15
Nov
2006

Sinossi «Apologia di Socrate»

Riassunto dello scritto platonico, in vista della rappresentazione a scuola dello stesso

Apologia di Socrate

Il testo si compone di tre parti.
Parte Prima (capp. 1-24)
E’ la più estesa. In essa Socrate pronuncia il proprio discorso di difesa, che fa seguito al discorso degli accusatori. Inizia ricordando che l’accusa riprende vecchie dicerie e maldicenze, secondo le quali egli sarebbe stato uno studioso di fenomeni naturali ed un sofista, capace di far apparire migliori le cause peggiori: dunque un ateo e un corruttore dei giovani. Socrate si dichiara completamente estraneo a questo tipo di ricerche e spiega in altro modo l’ostilità nei suoi confronti, nata già da molto tempo. Egli si dedica da anni, infatti, ad investigare sulla presunta sapienza degli uomini politici, dei poeti, degli artigiani, di tutti i cittadini insomma.
Perché fa questo? Perché un oracolo di Apollo, a Delfi, lo ha indicato come il più sapiente degli uomini: egli intende dunque verificare il senso della affermazione del dio, poiché in coscienza non si sente affatto sapiente. Da questo esame, protratto negli anni, è emerso che molti credono di sapere, ma in realtà non sanno: allora la sapienza autentica, di cui Socrate è interprete secondo l’oracolo della divinità, consiste nella consapevolezza della propria ignoranza. Questa sua attività ha attirato da un lato molti giovani, soprattutto appartenenti alle famiglie più ricche, desiderosi di imparare da Socrate; dall’altro ha fatto nascere profonda ostilità nei suoi confronti da parte di coloro che si sentono smascherati da lui.
Socrate passa dunque ad esaminare dettagliatamente l’accusa presentata dai suoi accusatori, Anito, Meleto e Licone: «Socrate è colpevole, sia perché corrompe i giovani sia perché non crede negli dei in cui crede la città, ma in altre divinità nuove». Si tratta di una gravissima accusa di asébeia (empietà).
Un secco scambio di battute tra Socrate e Meleto, fatto di stringenti domande e risposte necessariamente obbligate, mostra poi che le accuse di empietà e di corruzione dei giovani sono una « montatura », frutto dell’odio per l’attività che Socrate svolge al servizio del dio ed in piena coerenza con la propria coscienza.
Socrate, fedele alla propria coscienza morale, insiste molto sulla coerenza del proprio comportamento: sia quando ha servito la patria in armi, non abbandonando mai il suo posto, sia quando, anche correndo gravi rischi personali, ha sempre rispettato le leggi pur nel mutare dei regimi politici. Non è mai stato un maestro, come i sofisti, e per questo è vissuto in povertà, al servizio del dio per compiere una missione utilissima alla città.
In ultimo, per coerenza con la propria figura di uomo moralmente integerrimo, Socrate rifiuta di seguire l’abitudine diffusa nei tribunali ateniesi di impietosire i giudici con scene di pianto e di disperazione: in un processo è di fondamentale importanza il rispetto della dignità di se stesso e della città.
Parte Seconda (capp. 25-28)
E’ il discorso pronunciato da Socrate dopo che i giudici hanno emesso il verdetto di condanna e si apprestano a votare sulla pena da infliggergli. Come vuole la procedura legale, Socrate deve proporre per sé una pena, mentre i suoi accusatori hanno proposto la pena di morte. Afferma di ritenersi un benefattore della patria e perciò, invece di una pena, egli merita di essere mantenuto nel Pritaneo, a spese della pólis, per potere attendere alla propria missione divina.
Comunque non andrà in esilio, come forse tutti si aspettano, perché non può rinunciare a ciò che ritiene bene né nella propria città né altrove. Ricordando, in ultimo, la propria povertà dichiara di non potere proporre una pena pecuniaria, a meno che i giudici non accettino di multarlo per la piccolissima cifra di cui può disporre. Poi, in seguito all’offerta di accettino alcuni suoi seguaci, tra cui Platone, propone una multa di trenta mine, del cui pagamento un gruppo di presenti si fa garante.
Parte terza
Socrate è stato condannato a morte, ma non viene ancora condotto via. Nel poco tempo che rimane egli dialoga ancora, prima con coloro che hanno votato contro di lui, poi con coloro che gli sono stati favorevoli. Socrate osserva che la condanna non è stata causata dalla mancanza di argomenti per la difesa, ma dal non aver voluto perdere la sua dignità tentando di impietosire i giudici, come sono soliti fare gli accusatori. Egli predice che la sua condanna sarà sfruttata dai nemici della città, che la accuseranno del crimine commesso contro il filosofo.
Il tema della morte, poi, che a tratti ritorna nell’Apologia, domina le ultime parole del filosofo. Per un uomo che ha sempre vissuto rettamente la morte non può essere un male: nessuno sa cosa ci attende oltre la morte, ma Socrate proclama la sua speranza in una vita futura. L’Apologia si chiude con le parole: “Ma ormai è tempo di andare, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada ad una sorte migliore, nessuno lo sa, tranne la divinità”.