Milano e la musica contemporanea
Da L’Acropoli n°1 febbraio 2003 (anno IV), pp.114-117
Considerazioni sulla stagione autunno 2002 di Milano Musica Milano e la musica contemporanea
L’autunno milanese ha ospitato, come ormai si ripete da anni, il consueto ciclo di concerti dedicato alla musica contemporanea, organizzato dall’associazione Milano Musica. Questa rassegna è riuscita nell’ultimo decennio a ritagliare uno spazio significativo, quantomeno stagionale, a tale repertorio, che una volta in città prevedeva un’intera stagione concertistica.
Uno dei punti di forza qualificanti la manifestazione è l’essere concepita quale occasione di studio e di approfondimento su tematiche di volta in volta differenti che riguardano il comporre musica nel nostro tempo. E’ proprio tale formula, tesa a valorizzare un approccio critico e a presentare le singole composizioni all’interno di un contesto che ne favorisce la ricezione, ad avere permesso negli anni il consolidarsi della rassegna, con una partecipazione di pubblico adeguata e, in alcune occasioni, molto alta. L’appuntamento di Milano Musica è così riuscito a diventare punto di riferimento nella vita musicale italiana, come dimostrano da una parte la disponibilità data alla manifestazione dai migliori interpreti e dall’altra le sempre più frequenti commissioni di composizioni originali; anche la pubblicazione di cataloghi, soprattutto quando le rassegne rivestono carattere monografico, fanno di questo avvenimento un riferimento indispensabile per lo studio o l’approfondimento di molti autori. Inoltre, la trasmissione della quasi totalità dei concerti sul terzo canale radiofonico nazionale (ha fatto eccezione solo il primo, peraltro eccellente, di Maurizio Pollini) ha reso possibile a tutti gli appassionati d’Italia seguire la manifestazione.
La rassegna presenta ad anni alterni un programma monografico ed uno di carattere più generale. In attesa dell’importante appuntamento del 2003, quando protagonista sarà il compositore ungherese György Ligeti, l’ultimo ciclo di concerti è stato dedicato alla musica italiana della seconda metà del XX secolo. Poche volte in precedenza, nelle rassegne generaliste, si è riusciti a coordinare un programma così coerente, teso a individuare un contesto comune a differenti itinerari di ricerca. Spesso infatti, anche per motivi contingenti, la manifestazione presentava un andamento più episodico, che rivelava un progetto complessivo poco chiaro.
L’intento de “Il pensiero e l’espressione”, come recita il titolo proposto quest’anno, era quello da una parte di stilare un bilancio estetico degli ultimi cinquanta anni di attività compositiva in Italia, dall’altra di rendere conto della molteplicità di riferimenti culturali che animano i compositori dell’ultima generazione; pluralità che tende a distinguere l’attuale situazione da quella prevalente circa un ventennio fa.
Questo sguardo panoramico, però, è stato offerto, con scelta saggia, nel solco della continuità, evitando una lettura connotata ideologicamente e tesa a contrapporre fra loro le diverse convinzioni estetiche ed evidenziando, invece, un itinerario storico che, pur nel variare delle situazioni, rende comprensibile l’evoluzione che ha caratterizzato la musica contemporanea italiana in questi anni. I concerti hanno previsto dunque un accostamento tra materiali ormai adeguatamente valorizzati dal giudizio critico e nuove proposte, in alcuni casi commissionate per l’occasione.
Tale impostazione mi sembra abbia contribuito ad acquisire una valutazione oggetto di discussione in tempi recenti: la musica contemporanea italiana – anche nel momento in cui si pone problemi relativi alla ricerca di una comunicabilità più spontanea con il pubblico, o quando cerca motivi di ispirazione in territori sonori maldestramente snobbati in un suo passato storico abbastanza recente – è lontana anni luce da quell’atteggiamento distruttivo che aveva dominato a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, teso a ribadire la necessità di un “nuovo inizio”, che facesse terra bruciata delle esperienze precedenti. Anche le ricerche più distanti dai presupposti stilistici allora diffusi, non possono comunque giustificarsi se non riconoscendo il legame storico con quella tradizione.
A tal fine il programma prevedeva il confronto fra quattro diversi momenti della ricerca musicale del ‘900: il repertorio che potremmo definire “classico”, punto di partenza irrinunciabile di tutta la ricerca contemporanea; da Debussy, Schönberg e Webern, a Stravinskij, Bartok, Berg e Varese, tutti presenti con opere, opportunamente selezionate, che contenevano più di altre elementi essenziali nel determinare il futuro musicale del Novecento, anticipando le diverse scelte poetiche del variegato panorama musicale italiano. Erano poi presenti le figure centrali dell’avanguardia italiana: Luigi Nono, Giacomo Manzoni (al quale è stata dedicata un’intera serata in occasione del suo settantesimo compleanno), Luciano Berio, Franco Donatoni, Salvatore Sciarrino e Niccolo Castiglioni, ricordato con la videoproiezione di una sua intervista.
Altro riferimento indispensabile, per fornire un adeguato quadro storico della ricerca musicale nel nostro paese, è stato l’inserimento nei programmi di autori appartenenti alla generazione precedente quella appena citata, quali Giorgio Federico Ghedini, della cui importanza già aveva detto l’allievo Luciano Berio, ma cui non era stata dedicata una adeguata attenzione critica, e Luigi Dallapiccola. Personalità che con cautela si erano allontanate dal diatonismo classico, ma nello stesso tempo avevano combattuto con energia qualsiasi deriva neoclassica in Italia.
Solo attraverso un confronto approfondito con questo repertorio – tale l’intenzione vincente della rassegna di quest’anno – è stato possibile contestualizzare l’ampio panorama dell’offerta musicale degli anni più recenti, diversificata ma non per questo disordinata, che avverte il proprio legame con il passato più o meno vicino, ma nello stesso si sente più libera nel confrontarsi con realtà estranee al mondo accademico. Oltretutto, la rassegna ha avuto anche il merito di prevedere riferimenti ad altre iniziative nazionali, le quali (tutte raggiungibili via etere) hanno contribuito ancora di più a favorire la valutazione critica. E’ il caso di Adriano Guarnieri che, su commissione di Milano Musica, ha presentato una nuova versione di …Grido ai miei occhi Sarajevo, con l’intenzione di ricontestualizzare il contenuto drammatico della composizione originale alla luce di un presente che non sembra avere conosciuto evoluzioni rispetto alla situazione di allora. Se il brano originale, infatti, coglieva nel dramma – acuito dalla asperità dei linguaggi – la tragica novità che la violenza a Sarajevo rappresentava per la coscienza europea del secondo dopoguerra, la riproposizione del brano avviene nella consapevolezza che tale nuova dimensione distruttiva, piuttosto che suscitare un atteggiamento di rigetto, si è esteso a tutte le altre situazioni di crisi internazionali, nella quasi assuefazione della sensibilità pubblica. Sulla base di tali valutazioni (precisate dall’autore nell’intervista concessa durante la serata) si comprende la scelta di realizzare una composizione priva di sviluppo, caratterizzata da scelte timbriche violente e sferzanti aggrovigliate intorno a una singola sonorità, capace di creare una sorta di violento moto centripeto il quale però non riesce a svilupparsi , mostrando un empasse tragico senza vie d’uscita. La dimensione della salvezza, a dire il vero, non è affatto assente, ma è occultata, come se fosse preda di oblio: si tratta del Preludio in mi bemolle maggiore dal Clavicembalo ben temperato di Bach che, pur non essendo riconoscibile, fonda la struttura geometrica da cui scaturisce l’intera composizione.
Alcuni giorni dopo, al Teatro La Fenice di Venezia veniva presentata l’ultima opera di Adriano Guarnieri, Medea, che oltre a interrogarsi su un aspetto fondamentale della natura umana al centro anche della composizione ascoltata a Milano, presentava un originale e stimolante lavoro di accostamento di materiale audio video (per farsene un’idea è possibile consultare il sito www.teatrolafenice.it). Tale incontro fra le arti – ben lontano però dalla giustapposizione ben poco significante teorizzata dall’estetica post moderna – rappresenta forse la direzione di ricerca più diffusa in questi anni. Lo ha testimoniato l’ultima serata della rassegna milanese, che presentava composizioni cameristiche di Salvatore Sciarrino, rielaborate attraverso una efficace manipolazione elettronica dall’artista britannico “Scanner”, abituato a frequentazioni molto diverse sia per quanto riguarda gli ambienti (per lo più discoteche), sia per quanto riguarda il repertorio musicale (musica techno); tale rielaborazione sonora era sottolineata dalla videoproiezione di immagini realizzate dal D-Fuse, gruppo di designer che da tempo hanno imposto la loro presenza nell’ambiente dell’arte visuale. Sciarrino, proponendo questo incontro artistico, non ha inteso sacrificare la propria caratteristica espressività e la consueta radicale ricerca timbrica a contesti ritmici o compositivi più tradizionali, ma ha colto nella manipolazione sonora realizzata da Scanner solitamente su altro tipo di repertorio una direzione di ricerca capace di contribuire efficacemente a una esplorazione profonda del suo stesso mondo sonoro.
I risultati sono chiaramente sperimentali e, forse, da alcuni punti di vista, inferiori alle attese; ma l’atteggiamento del compositore non è quello di programmare un risultato, quanto di valutare lui stesso al momento l’effetto di una contaminazione che non è più di sua responsabilità ma che viene totalmente affidata nelle mani di artista dalla formazione visibilmente eterogenea; con la differenza che Scanner non si pone nel ruolo di semplice interprete, ma interviene esplicitamente sui brani realizzando una sorta di ricomposizione.
Un caso analogo di confronto con universi sonori eterogenei è stato proposto dalla composizione Professor Bad Trip di Fausto Romitelli, che già dall’organico (chitarra e basso elettrici, flauto, clarinetto in si bemolle, tromba in do e quartetto d’archi), volge lo sguardo ad altre esperienze di più agevole tradizione comunicativa. Eppure il rammarico dell’autore per essere suo malgrado un compositore colto (espressamente dichiarato nell’intervista concessa a Radiotre), non lo porta a dissolvere banalmente il linguaggio su cui si è formato, ma a rinnovare la ricerca musicale tenendo conto dell’esigenza di liberarsi da impostazioni ritenute troppo anguste.
Gli esempi citati sono dunque emblematici del nuovo orizzonte culturale che caratterizza la musica contemporanea italiana oggi; un pluralismo espressivo che prescinde da dogmi stilistici o da rigide posizioni estetiche per allargarsi alla totalità della ricerca musicale e valorizzare nel contempo quella che è una tradizione consolidata, nel solco della quale ci si inserisce. Tutte le altre composizioni ascoltate durante la rassegna potrebbero essere tranquillamente inserite nel quadro di questa valutazione: da quelle di Luca Francesconi a Stefano Gervasoni, Giuseppe Soccio o Fabio Vacchi. Alcune dichiarazioni rilasciate proprio da Vacchi, sembrerebbero in parte smentire la presente analisi; l’autore tiene a sottolineare il superamento di una situazione storica (gli anni ’70), nella quale si riteneva emarginato e da cui, a suo dire, “la ricerca musicale successiva si è definitivamente liberata”. In realtà, tali considerazioni, più che valere effettivamente quali giudizio estetico sul recente passato della musica italiana, sono importanti per comprendere la personale poetica del compositore (che ha presentato a Milano il suo Quartetto per archi n°3, originariamente commissionato per il Quartetto di Tokyo), e collocarlo all’interno di quella situazione plurale (ma non confusionaria e incoerente) che abbiamo descritto.
La stessa rassegna, considerata nel suo insieme, ci sembra abbia smentito l’oggettività di tale lettura storica: le composizioni di Berio, Castiglioni, Kurtag, Donatoni, Manzoni non mostravano una frattura con le proposte odierne, ma anzi ne permettevano in molti casi una più lucida comprensione.
Persino i brani di compositori ormai classici (Strawinsky e Webern fra tutti) in questo contesto mostravano la loro capacità di incidere ancora direttamente sul gesto compositivo: da una parte la Histoire de Soldat strawinskiana, dove la sperimentazione si fonda su un organico estremamente ristretto e apparentemente improbabile [violino, contrabbasso, clarinetto, fagotto, trombetta, trombone e percussioni] e prevede una intelligente apertura alla tradizione afroamericana; dall’altra l’essenzialità weberniana, la cui austerità è ispiratrice sia del quartetto di Vacchi sia, per paradossale contrapposizione, del magma sonoro proposto da Guarnieri o Romitelli.
Altro momento storico imprescindibile per la ricerca italiana che la rassegna ha inteso proporre – con notevole merito, dal momento che in ambito critico non ha forse ancora ricevuto adeguata attenzione – è quello rappresentato da Giorgio Federico Ghedini, il cui Concerto spirituale, su testi di Jacopone da Todi, pone un legame diretto tra la ricerca musicale del ‘900 e l’origine della stessa tradizione musicale occidentale (l’epoca tardomedievale e rinascimentale), indicando strategie di percorso comuni a molti altri autori. Ai vecchi appassionati ha ricordato una straordinaria rassegna organizzata nel 1989 a Milano (quando ancora c’era la possibilità economica e culturale di realizzare simili incontri) dedicata a Bruno Maderna, dove ogni concerto era in realtà doppio: nella prima parte si affrontava il repertorio contemporaneo, nella seconda si andava proprio alle prime testimonianze musicali conosciute, in base a un’affinità compositiva e strumentale che risultava illuminante. A conferma che il modello vincente per presentare in modo adeguato la musica contemporanea e creare interesse nel pubblico, sta proprio nel calarla in una dimensione storica che ne renda più comprensibile la proposta poetica.
Tale impostazione ci sembra abbia caratterizzato anche il primo, straordinario concerto di Maurizio Pollini, dove l’alternarsi fra i grandi autori del primo Novecento e una delle personalità italiane più importanti del secolo scorso (il concerto prevedeva brani di Arnold Schönberg, Luigi Nono, Anton Webern e Claude Debussy) metteva bene in evidenza un legame storico e uno sviluppo poetico e stilistico dal quale nessuna ricerca oggi può prescindere e che nessuna demagogica riscrittura della storia musicale potrà mai delegittimare.