stati Uniti
La conferenza di Ginevra non diede luogo a particolari risultati ma contribuì a svelenire il clima internazionale; nel settembre 1959 il Presidente dell’Unione Sovietica Kruscev si recò addirittura in visita a Washington e, col Presidente degli USA Eisenhower, si accordò per una futura, definitiva e più ampia conferenza su Berlino, da tenersi nel 1960.
Il fallimento della trattativa su Berlino
La conferenza non si tenne a causa dell’abbattimento, da parte sovietica, di un aereo spia americano che aveva violato gli spazi aerei del paese socialista; il clamore dell’evento riacutizzò i rapporti fra i due paesi e fu a proposito di questa questione che Kruscev fece il clamoroso e famoso gesto di, durante una seduta delle Nazioni Unite, togliersi una scarpa e sbatterla con decisione su un banco.
John Fitzgerald Kennedy
Nel novembre 1960 venne eletto quale Presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, appena quarantatreenne; la sua nomina venne salutata dall’opinione pubblica internazionale favorevolmente, in quanto Kennedy, nel suo programma e nei toni della sua campagna elettorale, sembrava voler realizzare un rapporto più disteso con l’Unione Sovietica, evitando le asprezze di un deciso atteggiamento anticomunista, tipico delle amministrazioni precedenti.
Il mito di Kennedy
Anche in seguito alla tragica morte, intorno alla personalità di John F. Kennedy si costituì un vero e proprio mito, teso a individuare nella figura del Presidente americano un protagonista della pace e della tolleranza, ideali bruscamente interrotti dal suo assassinio, in seguito al quale la situazione internazionale si troverà nuovamente invischiata in nuove tensioni.
L’ambiguità della politica kennediana
In realtà solo in parte il mito di Kennedy “protagonista della distensione” corrisponde alla realtà; egli non mancherà di mantenere un atteggiamento di forte sfida nei confronti dell’Unione Sovietica con la quale si arrivò, proprio sotto la sua presidenza, a un passo dalla guerra; e anche nei confronti dell’America latina egli mantenne un atteggiamento poco incline a emancipare, dal punto di vista dell’autonomia economica, i paesi da sempre condizionati, nelle loro scelte politico-economiche, dagli Stati Uniti.
La spedizione della baia dei porci
Nell’aprile 1961 il Presidente Kennedy tentò un’azione di forza contro Cuba, organizzando lo sbarco sull’isola caraibica di un gruppo di esuli cubani, ben equipaggiati dal punto di vista militare. La spedizione fallì e questo portò, oltre a un deterioramento irrisolvibile con Fidel castro, a rendere più tesi i rapporti con l’Unione Sovietica.
Il muro di Berlino
A rendere materialmente visibile la tensione fra i due blocchi vi fu la decisione, presa dai paesi appartenenti al “Patto di Varsavia”, di innalzare un muro fra la zona di Berlino controllata dai sovietici e quelle dove erano presenti le truppe occidentali. L’emigrazione della popolazione orientale nelle zone occidentali aveva ormai assunto dimensioni intollerabili per la Repubblica Democratica Tedesca e, se non fosse stata fermata, avrebbe probabilmente destabilizzato l’intero blocco orientale, mostrando la mancanza di consenso di cui godevano i paesi socialisti.
Il divieto di libera circolazione
Il muro, innalzato nella notte del 13 agosto 1961, impediva la libera circolazione fra la zona orientale e occidentale della città, dividendo all’improvviso fra loro famiglie, affetti, possibilità di lavoro e occupazione. Ciò diede alla città quell’inquietante aspetto che colpiva i visitatori; le stesse vie erano separate da questo invalicabile ostacolo, e quando si provava a passeggiare dall’una o dall’altra parte, pur a pochi metri di differenza, ci si rendeva conto che a fronteggiarsi erano due mondi radicalmente diversi. Questa divisione fu molto rigida per alcuni anni quando, in seguito ad accordi fra i due stati tedeschi, venne regolamentata la possibilità per gli occidentali di recarsi nell’est della Germania.
La visita di Kennedy a Berlino
Nel 1963 Robert Kennedy si recò in visita a Berlino ovest e fu per lui l’occasione per ribadire la superiorità del sistema politico occidentale, rispettoso della libertà personale dei suoi cittadini, nei confronti del dispotismo dei paesi socialisti. In questo conteso egli pronunciò una frase diventata famosa: “io sono un berlinese”.
I missili a Cuba
Ma la crisi più grande che si ebbe tra le due superpotenze avvenne sempre a proposito di Cuba e scoppiò nell’ottobre 1962; gli Stati Uniti scoprirono che nell’isola i sovietici stavano installando dei missili in grado di colpire direttamente il loro territorio. Il Presidente Kennedy decise allora di organizzare il blocco navale dell’isola per impedire che il materiale raggiungesse l’isola, dichiarandosi disponibile a spingere il confronto anche alle conseguenze più estreme.
Il ritiro sovietico
Dopo il minaccioso discorso del Presidente del 22 ottobre, Kruscev decise di ritirare le navi sovietiche in cambio dell’assicurazione che gli Stati uniti non avrebbero più appoggiato spedizioni armate contro Cuba. Ancora una volta l’arma della deterrenza e l’impossibilità di dare luogo a un conflitto armato senza conseguenze catastrofiche per il pianeta permise il raggiungimento di un accordo e mostrò l’impossibilità di intervenire nell’area di influenza della potenza rivale.
L’assassinio di Kennedy
Robert Kennedy venne assassinato a Dallas, in Texas, durante una visita in un attentato che non è stato possibile ricostruire in maniera convincente; venne arrestato il presunto killer, Jack Lee Oswald, il quale però venne ucciso a sua volta nel giro di ventiquattro ore. Sono state fatte svariate ipotesi per questo assassinio alla base del quale ci furono sicuramente ragioni che coinvolgevano i più alti poteri dello stato, dalla politica estera a quella interna, senza però dare risposte convincenti.
Le conseguenze della scomparsa di Kennedy
A Kennedy successe il suo vice, Lyndon Johnson, il quale proseguì, ma addirittura accentuò. Una politica di riforme sociali interne, favorendo una democratizzazione della società e la diffusione di valori liberali che avevano reso famoso il suo predecessore; ma portò anche all’aggravarsi della situazione internazionale e al coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nella guerra in Vietnam, con delle conseguenze drammatiche per la storia americana.
Le riforme di Johnson
La politica sociale del nuovo Presidente si concretizzò in una politica volta a combattere la povertà, per la quale venne stanziato un miliardo di dollari e con una legge sui diritti civili che cercava di venire incontro alle rivendicazioni della popolazione afroamericana, in quanto annullava ogni legislazione che affermasse delle differenze sulla base dell’appartenenza razziale.
Il colpo di stato del 1963 in Vietnam del sud
Come abbiamo già detto, il “mito kennediano” che si diffuse dopo l’assassinio del Presidente americano, tende a sottovalutare le sua responsabilità in merito all’accrescersi della tensione internazionale; fu Kennedy a favorire un sempre maggiore intervento americano a difesa del Vietnam del sud, in appoggio a un governo corrotto e che non aveva il sostegno popolare. Fu per questo che gli Stati Uniti favorirono, il 1° novembre 1963, un colpo di stato nel paese per dare una nuova presentabilità politica al paese e giustificare il loro appoggio militare e finanziario.
I bombardamenti sul nord Vietnam
Johnson, nel proseguire questa politica, rese sempre più numerosa la presenza militare nel sud Vietnam sino a iniziare, nel febbraio 1965 a bombardare il nord Vietnam, considerato responsabile di un atteggiamento aggressivo verso lo stato meridionale. Ciò che colpì l’opinione pubblica internazionale fu il fatto che gli Stati Uniti iniziarono i bombardamenti senza avere dichiarato ufficialmente guerra al paese e, oltre a obiettivi militare, incominciarono a colpire centri abitati.
L’opposizione nel sud Vietnam
D’altra parte nello stesso stato meridionale il ricorso alla guerra non era stato accolto favorevolmente dalla popolazione, sia per il fatto che non si riconosceva in un governo praticamente imposto dalla superpotenza americana, sia perché non era avvertita la ragione di intervenire militarmente contro la stessa popolazione vietnamita. Le proteste più eclatanti, che colpirono oltremodo l’opinione pubblica occidentale, furono quelle di alcuni monaci buddisti che, per protestare contro la guerra, si bruciarono vivi.
L’instabilità nel sud est asiatico
Il motivo di un intervento così massiccio degli Stati Uniti in Vietnam è da spiegarsi in base alla logica della guerra fredda e, in particolare, all’emergere della nuova potenza comunista cinese. Paradossalmente, la rivalità con la Cina si accentuò dopo la tensione nei rapporti cino-sovietici, in quanto la Cina si proponeva di sostituirsi all’URSS nel realizzare l’egemonia sui paesi di recente decolonizzazione.
Le ragioni del dissenso fra URSS e Cina
Nel capitolo precedente abbiamo già accennato ai motivi dell’opposizione cinese al riformismo di Kruscev; d’altra parte la tensione fra le due nazioni comuniste non si allentò nemmeno quando Kruscev venne destituito e Mao Tse-tung diede le dimissioni da presidente della repubblica (pur conservando la carica di presidente del partito). Anzi, la situazione si esasperò quando, nel 1965, l’URSS si rifiutò di condannare l’intervento americano in Vietnam.
Le conseguenze di questa posizione cinese: la rivoluzione culturale
L’occasione di eleggere un nuovo presidente della repubblica al posto di Mao e la posizione di rivalità nei confronti dell’URSS fece emergere dei dissidi all’interno del Partito Comunista cinese di una divergenza di posizioni, che diede luogo a una vera e propria guerra all’interno del partito, nota come rivoluzione culturale.
I caratteri della rivoluzione culturale
La rivoluzione culturale intendeva combattere i “nemici interni” al partito, quindi i revisionisti, i fautori di una politica più morbida con l’Occidente e con l’URSS. Protagoniste ne furono le guardie rosse guidate dal Ministro della difesa Lin Piao, le quali intendevano provvedere al mantenimento della purezza ideologica nel partito. Ci fu quindi un rifiuto di tutta la cultura e la tradizione occidentale, con repressione e umiliazione pubblica di tutti quegli artisti o intellettuali che vi facevano riferimento, costretti magari alla “rieducazione” nel manuale lavoro agricolo..
Bilancio della rivoluzione culturale
All’epoca la rivoluzione culturale, che si protrasse negli anni 1965\’68 infervorò anche i movimenti di protesta giovanile (vd. più avanti); oggi essa però ci appare come una lotta di una fazione del partito contro l’altra, che adottò metodi autoritari e repressivi, portando alla repressione e all’incarcerazione di molti incolpevoli uomini di cultura.
L’opposizione negli USA alla guerra in Vietnam
L’intervento americano in Vietnam, giustificato sulla base di queste tensioni internazionali, trovo una decisa opposizione anche all’interno degli Stati Uniti; nel suo complesso, l’opinione pubblica giudicava eccessivo uno dispendio così ingente di risorse, non controbilanciato dagli effettivi interessi in gioco. D’altra parte, le difficoltà che gli USA incontrarono nel corso della guerra, dovute in parte anche a questo scetticismo dell’opinione pubblica, aumentavano le perplessità.
L’opposizione della popolazione di colore
Proprio in quegli anni gli Stati Uniti furono investiti da una protesta sociale senza precedenti, che trasse molta forza nell’opporsi all’intervento armato in Vietnam; da una parte ci furono le opposizioni organizzate dalla popolazione di colore, che infiammarono molti ghetti delle città statunitensi. Da una parte ci fu l’iniziativa politica e non violenta di Martin Luther King, dall’altra l’utilizzo di forme di lotta violente da parte del Black Panther party.
I movimenti giovanili nei campus universitari
Ci fu in quegli anni anche una generalizzata protesta del mondo giovanile che si manifestò all’interno dei campus universitari, e che costituì un precedente importante per i successivi movimenti di protesta europei. Anche gli studenti concentrarono parte dei loro sforzi di lotta contro la guerra in Vietnam, facendo una sensibile opera di controinformazione presso l’opinione pubblica.
Le dimissioni di Johnson e l’uccisione di Robert Kennedy
In seguito a queste proteste, il Presidente Johnson decise di non ricandidarsi, aprendo in questo modo una campagna per le lezioni presidenziali drammatica, in quanto culminò con l’assassinio di Robert Kennedy, il 5 giugno 1968, fratello di John e fra i favoriti per l’elezione finale. Qualche giorno prima delle dimissioni di Johnson, fra l’altro, era stato ucciso Martin Luther King, inasprendo ulteriormente la tensione sociale.
La presidenza Nixon
I democratici persero le elezioni e venne invece eletto il repubblicano Richard Nixon, che era già stato vice presidente con Eisenhower e che si presentava come il rappresentante della classe moderata, che dall’epoca della presidenza Kennedy non aveva più goduto di particolare visibilità politica.
La normalizzazione del sud est asiatico
Nixon cercò di risolvere il conflitto vietnamita, poiché si accorse di quanto spaccasse il paese l’impegno militare americano nel sud est asiatico. Egli scelse come collaboratore, per questo scopo, Henry Kissinger, professore universitario che divenne segretario di stato.
L’atteggiamento verso il Vietnam
In un primo tempo, Nixon e Kissinger mostrarono un atteggiamento contraddittorio verso la questione vietnamita: da una parte vennero intensificati i bombardamenti in modo assolutamente spietato, non risparmiando neppure la popolazione civile, dall’altra si ritiravano le truppe cercando di organizzare l’esercito sud vietnamita in modo che potesse fronteggiare autonomamente le truppe settentrionali.
La normalizzazione dei rapporti con la Cina
L’amministrazione Nixon intraprese in maniera decisa una politica tesa alle trattative dopo avere normalizzato i rapporti con la Cina, che gli USA di Nixon riconobbero nel febbraio 1972. In Cina, morto Lin Piao, si era esaurita la rivoluzione culturale; a capo del governo c’era un rappresentante moderato della corrente maoista del partito, Chou En-lai, favorevole a una normalizzazione dei rapporti con l’Occidente, anche per approfittare degli oggettivi aiuti che questo poteva portare all’economia cinese.
Le trattative di pace e la sconfitta americana
Gli incontri per giungere alla pace in Vietnam si tennero a Parigi con lunghe pause; si protrassero per molto tempo e vissero delle fasi alterne. Nelmarzo 1973 Nixon annunciò l’intenzione degli Stati Uniti di ritirare le proprie truppe dallo stato asiatico. La guerra però ebbe comunque una fine traumatica per gli USA, in quanto le truppe nord vietnamite riuscirono a sconfinare nel sud del paese e a occupare la capitale Saigon.
Il trauma per gli Stati Uniti
E’ rimasta nell’immaginario di più di una generazione l’immagine dell’ambasciatore degli USA che, avvolta la bandiera sotto il braccio, lascia in elicottero la sede diplomatica, il 30 aprile 1975. Questo evento per gli Stati Uniti (sconfitto da guerriglieri di una piccola nazione) non ebbe solo un peso politico ed economico, ma condizionò la nel profondo culturale la nazione, come testimoniano le numerose opere cinematografiche dedicate a questa guerra.
Le opposte posizioni
Da una parte si criticò l’azione imperialista dell’amministrazione, intenta a negare l’autodeterminazione a un popolo sovrano, dall’altra ci fu una volontà di riprendere la propria coscienza di potenza militare e di superare l’affronto subito, che è possibile individuare nella serie di film (come Rambo, soprattutto nelle versioni successive alla prima) intenti a proporre azioni di riscatto verso l’antico nemico. Per alcuni storici, la guerra del golfo [vd. pag. ] fu l’evento con cui gli Stati Uniti superarono definitivamente questo pesante trauma nazionale.
L’apparente vittoria del comunismo
La sconfitta degli USA in Vietnam coincise con il momento più esaltante del movimento comunista internazionale, che sembrava in quel momento proporsi come vincente per tutti i paesi terzi, subordinato all’egemonia economica dell’Occidente capitalistico. In realtà, da quel momento, le nazioni comunisti non riuscirono più a tenere il passo con i paesi capitalistici e furono percorso sempre più frequentemente da tensioni interne, che portarono alla loro implosione [vd. più avanti] nel 1989.
Il pontificato di Giovanni XXIII
L’importanza del pontificato di Giovanni XXIII
Non si può comprendere il clima di apparente distensione che si registrò all’inizio degli anni ’60 se non considera la svolta che segnò, a livello politico e culturale, il pontificato di Angelo Giuseppe Roncalli, divenuto papa con il nome di Giovanni XXIII. Le speranze che destarono nel mondo le politiche rispettive di Kruscev e Kennedy non possono essere pienamente comprese se non si ricorda come, nello stesso periodo, la personalità del nuovo papa rinnovò radicalmente la cultura della Chiesa.
L’elezione di Giovanni XXIII
Giovanni XXIII fu eletto nuovo pontefice nell’ottobre 1958 a 78 anni; si pensava quindi che, dopo la forte personalità di Pio XII, il nuovo pontefice rappresentasse una fase interlocutoria e di transizione; invece egli, con alcune encicliche di fondamentale importanza e, soprattutto, con l’organizzazione del Concilio Vaticano II, impresse una svolta a tutta la storia mondiale.
Il Concilio Vaticano II
Il primo annuncio del 21° concilio ecumenico (poi noto come Concilio vaticano II), venne fatto dal Papa nell’allocuzione del 25 gennaio 1959. Il concilio si proponeva di rinnovare la vita della Chiesa dal punto di vista ecclesiale e pastorale, di aggiornare alcune posizioni teologiche e, soprattutto, modificare la posizione della Chiesa nei confronti del mondo contemporaneo.
L’apertura agli oppositori storici
In particolare, rispetto al pontificato “militante” di Pio XII, schierato in maniera netta a fianco delle forze politiche cattoliche e ostile contro le forze di sinistra, considerate nemiche, Giovanni XXIII ricerca il dialogo con le forze estranee alla Chiesa e, senza per questo abbracciarne la dottrina, intende valorizzare l’atteggiamento di fratellanza che ogni cristiano deve mantenere con i suoi simili, anche con chi è apparentemente ostile. In questo senso fece scalpore l’udienza che il Papa concesse al genero di Kruscev, Adjubei.
Le quattro sedute del Concilio
Il Concilio vaticano II si tenne dal 1962 al 1965; si concluse quindi dopo la morte di Giovanni XXIII, avvenuta nel 1963.Esso venne scandito da quattro differenti sessioni, alle quali parteciparono anche rappresentanti delle Chiese luterane e ortodosse, per cercare di rinnovare il dialogo con quelle culture cristiane separate da secoli con la Chiesa romana. Questa volontà di reincontro con le altre tradizioni cristiane fu uno dei gesti più alti del pontificato di Giovanni XXIII e dette vita a un atteggiamento culturale ecclesiastico noto col nome di ecumenismo.
Il contributo del Concilio vaticano II alla distensione
Durante il concilio la Chiesa prese delle posizioni che intendevano rinnovare in senso positivo le relazioni internazionali, all’insegna della distensione: un’attenzione particolare venne rivolta ai paesi del terzo mondo, protagonista del movimento di decolonizzazione; venne criticato anche l’equilibrio del terrore e la rincorsa sempre più decisa al riarmo.
Paolo VI
Il Papa che successe a Giovanni XXIII e che concluse il Concilio vaticano II fu Paolo VI. Egli proseguì con coerenza i valori del Concilio, rinnovando la struttura e l’organizzazione della Chiesa, modificando le liturgie, richiamando l’esigenza luterana si un ritorno più autentico alle Scritture. Il pontificato di paolo VI fu protagonista anche di altre successive e fondamentali pagine della storia mondiale e italiana, che richiameremo nei successivi capitoli.
L’Europa
La “quinta repubblica” di De Gaulle
Abbiamo visto come, in seguito alla guerra d’indipendenza dell’Algeria […], in Francia tornò a imporsi la personalità di De Gaulle, il quale riuscì a risolvere brillantemente una crisi, che portò la Francia sull’orlo di una guerra civile. De Gaulle approfittò del suo carisma per riformare sul piano interno la vita politica del paese e porre fine alla continua instabilità dei governi, favorendo una svolta istituzionale accentratrice che diede origine alla cosiddetta quinta repubblica.
Il consenso di De Gaulle
Il suo progetto di costituzione venne approvato con un referendum dall’83% dei francesi il 28 settembre 1958; la riforma costituzionale vera e propria venne approvata, sempre con un referendum, il 28 ottobre 1962 dal 67,7% dei votanti, dopo che, il 28 dicembre 1958, era diventato Presidente della Repubblica con il 78% dei suffragi.
Le riforme di De Gaulle
La riforma della costituzione voluta da De Gaulle mirava ad accentare molto potere nella mani del Presidente della Repubblica; nonostante infatti alcune importanti personalità che si alternarono alla Presidenza del Consiglio (Michel Debré, George Pompidou) la direzione del potere rimase sempre nelle mani del Presidente della repubblica. Questi veniva eletto da un suffragio universale diretto.
Il nazionalismo di De Gaulle
Sul piano internazionale, De Gaulle diede alla politica francese un netto indirizzo nazionalistico, di rivalità con la Gran Bretagna e la Repubblica Federale tedesca. Il veto della Francia impedì, nel 1963 e nel 1967, l’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Economica Europea; la Francia era anche sempre più diffidente nei confronti della NATO, che impediva autonomia all’iniziativa francese e favoriva la crescita economica della Germania.
L’uscita della Francia dalla NATO
Nel marzo 1966 il governo francese annunciò il suo ritiro dall’alleanza militare atlantica e la costituzione di una force de frappe (forza d’urto), dotata di un proprio arsenale atomico. Fra l’altro, nei vari tentativi effettuati negli anni successivi da USA e URSS per cercare di ridurre il proprio potenziale nucleare, una delle difficoltà maggiori, che porteranno spesso al fallimento di questi incontri, fu la richiesta sovietica di includere, nel computo delle armi in dotazione all’Occidente, anche la forza autonoma nucleare francese.
La posizione di autonomia nei confronti degli USA
A confermare la propria intenzione di agire in maniera autonoma per quanto riguardava la politica internazionale, la Francia assunse delle posizioni nettamente distanti da quelle statunitensi: nel 1964 riconobbe la Cina comunista; nei confronti della guerra del Vietnam e verso il conflitto arabo-israeliano […] la Francia differenziò le sue posizioni da quelle del governo degli USA.
La crisi di De Gaulle
Nel 1965 la personalità di De Gaulle aveva perso gran parte del suo consenso, una volta superata la crisi algerina; al primo turno delle presidenziali del 1965 ottenne solo il 37,7% dei voti, e vinse al ballottaggio con il 55% dei suffragi, sconfiggendo Francois Mitterand, che, qualche anno più tardi, avrebbe pure segnato in modo determinate la storia francese. La Francia si preparava a una nuova fase della sua vita politica, caratterizzata in particolare dalle proteste del 1968 [vd….]. Ad indicare il superamento definitivo dell’esperienza gollista vi fu, nel 1973, l’ingresso di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca nella CEE.
La crisi economica in Germania
Negli stessi anni vi fu un periodo di stagnazione economica in Europa, dopo l’espansione dei primi anni ’60, che colpì in particolare la Germania e l’Inghilterra; nella Repubblica Federale Tedesca si arrivò a un governo di grande coalizione, guidato dal democristiano Kurt Kiesinger, al quale parteciparono anche i socialdemocratici. Ministro degli esteri fu Willy Brandt, che ebbe un ruolo notevole nella storia futura della Germania.
La questione irlandese
Una parziale crisi economica colpì anche l’Inghilterra, guidata dal laburista Harold Wilson. In quegli anni ci fu anche un esasperarsi della crisi irlandese, in particolare nell’Irlanda del nord, dove le forze politiche cattoliche, favorevoli all’indipendenza dalla Gran Bretagna, arrivarono quasi a una guerra civile con la popolazione protestante, favorevole all’unione col governo inglese. L’IRA, l’Esercito Repubblicano Irlandese, costituitasi già nel 1919 e fautrice della lotta armata, riprese le sue attività dopo avere deposto una prima volta le armi nel 1962.
Le dittature in Europa
E’ bene ricordare come in quegli anni in Europa, esistessero ancora dittature di tipo fascista risalenti a prima della guerra; in Spagna continuava a dominare il generale Francisco Franco, in Portogallo Antonio Salazar. In questi paesi le condizioni economiche erano di netta inferiorità rispetto alle altre nazioni dell’Europa occidentale, permanendo privilegi di carattere aristocratico ormai scomparsi nelle società industriali; per quanto riguarda i diritti umani, erano spesso violati, attraverso detenzioni per reati d’opinione, torture, condanne capitali.
Il regime dei colonnelli in Grecia
Più grave fu però che un’altra dittatura venne ad aggiungersi in Europa, con il colpo di stato in Grecia realizzato dai militari nell’aprile 1967.Il colpo di stato, detto dei “colonnelli” perché realizzato da due colonnelli dell’esercito, intendeva reagire alla possibile vittoria delle sinistre guidate daGeorgios Papandreu. L’intenzione di quest’ultimo di far uscire la Grecia dalla NATO, fece sì che gli USA favorissero il colpo di stato, permettendo l’imporsi di una dei regimi più feroci della storia del dopoguerra.
Gli effetti del regime dei colonnelli in Italia
La dittatura fascista realizzatasi in Grecia protesse, ancora più della Spagna e del Portogallo, l’eversione di destra in Italia, mantenendo contatti sia con leader dei gruppi illegali sia con i vertici del Movimento Sociale Italiano. Finanziamenti, addestramenti, strategie che videro coinvolti anche i servizi segreti nazionali videro la Grecia come protagonista; il colpo di stato dei colonnelli rappresentò anche una minaccia costante per l’Italia alla fine degli anni ’60, nel pieno delle lotte politiche e sociali.
La destituzione di Kruscev e l’invasione della Cecoslovacchia
La destituzione di Kruscev
Il 14 ottobre 1964 Kruscev venne privato di tutti gli incarichi fino allora ricoperti al vertice dello Stato; questo evento, che fece tornare ai vertici dell’Unione Sovietica un personale politico più incline a una politica di rigido controllo del dibattito sociale, fu un altro degli eventi che, insieme all’assassinio di Kennedy e all’inasprirsi del conflitto in Vietnam, portarono alla fine della distensione e al crollo delle speranze di una convivenza pacifica.
Le cause del dissidio nel PCUS
Per comprendere le ragioni della destituzione di Kruscev, dobbiamo ricordare come egli raggiunse il potere, pochi anni dopo la morte di Stalin [vd. …], in contrasto con il gruppo conservatore legato alla personalità del vecchio dittatore e che avrebbe voluto imporre una politica di continuità (il cosiddetto gruppo antipartito). Queste personalità cercarono sempre di ostacolare il riformismo di Kruscev e approfittarono di alcune difficoltà da questi incontrate in politica estera.
Le sconfitte di Kruscev
Da una parte, con Kruscev, l’URSS inasprì i propri rapporti con altre importanti nazioni comuniste; critiche durissime le vennero dai cinesi e dagli albanesi per l’atteggiamento, a loro parere arrendevole, tenuto dall’Unione Sovietica nei giorni della crisi cubana. A questo si aggiunse il dissenso con la Cina [vd. p. … ] a proposito del Vietnam.
I nuovi padroni dell’URSS
A capo dell’Unione Sovietica ci furono tre principali personalità: Nikolaj Padgornyi, nominato capo dello stato e che fu collaboratore di Kruscev durante gli anni successivi alla morte di Stalin; primo ministro divenne Aleksej Kosygin, politico che invece aveva fatto carriera durante il periodo stalinista e finì in ombra durante la destalinizzazione; e infine Leonid Breznev, nominato nuovo segretario del partito, personaggio sino ad allora ai margini della vita politica ma destinato, negli anni successivi, a diventare l’uomo più importante dell’Unione Sovietica.
L’ideologia di Breznev
Breznev, che concentrerà più avanti su di sé tutti i poteri, sarà a capo dell’URSS sino agli anni ’80. La sua concezione politica fu di assoluto immobilismo; dal punto di vista ideologico, egli affermò che l’URSS non era più uno stato in transizione verso il socialismo, poiché questo era ormai pienamente realizzato. L’azione politica brezneviana fu dunque finalizzata al consolidamento del potere assoluto del partito sulla società e a impedire qualsiasi riforma interna e nei paesi satelliti.
La repressione
Qualsiasi forma di dissidenza venne repressa; soprattutto il mondo della cultura fu particolarmente umiliato e gli artisti che avevano dimostrato discrete capacità nell’epoca krusceviana furono impediti di esprimersi. Ci furono diversi processi che ripresero la triste tradizione staliniana (la personalità di Stalin, del resto, venne gradualmente rivalutata) e emarginazioni all’interno delle diverse corporazioni professionali.
La stagnazione brezneviana
Fu durante il lungo periodo brezneviano che non solo l’URSS ma tutti i paesi socialisti, dopo l’illusione causata dalla sconfitta americana in Vietnam, non riuscirono più a manifestare un adeguato progresso economico e tecnologico, perdendo competitività con i paesi occidentali capitalistici. Non è un caso che l’implosione dei paesi socialisti si verifichi pochi anni dopo la morte di Breznev. Per questa ragione, del resto, il suo periodo di governo viene sintetizzato nell’espressione stagnazione brezneviana.
I rapporti con le democrazie popolari
Già Kruscev [vd. p. …] aveva usato il pugno di ferro in Ungheria contro il tentativo di sottrarsi al dominio sovietico; se però nel periodo krusceviano si favorirono comunque personalità di moderato riformismo nei governi delle democrazie popolari, sperando di colmare in breve tempo il divario con l’Occidente capitalistico e volendo impedire solo un allontanamento di quei paesi dall’alleanza con l’URSS, dopo il 1964 l’intenzione dei sovietici era quella di tornare a una completa sudditanza, con uomini politici e governi locali dipendenti unicamente da Mosca.
Il caso della Cecoslovacchia
Sennonché, durante gli anni di Kruscev, il personale politico nei vari paesi satelliti si era modernizzato, poiché anche qui si realizzò una destalinizzazione, che rivide i terribili processi […] che ci furono negli anni ’50. Fu soprattutto in Cecoslovacchia che il vertice del Partito Comunista prese decisioni di assoluta autonomia, da mettere in discussione l’intero modello sovietico.
Dubcek e Novotny
A capo della Cecoslovacchia era riuscito a rimanere, sia pure con alterne fortune durante il periodo krusceviano, lo stalinista Antonin Novotny, protagonista dei processi negli anni ’50 e attento a reprimere ogni minima apertura, sia pure proposta dai suoi stessi ministri. A Novotny si opponeva la corrente la corrente progressista del partito, guidata dallo slovacco Aleksander Dubcek.
Dubcek segretario del partito
Tra la fine di dicembre 1967 e l’inizio di gennaio 1968, Novotny viene messo in minoranza nel Comitato Centrale del Partito Comunista e costretto a rinunciare alla carica di Presidente del partito per mantenere solo quella, meno rilevante per l’esercizio del potere, di Presidente della Repubblica, dalla quale si dimetterà infatti qualche mese più tardi. Dubcek diventa allora primo segretario del partito e annuncia un programma di vaste riforme.
Le riforme di Dubcek
Il Partito comunista, che venne democratizzato al suo interno, rinunciò al mantenimento esclusivo del potere; fu quindi consentita la costituzione di forze politiche di ispirazione ideologica differente, abolita la censura, liberalizzate tutte le forme di espressione artistica. Questo periodo di straordinarie riforme e di rinascita della coscienza culturale e civile della nazione viene ricordato con l’espressione primavera di Praga.
L’intervento del patto di Varsavia
Gli altri stati comunisti, timorosi di questi sviluppi che contestavano apertamente il sistema politico sovietico, decisero allora l’intervento militare, sulla base di una teoria, elaborata da Leonid Breznev e detta della sovranità limitata¸ secondo la quale i vari paesi satelliti non potevano mutare liberamente il sistema di alleanze. A esclusione delle truppe della Romania, il 31 maggio 1968 le truppe del patto di Varsavia entrano in Cecoslovacchia.
La linea dura dei sovietici
Nonostante la resistenza della popolazione, i carri armati sovietici imposero la resa al nuovo governo; in condizioni ancora non completamente accertate, Dubcek fu portato a Mosca e costretto a cedere alle condizioni volute da Breznev. Nell’aprile 1969 Dubcek venne espulso dal partito e costretto ad abbandonare la vita politica. Il suo posto venne preso da Gustav Husak, che rimase alla guida del paese fin quasi al crollo definitivo della Repubblica socialista, nel 1989.
L’emancipazione dei paesi africani
L’indipendenza delle colonie africane
Abbiamo visto come l’esaltazione creatasi all’interno dello schieramento comunista dopo la vittoria del Vietnam fosse destinata a essere immediatamente smentita dalle tensioni presenti negli stessi paesi socialisti, laddove i successi internazionali non creavano comunque consenso ai vari governi. Tuttavia questo clima internazionale, nel corso degli anni ’60, favorì l’azione autonoma di numerosi paesi del terzo mondo, in particolare dell’Africa, i quali, constata la debolezza dell’Occidente, miravano a sganciarsi dalla sudditanza politica cui da secoli erano soggetti.
L’indipendenza delle colonie africane inglesi
Dal 1957 al 1965 si resero indipendenti molti paesi di dominio britannico: nel 1957 il Ghana, nel 1960 la Nigeria e nel 1961 la Sierra Leone; la Tanzania nacque come stato sovrano nel 1964, dall’unione del Tanganica e di Zanzibar. Questi paesi raggiunsero l’indipendenza in modo relativamente pacifico; più complessa e cruenta fu la lotta del Kenya per ottenere l’indipendenza (raggiunta nel 1963), in quanto il governo britannico approfittò del contrasto fra il Kenya African Union, guidato da Jomo Kenyatta e il movimento religioso dei Mau Mau, avversi a qualunque presenza bianca nel territorio.
La resistenza delle popolazioni bianche
I problemi più difficili per raggiungere l’indipendenza erano posti per lo più dalla popolazione bianca che temeva, con un governo autonomo, di perdere i privilegi sino ad allora garantiti; in Kenya, per esempio, la riforma agraria non ebbe successo perché le terre migliori continuarono a essere possedute dai bianchi e alla fine lo stesso Kenyatta, diventata presidente dello stato, dovette chiamare le stesse truppe inglesi per stroncare una rivolta.
La situazione nell’Africa meridionale
Più grave e decisiva fu però la resistenza delle popolazioni minoritarie bianche nelle regioni meridionali dell’ex Africa britannica; ottennero l’indipendenza il Malawi, lo Zambia (ex Rhodesia del nord) e la Rhodesia del sud. In quest’ultima la minoranza bianca, ottenuta l’indipendenza nel 1965, riuscì a imporre un governo segregazionista sul modello di quello del Sud Africa. Il regime di Apartheid caratterizzò per lungo tempo la Rhodesia verso la quale, come per il Sud Africa, venne attuato un embargo internazionale; la Rhodesia si libero comunque del suo regime razzista prima del Sud Africa, assumendo l’attuale nome di Zimbawe.
La rottura della Rhodesia con la Gran Bretagna
La Gran Bretagna in realtà aveva subordinato l’indipendenza dello stato rhodesiano all’adozione di una legge elettorale favorevole alla popolazione di colore; il capo del governo però, Ian Smith, proclamo unilateralmente l’autonomia da Londra che, appellandosi all’ONU, provocò le sanzioni. La rottura definitiva con la madre patria avvenne nel marzo 1968, quando furono condannati a morte per terrorismo tre uomini di colore, nonostante la grazia concessa loro dalla regina Elisabetta II. La Rhodesia uscì dal Commewealth; le sanzioni però furono blande, in pratica attuate solo dagli altri paesi africani; sostegno attivo arrivò dal Sud Africa e dalle colonie portoghesi dell’Angola e del Monzanbico.
L’indipendenza delle colonie francesi
Il generale De Gaulle, inaugurata la Quinta Repubblica [vd. sopra, p. ], propose alle colonie africane un patto detto sistema di Comunità, che prevedeva una larga autonomia interna e affidava alla madre patria le essenziali questioni di politica economica e militare. A eccezione della Guinea, che preferì scegliere subito la strada dell’indipendenza, gli altri paesi accettarono. In seguito però al continuo processo di decolonizzazione, optarono anche loro, col consenso della Francia, per la completa autonomia politica, economica e militare. Nel giro di pochi anni divennero indipendenti l’Alto Volta, il Camerun, il Ciad, il Congo Francese, la Costa d’Avorio, il Dahomey, il Gabon, il Madagascar, la Mauritania, il Niger, la Repubblica Centroafricana, il Senegal, il Togo.
Le difficoltà dell’indipendenza
In realtà il processo d’indipendenza fu molto faticoso e quasi mai portò la popolazione allo sviluppo inizialmente sperato; la vita politico-economica era troppo integrata e sostenuta dalla madre patria per potere in poco tempo progredire autonomamente. Si mantenne quindi un rapporto economico di sudditanza con i paesi ex dominanti, che favorì gruppi politici ristretti e corrotti. Anche i paesi europei, del resto, favorirono in molti casi il potere di dittatori o militari8 per garantirsi questi rapporti privilegiati.
L’indipendenza del Congo belga
La più drammatica fra le lotte d’indipendenza che caratterizzarono l’Africa in questi anni fu sicuramente quella che avvenne nell’ex Congo belga, che ebbe anche rilevanti ripercussioni sul piano internazionale. Il paese, ricchissimo dal punto di vista minerario, vedeva un conflitto interno fra chi preferiva un’indipendenza che mantenesse un legame con la madre patria, favorendo la compagnia belga della Union Miniére du Haute Katanga e chi invece voleva una definitiva rottura, affidandosi alla protezione dell’Unione Sovietica.
La morte di Hammarskjöld
Scoppiò una guerra civile con la secessione delle province orientali; intervennero le truppe della Nazioni Unite a ristabilire l’unità ma lo stesso Segretario Generale dell’ONU, lo svedese Dag Hammarskjöld, fu vittima di un incidente aereo in circostanze mai chiarite. Dopo quattro anni di guerra civile il potere venne definitivamente preso dalgenerale Mobutu, che sconfisse gli opposti rivali e chiamò il nuovo stato Zaire.
Il governo di Mobutu fu sicuramente uno dei più corrotti della storia dell’Africa e uno dei più dannosi in quanto lo Zaire potrebbe, per le sue risorse, essere un paese ricchissimo. L’ammontare della ricchezza personale di Mobutu era pari al debito dello Stato da lui guidato. Nel corso del 1997una ribellione interna, guidata da ? , ha condotto alla fine del potere di Mobutu, costretto all’esilio; lo Zaire è ritornato all’antico nome di Congo. Purtroppo anche sul nuovo potere pesano numerosi sospetti in merito al rispetto dei diritti umani e probabilmente, anche a quest’ultimo azione non sono state estranei gli interessi delle compagnie minerarie internazionali.
La questione medio orientale
La situazione del medio Oriente negli anni ’60
Nel corso del decennio rimase drammatica la situazione dei rapporti fra Israele e gli stati arabi confinanti; da una parte lo stato ebraico ebbe un prodigioso sviluppo economico, sopravanzando nettamente gli Stati vicini, anche grazie all’appoggio politico ed economico garantitogli dai paesi occidentali; dall’altra i paesi arabi non intendevano praticare alcuna mediazione politica per risolvere il problema della convivenza, negando a Israele lo stesso diritto d’esistenza. Ovviamente, a rendere il problema drammatico rimaneva la irrisolta questione palestinese, costretta vivere in condizioni precarie o in Giordania o nella stessa Israele e privati del loro diritto a uno stato nazionale.
La guerra dei sei giorni
Nel 1967 scoppiò una nuova, decisiva guerra fra i paesi arabi e Israele; protagonista fu il generale Nasser che, nel quadro di una politica orientata la nazionalismo arabo [vd. p.] irrigidì sempre più i rapporti con Israele, stringendo patti militari con i vari paesi arabi. Il 26 maggio l’Egitto esercitò un blocco contro tutte le navi che, dal golfo di Aqaba, si dirigevano verso Israele. Israele reagì immediatamente e nel giro di pochi giorni (questa venne detta guerra dei sei giorni) ebbe ragione su tutti i fronti.
Lo scontro militare
L’esercito egiziano, armato direttamente dall’URSS con armi modernissime, venne comunque annientato dall’azione repentina d’Israele che, su iniziativa del primo ministro Moshe Dayan e del capo dell’esercito, generale Rabin, distrusse tutta l’aviazione egiziana quando si trovava ancora al suolo, acquisendo un predominio assoluto nei cieli. Iniziò quindi un attacco via terra che portò all’occupazione dell’intera penisola egiziana del Sinai e, il giorno 7 giugno, venne raggiunto il canale di Suez.
Gli altri fronti della guerra
Oltre però a difendersi dallo stato aggressore, Israele attaccò su tutti i fronti i paesi arabi confinati che avevano stretto con l’Egitto l’alleanza militare. Fu questa l’azione condotta da Israele durante questa breve guerra maggiormente discussa in sede storica, anche perché in questo modo lo stato ebraico occupò dei territori arabi che diedero inizio a un contenzioso ancora oggi non risolto. La Giordania, attaccata, si vide sottratta la Cisgiordania e la parte orientale di Gerusalemme, occupata totalmente il 7 giugno. Sul fronte siriano gli israeliani occuparono le alture del Golan, che delimitavano il confine fra i due paesi.
L’aggravamento della questione palestinese
Ovviamente, la guerra non risolse affatto i problemi che contrapponevano Israele al mondo arabo; anzi, con l’aumento dei profughi palestinesi e l’occupazione di territori arabi, le tensioni crebbero. Nel 1969 venne fondata l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), guidata daYasser Arafat. Nel suo statuto l’OLP si poneva come fine la nascita di uno stato sovrano palestinese, successivo alla distruzione dello stato ebraico.
La risoluzione 242 dell’ONU
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite cercò di risolvere pacificamente il conflitto, ribadendo, con la risoluzione 242, da una parte il diritto all’esistenza d’Israele, dall’altra il ritiro immediati dai territori occupati con la guerra dei sei giorni. Questa risoluzione, votata nel 1967 all’indomani della guerra, venne in un primo tempo ignorata da Israele, per essere ufficialmente respinta all’indomani dell’azione terroristica alle Olimpiadi di Monaco del 1972.
Il terrorismo palestinese
L’organizzazione palestinese, per rendere efficaci le sue azioni e acquistare notorietà a livello internazionale alla causa della Palestina, iniziò una politica di atti terroristici, condotti dai suoi componenti militari, detti feddayin. Frequenti furono i dirottamenti aerei, tentativi di forzare i confini israeliani, che provocavano immediatamente ritorsioni, quasi sempre bombardamenti degli stati confinanti. Una delle azioni più drammatiche e sconvolgenti fu sicuramente la presa in ostaggio di atleti israeliani nel villaggio olimpico di Monaco di Baviera,. Dopo un tentativo della polizia, mai definitivamente ricostruito, di liberare gli ostaggio. Sia i terroristi sia gli atleti finirono uccisi.
Settembre nero
Le violenze subite dai profughi palestinesi non vennero però solo dagli israeliani; l’OLP aveva la sua base in Giordania e questo provocava, dopo ogni attacco, bombardamenti israeliani ai danni di questa nazione. Re Hussein di Giordania, costrinse allora i miliziani palestinesi a spostarsi in Libano, compiendo nel 1970 un feroce massacro dei profughi palestinesi, tristemente noto come settembre nero.
I rapporti attuali fra OLP e Israele
Per molti anni l’OLP, i cui membri erano diplomaticamente accreditati in molti stati occidentali, fu considerato fuorilegge in Israele e gli stessi cittadini israeliani erano condannati qualora, anche all’estero, avessero contatto con membri dell’organizzazione palestinese. Da alcuni anni però [vd. più avanti, p.] l’OLP. Che ha corretto il suo statuto accettando l’esistenza dello stato israeliano, e l’OLP hanno stretto un accordo politico, che prevede la presenza stessa di Arafat in parte dei territori occupati cui Israele ha concesso l’autonomia.
Sadat e la nuova guerra con Israele
Nel 1970 Nasser e morì e venne sostituito da Anwar al-Sadat, destinato in futuro ad assumere posizioni moderate e a stringere un importante accordo con Israele. Nel 1973 però, vista l’intransigenza israeliana nel rispettare la risoluzione 242 dell’ONU, egli organizzò una nuova offensiva contro lo stato ebraico, che iniziò il 6 ottobre, giorno festivo in Israele. L’Egitto, che inizialmente riuscì a guadagnare posizioni, venne poi sconfitto nel giro di circa venti giorni.
L’embargo petrolifero
L’azione egiziana ebbe l’appoggio di tutti i paesi arabi i quali, per colpire l’Occidente, colpevole ai loro occhi di difendere in modo unilaterale le posizioni di Israele, attuarono un embargo petrolifero, che causò problemi ai paesi industrialmente avanzati. Anche dopo che l’embargo cessò, i paesi arabi attuarono una politica di rialzo dei prezzi del petrolio con l’intenzione di condizionare sia la politica dei paesi occidentali, sia di concordare i profitti con le principali compagnie petrolifere.
L’affermarsi di dittature in America latina
La politica di Johnson verso l’America latina
Come si è già ricordato, la pur illuminata amministrazione Kennedy, preoccupata per gli esiti della rivoluzione cubana, non aveva esitato a mantenere un rigido controllo sulla vita politica ed economica verso le nazioni del centro e sud America, rafforzando il controllo delle loro risorse da parte delle compagnie nord americane. La politica del successore Johnson confermò questa linea e anzi, per certi versi, la rafforzò, favorendo colpi di stato militari che garantissero la repressione di qualsiasi movimento riformatore.
L’arretratezza economica dell’America latina
La costituzione di governi democratici e riformatori sembrava l’unica via di uscita, alla fine degli anni ’50, per realizzare un’uscita da una arretratezza economica strutturale; qualsiasi riforma, però, non poteva che contrastare gli interessi delle grandi compagnie internazionali, le quali gestivano, in particolare, sia l’ettività agricola sia, soprattutto, lo sfruttamento delle risorse minerarie. In agricoltura, per esempio, imponevano monoculture (il caffè, le banane) che impedivano ai paesi di realizzare condizioni economiche di sussistenza.
I vantaggi per i latifondisti
Gli unici rappresentanti sociali che traevano vantaggi da questa situazione erano i latifondisti, percentuale esigua della popolazione che detenevano, però, la quasi totalità della ricchezza nazionale; poiché la svendita degli interessi dell’economia locale era alla base della loro ricchezza, essi si opponevano a qualsiasi, seppur debole, tentativo di riforma. E, d’accordo quasi sempre con le amministrazioni statunitensi, appoggiavano colpi di stato gestiti, nella totalità dei casi, dai militari.
Negli ultimi anni degli anni ’50 in Brasile erano state realizzate riforme da parte del presidente Juscelino Kubitschek, che elaborò un piano di sviluppo economico che, pur accentuando il controllo nazionale sull’economia, non entrava in contrasto con gli interessi stranieri; dopo la breeve presidenza di Janio Quadros, gli subentrò, nel 1961, Joao Goulart, il quale accelerò l’iter delle riforme e permise ai comunisti di avere accesso alle varie forme di organizzazione politica ed economica; promosse inoltre, attraverso riforme costituzionali, il controllo nazionale sulle riserve petrolifere e l’espropriazione delle terre incolte. Fu l’esercito allora, guidato dal generale Castelo Branco, a realizzare un colpo di stato (31 marzo 1964) e a obbligare il presidente alla fuga.
I colpi di stato in Argentina, Bolivia e Perù
Situazioni analoghe si verificarono in altri stati sud americani. Anche l’Argentina aveva conosciuto, dalla fine degli anni ’50, un periodo riformatore, grazie ai presidenti radicali Arturo Frondizi e Arturo Illia, quest’ultimo deposto, attraverso un colpo di stato, nel 1966. In Bolivia, nel 1964, fu il generale Barrientos a prendere nelle sue mani il potere, mentre in Perù i militari si impadronirono del governo nel 1968.
L’importanza dell’esperienza cubana
E’ probabile che soluzioni politiche così drastiche non si sarebbero verificate senza l’esperienza cubana, che proponeva un modello alternativo di sviluppo tale da intimorire e la potenza statunitense e i militari e latifondisti latino-americani. D’altra parte il governo cubano, dopo il trionfo della rivoluzione e il fallimento della spedizione nella baia dei porci, si proponeva esplicitamente come modello per tutte le forze rivoluzionarie del terzo mondo, non solo latino-americano ma anche africano.
La conferenza del 1966 e Ernesto “Che” Guevara
Un invito esplicito in questo senso si ebbe alla Conferenza tricontinentale (con rappresentanti rivoluzionari dei tre continenti del terzo mondo: Asia, Africa e America latina), tenuta nella capitale cubana nel 1966. A organizzare quest’attività fu il principale eroe della rivoluzione cubana, Ernesto Guevara, detto il “Che”, il quale, prima come rappresentante del governo cubano, in seguito proprio come capo militare-rivoluzionario, diede il suo contributo alla lotta. Dapprima in Congo, quindi in Bolivia, dove troverà la morte ucciso dall’esercito di Barrierntos, appoggiato dagli Stati Uniti.
I movimenti rivoluzionari americani e quelli studenteschi europei
In occasione dei movimenti sociali che interessarono l’Europa nel biennio 1968/’69 [vd. prossimo capitolo], alcuni movimenti rivoluzionari dell’America latina, divennero un simbolo della lotta contro il potere e, nei loro confronti, si sviluppò una notevole solidarietà internazionale; ciò non condusse però i governi latino-americani a usare sistemi più miti nei confronti dei suoi oppositori. In Uruguay, il movimento guerrigliero deiTupamaros venne stroncato da un colpo di stato militare nel 1972.
Il massacro di Città del Messico
Più scalpore fece la repressione di una manifestazione studentesca che si ebbe a Città del Messico nel 1968, a piazza delle Tre Culture. Gli studenti protestavano contro l’organizzazione delle Olimpiadi, che intendeva mostrare un’immagine del Messico sviluppata che non corrispondeva alla misera realtà sociale del paese. La polizia intervenne con estrema durezza, causando anche alcuni morti.