Cavour e Mazzini
(pp. F329/F333 del Manuale: Scipione-Guarracino, La conoscenza storica, vol. 2, ed. Bruno Mondadori)
Queste due letture vanno lette congiuntamente, in ragione del ruolo ricoperto dalle due personalità nel corso del risorgimento italiano. Si ricorderà come la realizzazione dell’unità italiana, dovuta alla geniale attività diplomatica dello statista piemontese, avesse relegato in una situazione di marginalità il rivoluzionario Mazzini, i cui moti non erano mai riusciti a scatenare, come era nei programmi delle organizzazioni mazziniane, un’insurrezione nazionale.
Eppure, nonostante il pessimo bilancio che si può riferire ai moti mazziniani, l’azione teorica e politica di Mazzini ebbe un’incidenza decisamente più rilevante di quella che appare dai risultati effettivi dell’azione insurrezionale che a lui si richiamava. Secondo alcuni, addirittura, fu proprio la propaganda mazziniana a facilitare l’azione diplomatica del Cavour che, paventando a Napoleone III il pericolo di uno stato confinante repubblicano, lo costrinse ad accettare l’integrazione delle legazioni prima, l’annessione dell’Italia meridionale poi. Se non si trattò di una predeterminata alleanza, pure le opposte azioni di Cavour e Mazzini, agirono, in un certo senso, con una logica complementare, dando entrambe il proprio contributo alla realizzazione effettiva dell’unità nazionale.
Il discorso di Cavour riprende in modo sintetico la linea politica adottata dopo le pesanti sconfitte del 1849; l’alternativa che si presentava al governo era quella di 1) accettare la sconfitta e cercare unicamente di sviluppare lo Stato regionale del Piemonte, oppure 2) ricercare pazientemente di realizzare l’unità d’Italia non più per via militare ma per via diplomatica.
Affinché quest’ultima strada –quella perseguita da Cavour- si realizzasse, il Piemonte doveva procedere a una liberalizzazione della politica, avvicinandosi agli standard degli altri Paesi europei. Si chiariscono qui le due principali direttive della linea politica di Cavour:
1)l’adesione alla modernità liberale dell’Inghilterra, attraverso una modernizzazione che facesse progredire il Paese senza mettere in discussione l’ordine sociale;
2)l’avversione per il socialismo.
Cavour ricorda la guerra di Crimea quale significativo passaggio per compiere questo progresso politico; lo scopo vero di quella partecipazione, in un territorio verso il quale l’Italia era assolutamente indifferente, era quello di “accrescere la fama in cui la Sardegna era tenuta, e di acquistare nuovi diritti per propugnare nel seno dei Congressi europei la causa d’Italia”.
Molto interessante è la successiva citazione della Giovine Italia, definita setta, nei confronti della quale Cavour usa inizialmente un tono comprensivo, quasi a giustificare una scelta radicale dovuta alla frustrazione dei tempi e all’ingiustizia riservata all’Italia, Ne constata il fallimento durante il 1848, quando parte dei suoi membri sfiduciati, passarono alla causa monarchica (effettivamente questo avvenne, ma soprattutto nel decennio successivo).
Subito dopo, però, parte un attacco durissimo a uno dei protagonisti del nostro Risorgimento, accusato di esercitare il terrorismo, quasi a voler istericamente rimediare alla avvenuta perdita di consenso. Gli accenti usati (“questa perversa dottrina” e altri che trovate nel testo) sono molto duri.
Questa valutazione può sembrare strana a noi, abituati a considerare le due personalità quali figure positive della nostra storia nazionale, e a vedere intitolate loro strade le più rilevanti della città, spesso contigue. Quasi a voler mostrare come quel giudizio fosse in realtà strumentale ad una mossa politica successiva, Cavour sembra voler approfittare delle sue aspre espressioni proprio per rilanciare la sua attività diplomatica verso Napoleone III; si mostra infatti preoccupato che tale dottrina trova “nella penisola un terreno in certo modo preparato a riceverla”. Da una parte c’è la sincera convinzione di Cavour nel considerare l’azione di Mazzini pregiudizievole per il raggiungimento dell’unità d’Italia, dall’altra, però, noi sappiamo che questa sua preoccupazione egli la fece genialmente valere nei suoi contatti con Napoleone III.
La risposta di Mazzini, contenuta della lettura successiva, è altrettanto aspra. L’argomentazione è chiara e ricorda, nella logica, alcune polemiche che pure si sono svolte in tempi a noi vicini. Cavour è un calunniatore e colui che egli chiama criminali sono in realtà martiri (Ruffini, i f.lli Pisacane – e la storia sembra avergli dato ragione, se teniamo sempre presenti le titolazioni delle nostre strade); di conseguenza Cavour e un calunniatore e l’accusa di terrorismo strumentale. [Bisogna però dire che già a Parigi, durante la Conferenza di Pace per la Crimea, pur appoggiando la causa italiana, si era espressa esecrazione per i moti mazziniani che causavano la morte di così tanti giovani].
L’accusa di Cavour è strumentale e riprende la consueta prassi di dichiarare terrorista chiunque si opponga con la violenza all’oppressione. Segue una importante riflessione politica-morale sulla legittimità dell’uso della violenza in politica, che si ripropone spesso nel dibattito politico (nel 1987, in un dibattito parlamentare sulla questione palestinese, l’onorevole Craxi citò proprio Mazzini per legittimare, in alcune condizioni, il ricorso alla lotta armata).
Mazzini si dichiara assolutamente rispettoso della vita umana e, a questo proposito, dichiara la propria contrarietà alla pena di morte. Ma il principio del rispetto della vita non può valere per la difesa della patria o nella lotta contro la tirannia. Ritorna quindi la nozione di «popolo» mazziniana, intesa come comunità coesa avente una missione da realizzare, cui la stessa vita dei singoli può essere sacrificata.
Al di là di queste affermazioni di principio, la lettura contiene un passo più sfumato e interessante, quando Mazzini considera la politica del governo D’Azeglio, citato nella precedente lettura da Cavour. Ebbene, l’azione positiva di quel governo poté avere successo grazie comunque all’azione di quei martiri che, sacrificando le loro vite, posero le condizioni per cui quell’azione riformatrice andò a buon fine. In altre parole, nella considerazione positiva in cui si teneva in Europa la causa italiana, il sacrificio dei mazziniani ebbe comunque il suo peso.
Ecco dunque che, in entrambe le letture, al di là di una evidente e aspra contrapposizione, torna la consapevolezza della complementarietà delle due azioni politiche, laddove la stessa azione di Cavour avrebbe avuto meno successo senza la potente spinta dell’organizzazione di Mazzini. Si ripresenta così, negli scritti dei due, quella teoria storiografica che interpreta le due personalità come decisive e complementari entrambe per la riuscita del nostro risorgimento.
Segue la parte più concitata dello scritto, dove Mazzini esalta i progressi compiuti dalla classe operaia (nonostante la sua decisa critica al socialismo) e la diffusione nazionalista tra le masse; tutti soggetti non considerati dalla politica monarchica e che sviluppano ostilità verso di essa. C’è anche pèrò un’accusa politica precisa: i Repubblicani desiderano l’unità d’Italia, la casa reale un’estensione dei propri domini. Torna la fondamentale discriminante mazziniana tra Repubblica e Monarchia: la prima capace di rappresentare realmente gli interessi del popolo, la seconda invece subordinata alla preoccupazione della dinastia reale di conservare se stessa. Quindi l’opzione decisamente democratica: raggiunta l’unità nazionale il popolo dovrà scegliere liberamente quale forma politica adottare, per non riprodurre in Italia la tipologia dei governi assoluti.