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Nov
2006

Iannis Xenakis, l’emozione dell’insensibilità

Da L’Acropoli, n°2 marzo/2006
Il compositore greco Iannis Xenakis (1922-2001) occupa un posto particolarissimo nella storia della musica del Novecento. Definirne la poetica è stimolante non solo per la qualità della sua produzione artistica, ma perché l’analisi della sua musica obbliga lo studioso a un significativo lavoro di revisione storica: la posizione apparentemente isolata occupata dal compositore contiene infatti una serie di intrecci e di rimandi –in alcuni casi sorprendenti e inaspettati- in grado di produrre significative riflessioni sui problemi che apparivano più urgenti ai musicisti del secondo dopoguerra, i quali ipotizzarono soluzioni tra loro alternative.

L’occasione di una recente rassegna a lui dedicata[1] ha permesso di cogliere con maggiore lucidità la collocazione di Xenakis in quel complesso periodo successivo alla rivoluzione seriale; una riflessione condotta su quegli anni che tenga conto di tutti i tentativi che allora ci furono di rinnovare il linguaggio musicale –molteplici, anche se alcuni misconosciuti, in quanto estranei a un atteggiamento all’epoca dominante che produceva ingiuste sottovalutazioni in ambito critico- è un’esigenza avvertita ai nostri giorni, anche per valutare con più accortezza la qualità delle opere recenti –felicemente dissimili -, e stabilire la loro capacità di reggere alla prova del tempo. Alcune nuove composizioni, al di là del giudizio immediato sulla qualità del brano, esigono di essere analizzate secondo un’adeguata prospettiva storica: non più quella dualistica, che contrappone l’avanguardia post seriale a un atteggiamento di totale rifiuto di quell’esperienza, auspicando un nuovo inizio che, piuttosto di ricollegarsi alla novità linguistica novecentesca, indietreggi fino a precedere la svolta schönberghiana; ma consapevole delle alternative che già allora si confrontarono e che tutte sono in grado, nel proporre soluzioni diverse a problemi comuni, di suggerire nuove prospettive di ricerca.

Una ricostruzione storica realizzata con il giusto distacco dalla vis polemica imperante in quegli anni, non permette però solo una più adeguata comprensione degli sviluppi recenti della musica contemporanea. Favorisce anche il processo inverso: le ricerche dei nostri giorni, ponendosi come sviluppi di un confronto musicologico che allora vide contrapporsi grandi personalità della composizione, permettono –in un modo allora non percepibile-, una disamina di quel passato decisamente più esaustiva.

1. Una fondazione scientifica della musica
E’ facile collocare Xenakis nel contesto musicale del secondo Novecento, occupando il musicista una posizione anomala, conseguenza della sua originale critica alla dodecafonia. Egli non si è limitato –come fecero altri compositori, parzialmente ai margini della ricerca allora più diffusa- a prendere le distanze dal dogmatismo che, agli inizi degli anni ’50, pervadeva l’ambiente di Darmstadt, dominato da un’impostazione formalistico-strutturale che impediva al compositore il controllo sulla materia sonora. Non ha denunciato semplicemente una degenerazione cui aveva condotto l’adesione incondizionata al serialismo, ma è andato alla radice del problema, definendo non opportuna la rivoluzione musicale avviata da Schönberg e dalla scuola di Vienna.

L’eccezionalità di questa posizione sta nel fatto che, solitamente, le prese di posizione avverse alla dodecafonia tendono a respingerne gli esiti acustici, delegittimando qualsiasi ricerca che si allontana in modo radicale dal diatonismo. L’intenzione di Xenakis invece non è quella di criticare esiti compositivi di particolare asprezza, ma di mettere in dubbio l’effettiva razionalità di una scelta linguistica il cui prodotto finale genera un’irrisolvibile contraddizione tra le intenzioni e gli esiti.

Egli considera sì il serialismo un errore storico, ma condivide con i “viennesi” la necessità di una rivoluzione linguistica in musica, e non ritiene affatto che il compositore debba temere l’eventuale difficoltà di ricezione della nuova musica da parte del pubblico. Non può essere questa una ragione che impedisce l’esplorazione di nuovi linguaggi. Xenakis sembra piuttosto ritenere il serialismo una occasione mancata, un’impostazione elaborata in modo personalistico, senza interrogarsi sui presupposti teorici più corretti cui un linguaggio musicale intenzionato a ridiscutere le proprie basi linguistiche deve riferirsi.

La tesi sostenuta da Xenakis è che la riforma del sistema tonale, divenuta a un certo punto indispensabile, doveva basarsi su altri criteri che non quelli della dodecafonia; la scelta della serie di dodici suoni proposta da Schönberg non ha, agli occhi del compositore greco, alcuna base teorica convincente, ma è frutto di pura arbitrarietà. Si tratta di una riserva per certi versi simile a quella che Kant propose nella Critica della ragion pura nei confronti di Aristotele: il filosofo tedesco era infatti giunto alla conclusione che solo le categorie erano lo strumento logico-formale capace di sintetizzare il molteplice in vista della produzione di un giudizio; notava però che le categorie aristoteliche non erano coerenti con il rigore analitico che intendevano stabilire: il filosofo greco non aveva principi certi di riferimento e, se alcune delle sue categorie indubbiamente facevano riferimento a corretti presupposti logici, altre erano derivate da pure impressioni empiriche (il motus) o dalla sensibilità (quando, ubi,situs, prius).

Xenakis, in un contesto diverso, esprime la stessa perplessità: la formulazione del nuovo linguaggio musicale non può derivare dal puro arbitrio, espressione di un approccio intuitivo le cui radici risalgono al romanticismo tedesco[2], ma deve trovare fondamento su principi oggettivi, legati alla razionalità logico matematica: «Sostenevo inoltre che se Schönberg nel momento in cui metteva in discussione il suo sistema tonale, fosse stato al corrente di quello che produceva il pensiero scientifico, avrebbe introdotto il calcolo delle probabilità invece di comporre la serie. Vale a dire avrebbe affermato l’indipendenza dei dodici suoni ma in maniera totale creando la musica stocastica»[3]. Come si evince in modo netto da questa citazione, la necessità di realizzare l’indipendenza dei dodici suoni –e quindi di abbandonare ogni forma di tonalismo- è perseguita con eguale intensità da Xenakis come dai compositori della scuola di Vienna. Si tratta in questo caso di fondare il nuovo linguaggio musicale su parametri logico-matematici. Sulla reale possibilità di questo tentativo è lo stesso compositore a interrogarsi: «si possono adattare alla musica discorsi di tipo logico, dimostrativo? Inevitabilmente ho dovuto studiare la logica simbolica e mi sono basato sulla teoria degli insiemi. Inseguendo un’analogia di metodo ho impiegato la definizione di “musica simbolica”, ricalcata su quella delle “matematiche simboliche” del diciannovesimo secolo, che cercavano di sottrarsi alla presa della parola. Una tendenza sostenuta da Poincoiré ma anche da Peano e dai matematici del circolo di Palermo. Di quella tendenza mi attraeva il desiderio di sostituire alle parole le formule e mi chiesi se quel progetto di matematizzare la scienza non poteva essere applicato anche alla musica. Per quella via si poteva giungere all’essenza stessa della musica. La musica è in fondo un discorso di manifestazione dell’essere, ma le conseguenze di quel discorso appartengono all’ascoltatore»[4].

Quando Xenakis propone le proprie riserve sulla tradizione della musica seriale, pubblicando il fondamentale saggio intitolato La crisi della musica seriale[5], egli aveva presente l’estremismo con cui essa era stata interpretata dalle avanguardie europee degli anni 50 e che avrebbe, di lì a poco, condotto a una crisi dalle eclatanti conseguenze. In particolare, Xenakis aveva in mente quella deriva dogmatica caratterizzata dall’assolutizzazione della pura struttura; questa a suo parere si era verificata perché il riferimento strutturale, la serie dei dodici suoni, era arbitrario, non garantito da alcunché; la sua condivisione non poteva che ricordare un atto di fede. Fondare invece il nuovo linguaggio sui presupposti della matematica e della logica formale, voleva dire individuare un riferimento oggettivo, costantemente verificabile e aggiornabile con il progredire della ricerca, sottoposto al libero confronto del dibattito scientifico, che non avrebbe dato esito ad alcun irrigidimento.

Se tale valutazione può apparire coerente, resta però da valutarne l’impatto sul piano compositivo, cioè –come ha scritto bene Xenakis alla fine del passo citato in precedenza- sull’orecchio dell’ascoltatore. Anche in questo caso il compositore ritiene di offrire al suo ragionamento decisive argomentazioni probanti. Nel passo forse più noto e più citato del suo saggio[6] Xenakis fa notare che le intenzioni teoriche dei compositori seriali, decisive nel condizionare la scrittura musicale, non possono essere in quanto tali percepite dal pubblico; si ha in pratica la contraddizione di una scrittura polifonica –dovuta alla contemporaneità dei diversi suoni componenti la serie- che non viene percepita come tale da chi ascolta. Viceversa una composizione fondata sulla probabilità e sul calcolo combinatorio consente una indipendenza totale delle note –non più nella successione coatta della serie- o di gruppi di note che permette la loro identificazione da parte dell’ascoltatore, recidendo quella discontinuità tra chi compone e chi ascolta[7].

E’ evidente che Xenakis non rifiuta le ragioni della rivoluzione seriale, ma intende realizzarle meglio, in modo più coerente: anch’egli, da un certo punto di vista, è un formalista, nel senso che vuole evidenziare la razionalità della struttura, quindi dei rapporti tra i suoni, evitando qualsiasi degenerazione soggettivistica o, come dice Xenakis, sentimentale. La musica è –come abbiamo letto- «manifestazione dell’essere»»; questa convinzione parmenidea si realizza nell’evidenziare la razionalità dell’essere stesso, possibile solo grazie ai riferimenti logico-matematici. Tale razionalità non può darsi nell’espressione individuale che, sulla base di urgenze espressive, pretende di fare a meno del rigore linguistico.[8]

2. Xenakis e la critica
Non è un caso che, a partire da queste premesse, la critica musicale ha privilegiato analisi strettamente tecniche, per individuare questa corrispondenza tra i principi logico-matematici oggetto di studio in Xenakis e l’applicazione pratica degli stessi nella scrittura musicale. Altri studi hanno approfondito l’attività di Xenakis architetto –in particolare la sua collaborazione con Le Corbusier- per valutarne un’eventuale condizionamento sull’attività compositiva; tentativo tutt’altro che velleitario, in quanto il compositore ha coscientemente ricercato la spazializzazione del suono, proponendo rimandi tra progetti e composizioni. In ultimo, gli studi su Xenakis hanno fatto riferimento alle vicende biografiche e al periodo della formazione, nella convinzione che l’avventurosa biografia del personaggio ha contribuito in modo sensibile alla sua poetica.

Questa pluralità di analisi è utile nel momento in cui viene fatta interagire, ovvero quando non si considerino le diverse impostazioni le uniche capaci di penetrare l’intenzione poetica dell’autore. Si può così evitare l’effetto paralizzante che potrebbe suscitare la pura riflessione scientista, per affrontare un tema decisamente più impegnativo. Ovvero quello del luogo in cui una tecnica compositiva, dipendente dalla razionalità matematica e fondata sulla visibilità dei progetti grafici, trae ispirazione. Se la tecnica relativa alla concezione del suono e alla sua organizzazione è infatti il primo dato da tenere presente per accostarsi a un brano musicale, essa rimane solo un mezzo finalizzato alla produzione poetica che, per concretizzarsi in progetto creativo, deve trovare una fonte d’ispirazione esterna.

Questa relazione tra la struttura oggettiva e l’inevitabile invadenza del proposito soggettivo non sempre appare negli studi dedicati al compositore greco: vi sono letture parziali che –sia pure feconde per la comprensione di determinate composizioni – non sono in grado di rendere conto della produzione complessiva di Xenakis. L’ambivalenza tra la ricerca di una struttura razionale che –come abbiamo detto- riprende un’esigenza già propria del serialismo, e la libertà creativa del compositore è invece presente nelle riflessioni di Xenakis, il quale non ha mai ridotto a dogma le proprie convinzioni teoriche; lo hanno fatto invece alcuni dei suoi critici, i quali si sono lanciati in una sterile corsa a scoprire le contraddizioni rispetto ai principi –ricercando una rivincita rispetto alle accuse mosse da Xenakis alla musica seriale-[9], oppure hanno impostato tutta la loro analisi sull’evidenziazione di elementi strutturali in modo esaustivo -quasi come se in mancanza di una solida preparazione matematica fosse impossibile apprezzare l’opera di Xenakis-, perdendo di vista la tensione che nel compositore greco è sempre presente tra l’oggettività del suono e l’esigenza di esprimere attraverso di esso un contenuto concettuale di assoluta singolarità, non certo identificabile col sentimentalismo romantico, ma comunque testimonianza di una forte tensione personale

Conviene partire dal risultato concreto, sonoro, della musica di Xenakis; e valutare gli sviluppi che hanno interessato la sua poetica nel corso degli anni. Ne emerge un quadro in base al quale, pur non smentendo il relativo isolamento in cui l’approccio del compositore greco si è venuto a trovare, la musica di Xenakis converge nelle sua intenzioni con quella di altri compositori che pure hanno motivato la loro scrittura musicale su in modo affatto diverso.

L’attuale situazione di grande varietà della musica contemporanea –pur nella mancanza di qualche personalità che sappia emergere con particolare evidenza- consente un approccio storico decisamente più soddisfacente, capace di non lasciarsi irretire dalle divisioni in “scuole” che, spesso in modo artificioso, creavano steccati tra musicisti. L’esigenza di una forte identità che emergeva negli anni ’50 rimane un presupposto culturale per giudicare correttamente la musica di quegli anni, ma non possiede un’oggettività capace di resistere a un onesto sguardo retrospettivo.

3. La libertà nella struttura
Quando Xenakis formula la sua critica al serialismo ha chiaramente presenti gli esperimenti dell’immediato dopoguerra, l’estremismo formalista i cui limiti, in realtà, sarebbero presto stati evidenziati dagli stessi protagonisti (Boulez e Stockhausen, per esempio). «Negli anni in cui fervevano le manipolazioni seriali due cose veramente importanti si sarebbero dovute fare: integrare il vero aleatorismo, vale a dire il calcolo delle probabilità, nella composizione e affrontare in maniera diversa il problema delle strutture. Il contrappunto era una struttura troppo debole, occorreva quindi trovarne altre, e io ho lavorato proprio in questa direzione»[10].

Abbiamo già visto come, secondo Xenakis, il calcolo delle probabilità permetta di elaborare la struttura in modo non arbitrario. Tale struttura, che Xenakis descrive avendo presente l’esperienza architettonica, rende ancora meno visibile la presenza del soggetto, ma riesce, paradossalmente, a garantire l’imprevedibilità creativa molto meglio delle serie “casuale” dei viennesi; i concetti di “libertà” e di “simmetria” vanno intesi nel loro corretto senso scientifico, alla luce del calcolo probabilistico, e non assunti in modo ingenuo a partire da un atto puramente intuitivo: «Dopo anni di studio mi sono accorto però che anche le probabilità, quelle che dovrebbero darci l’aleatorio, l’imprevedibile, il non simmetrico, si fondano in realtà su una simmetria, perché c’è una formula che le definisce: la formula di Poisson o quella di Cauchy, per esempio. Non esiste dunque quella libertà totale alla quale il termine asimmetria sembrerebbe alludere»[11].

La struttura musicale non è quindi concepita per negare la progettazione imprevedibile del compositore, ma per consentirgli una libertà autentica, quella realmente possibile nell’universo fisico e non quella ingenua, soggettivistica, i cui esiti conducono alla drastica separazione tra l’esperienza della composizione e quella dell’ascolto. Una libertà che non tiene conto dei limiti fisici, diventa dunque vuota, perché il gesto libero non può essere inteso da chi sta all’altro capo della comunicazione.

Non c’è in Xenakis un dominio della logica tale da negare la fattività della concreta azione compositiva e il contributo dato alla stessa dall’individualità psichica. Il compositore deve avere presente la relazione profonda tra matematica ed essere, tra il principio razionale logico e la realtà della fusis; egli però intende riprodurre questa realtà attraverso libere aggregazioni, coese in una struttura definita, attraverso il calcolo delle probabilità, ma comunque organizzate da una ispirazione individuale.

Qual è il risultato sonoro di tale impostazione? Un privilegiare le masse sonore, gli aggregati nei quali però le diverse parti, contrariamente a quanto accadeva nella “polifonia seriale”, sono facilmente riconoscibli. La presenza di gruppi materiali che si incrociano, si ammassano, si disperdono, si fondono, è un dato di immediata evidenza nelle composizioni di Xenakis[12]. Da qui la categoria di materialismo, la più utile per comprendere l’idea di suono di Xenakis e coglierne la posizione nel panorama della musica del secondo Novecento. Un materialismo, però, che ha le proprie radici nel pensiero greco antico, più volte rivendicato non solo come fonte d’ispirazione, ma come tradizione di ricerca verso la quale Xenakis ha dimostrato sempre un assoluto interesse.
4. Gli ascendenti musicali
Le considerazioni appena proposte individuano immediati ascendenti di Xenakis, che permettono di spiegarne la singolare poetica. Innanzitutto –ed è il nome più citato dagli studi critici- Edgar Varèse, per alcune affinità nel modo di concepire e di trattare il suono. In particolare, per l’attenzione alla ricerca timbrica e ritmica; la concretezza materiale del suono è elemento prioritario nel loro lavoro rispetto alla stessa scrittura: questa deve far emergere la ricchezza timbrica e non utilizzarla esclusivamente per evidenziare una trama. La funzione del ritmo in questo senso –e in Varèse, in particolare, l’uso delle percussioni- è proprio quella, distruttiva da una parte, di disgregare il protagonismo della frase musicale, dall’altra di accentuare la forza, l’energia del suono, in sé sufficiente a connotare una composizione. Xenakis propone una medesima ricerca, sia pure realizzata con modalità diverse, che lo conducono in genere a sottolineare più la distanza con Varèse[13]: «Di Varèse mi riesce più difficile definire nettamente l’apporto, ma quello che ritengo in lui più importante è l’avere concepito un’evoluzione sonora che punta essenzialmente sull’elemento timbrico, sospendendo le funzioni tradizionali della polifonia e dell’armonia».[14]

L’altro evidente riferimento intellettuale è Bela Bartok, soprattutto per i modi di trattare le masse sonore; in questo caso, l’affinità è data da una ricerca timbrica e strumentale comune, che tende a privilegiare la sezione degli archi, e dalla presenza in entrambi di figure musicali violente, quasi esplosioni improvvise di suono. In entrambi tale manipolazione del materiale sonoro si origina anche a partire da studi sulla tradizione folklorika e popolare, soprattutto balcanica.

Gli elementi comuni con Bartok conducono a individuare una somiglianza tra la sensibilità di Xenakis e quella del compositore ungherese György Ligeti, i cui presupposti teorici sono, apparentemente, molto diversi. Anche in quel caso le fonti di ispirazione primarie furono Bartok e in parte lo stesso Varèse, per un risultato sonoro che –pur differente all’ascolto- si comprende derivare da identici presupposti, alternativi al post serialismo di Darmstadt.

Se infatti si prendono in considerazione alcune formulazioni linguistiche che descrivono la musica di Xenakis –almeno la sua prima produzione- (blocchi sonori i cui elementi interni sono sottoposti a continue dinamiche che pongono relazioni sempre diverse tra le parti, riconoscibili, che compongono l’insieme, il quale subisce così nel tempo modifiche sostanziali), esse sembrano sovrapponibili alla materia musicale cui Ligeti ha dato forma negli stessi anni. E’ chiaro che, all’ascolto, le differenze risultano nette: da una parte si ha l’impressione di blocchi di materia spessi, che si spostano trascinando tutta la loro massa e facendo sentire la loro gravità, dall’altra –Ligeti- si ha un’immagine di staticità apparente dove la variazione, che coinvolge poi il tutto, è corpuscolare[15].

Decisivo poi è stato l’incontro, appena arrivato a Parigi, con Olivier Messiaen, un altro padre storico della musica del Novecento ad occupare una posizione anomala rispetto alla scuola di Vienna. Egli fu il primo –insieme al grande direttore d’orchestra Hermann Scherchen- a credere nelle capacità dell’allora giovane compositore e a concedergli di frequentare i propri corsi al conservatorio. Anche da Messiaen Xenakis riprende l’impostazione per blocchi sonori e apprende l’importanza dell’osservazione naturalistica, che lo convince della fondamentale identità tra razionalità logico-matematica e natura; solo in questi limiti può darsi un corretto linguaggio, anche quello musicale.

Per Xenakis dunque si dimostra vera la riflessione storica che traccia una divisione tra i compositori contemporanei che hanno agito nell’eredità della scuola di Vienna e quelli che si sono ispirati alle esperienze di Varèse, Bartok, Messiaen.[16]

5. La rigidità della critica

Il lavoro di scavo sulle molteplici fonti di ispirazione di Xenakis è già stato svolto in numerosi studi in modo convincente e sufficientemente approfondito. Dopo avere però chiaramente individuato la collocazione storica di Xenakis e avere precisato i fondamenti della sua poetica, è bene prenderne le distanze. Non per riproporre vecchie contrapposizioni, ma per impedire un atteggiamento, che sarebbe altrettanto astorico, di adesione incondizionata all’idea di Xenakis –cedendo alla autorevolezza scientista delle sue argomentazioni- per negare la validità degli altri approcci.

Questa riflessione potrebbe apparire datata ai nostri giorni, dove è accettata di fatto la compresenza di pluralità di soluzioni espressive e dove appaiono pesantemente riduttivi gli atteggiamenti isolazionisti ed elitari di alcune esperienze post belliche. Diventa però urgente per reagire al tentativo opposto, ancora piuttosto diffuso che, in ragione degli evidenti limiti della riflessione dell’avanguardia dell’immediato dopoguerra, pretende con un’operazione antitetica ma complementare di azzerare la qualità di tutta la produzione di allora, sulla base dell’infondatezza teorica che ne è presupposto.

Per opporsi a tale deriva –e per considerarle le argomentazioni di Xenakis sì utili per interpretare la sua opera, ma non l’unico possibile codice linguistico- è utile riferirsi a un illuminante saggio di Massimo Mila che, già nel 1960, illustrava in modo mirabile il corretto atteggiamento da tenersi sia nell’esperienza dell’ascolto, sia in quella della successiva ricostruzione storiografica: «Può darsi benissimo che al compositore, oggi, per esprimersi in maniera valida sia necessario riconoscere ed attuare le leggi intrinseche che governano la struttura della materia sonora. Purché, appunto, al travaglio di questo volontario assoggettamento al determinismo della materia si riconosca una funzione meramente strumentale: di lì oggi si deve passare perché la musica continui a vivere quale è sempre stata, come una manifestazione dell’uomo, e naturalmente dell’uomo di oggi, manifestazione dotata di autenticità specifica e di originalità […] Invece la realizzazione delle leggi che governano la struttura del materiale sonoro ha spesso l’aria di volersi imporre come fine a se stessa, e pretende di esaurire per intero la natura stessa e i fini della musica, di una “nuova musica” che sarebbe sostanzialmente diversa, per una brusca frattura, da quella svoltasi fino a ieri. Come se oggi, nella composizione musicale, non ci fosse più posto per l’iniziativa dell’uomo».[17]

La posizione di Mila appare profondamente umanistica, ribadendo come la valutazione estetica debba riguardare il risultato del processo creativo, interpretato sì rispetto ai principi che ne hanno determinato la nascita, ma considerando gli stessi solo un presupposto, a partire dal quale è compito puramente dell’artista realizzare un’espressione che sia esteticamente significativa. E’ possibile che, in determinate fasi storiche, tali principi costitutivi siano comuni, ovvero reputati necessari dalla quasi totalità della comunità intellettuale, ma solo in relazione all’unico risultato del singolo prodotto compositivo.

Queste valutazioni sono estremamente positive per comprendere in profondità Xenakis, per diverse ragioni. Innanzitutto perché –ed è la conseguenza più scontata- è dimostrata l’originalità e l’eguale statura di un percorso che ha rifiutato l’estetica dominante e si è posto volutamente ai margini; dall’altra per assumere una distanza dalle stesse dichiarazioni programmatiche del compositore greco e prenderle in esame solo nella misura in cui permettono una più agevole comprensione della sua opera, senza assumerla come una alternativa assoluta e, in qualche modo, essa stessa necessitante per gli altri artisti.

Spesso l’analisi musicologica dell’opera di Xenakis ha assunto un atteggiamento rigido: analizzando in dettaglio i rimandi strutturali tra i riferimenti matematici alla base di alcune opere e le stesse composizioni. Lavoro ovvio e necessario ma –è bene ribadirlo- non esaustivo; sembra quasi, in alcune letture, che in mancanza di una simile alfabetizzazione scientifica sia impossibile apprezzare tale produzione musicale, col risultato di porre l’ascoltatore in una posizione di soggezione –creando nuove e indesiderabili steccati e allontanando ancora di più il pubblico dalla conoscenza della musica contemporanea- laddove la musica di Xenakis possiede un immediato potere di coinvolgimento. Si tratta di un atteggiamento avversato dallo stesso compositore il quale ha fornito un’interpretazione umanistica della sua visione della musica, accostandola a tematiche etiche e filosofiche cui egli si sente profondamente legato[18].

Una tale convinzione critica non consente inoltre di comprendere e motivare l’evoluzione realizzatasi nella musica di Xenakis; e quando lo fa, tende a utilizzare le desuete categorie di svolta o rottura, con consuete apologie o condanne, che nuovamente inficiano la comprensione. Da questo punto di vista, il destino di Xenakis sembra ancora una volta vicino a quello di György Ligeti, sulla cui svolta molto si è scritto vedendo nel compositore adesioni a nuove principi estetici che lo stesso si preoccupò di smentire in poco tempo[19].

6. Dalla grafica alla musica
Gli studi scientifici non vengono valorizzati da Xenakis come pura teoria, ma si concretizzano in applicazioni tecnologiche di grande interesse. Imprescindibile è, innanzitutto, l’attività di architetto che egli ha svolto, parallelamente a quella musicale, ai più alti livelli, collaborando con Le Corbusier. Abbiamo già ricordato come proprio nell’ambito di questa attività egli conobbe Edgar Varèse durante l’esposizione di Bruxelles, in cui era esposto il “padiglione Phillips”. Xenakis ha sempre rivendicato la paternità di quel progetto, attribuito allora a Le Corbusier. In assenza di uno studio sistematico sulla attività architettonica di Xenakis, si può avanzare l’ipotesi che tale rivendicazione sia fondata; si tratta infatti di un’opera provvisoria, non caratterizzata da una struttura architettonica permanente; piuttosto un’installazione in cui i prodotti elettronici della Phillips potessero realizzare una sorta di spettacolo tecnologico. Xenakis, che in realtà era un ingegnere, diede suggerimenti relativi ai materiali, pensando a una costruzione che si sviluppasse verso l’alto in una sorta di continuo. E’ a questo proposito egli afferma di avere fatto riferimento alla sua prima composizione, Metastaseis, caratterizzata, in opposizione alla “ortodossia” seriale, dalla continuità del glissando, che negava gli intervalli fra le note e realizzava una dimensione dinamico-sonora tale da prefigurare sviluppi fondati sì su una logica di sviluppo razionale, ma potenzialmente infiniti.

Xenakis ha dichiarato di avere operato una visualizzazione dei suoni, di averli pensati nello spazio e non nel tempo[20]. Da questo punto di vista la corrispondenza tra la struttura architettonica e la composizione è un dato reale e la capacità di non renderla una semplice dichiarazione programmatica è una delle qualità più rilevanti di Xenakis. A livello strettamente musicale, la corrispondenza tra suono e struttura consente una organizzazione razionale delle note che, pienamente percepibile all’orecchio dell’ascoltatore, concede a quest’ultimo di seguire e di apprezzare con continuità gli imprevedibili sviluppi formali concepiti dall’autore.

Non si tratta infatti di dare forma a un linguaggio strutturato il cui contenuto comunicativo sia rigido; l’ascoltatore viene invece messo di fronte a una particolare interpretazione dell’essere del suono, una delle innumerevoli forme che è in grado di assumere. L’idea centrale di Xenakis è proprio questa, e sembra riassumere in lui il doppio aspetto dello scientismo e dell’umanismo: mostrare attraverso la musica –così come attraverso lo spazio- la straordinaria creatività possibile nella manipolazione dell’essere, in grado di sconvolgere e provocare una profonda riflessione nell’ascoltatore. Per manifestare l’essere, si deve fare riferimento ai suoi elementi costitutivi, che sono quelli rivelati dall’interpretazione scientifica della natura; dal punto di vista di Xenakis, il serialismo non ne è capace proprio perché in quel caso il contenuto della scrittura non può essere fisicamente percepito, e l’autore non riesce a comunicare ciò che intende esprimere.

Una volta però dato per scontato che la realtà sonora può essere espressa secondo le modalità fisiche cui la natura obbliga, nulla vieta che la costruzione possegga caratteri di superfluità, di audacia creativa non vincolate da nient’altro se non l’ispirazione dell’artista.

Ciò spiega anche il fatto che Xenakis abbia sperimentato l’applicazione di molteplici teorie alla musica: le catene di Markov, la teoria dei gruppi, quella dei giochi. Di particolare rilevanza è stata la costruzione dell’UPIC[21], sostanzialmente un calcolatore, realizzato nel 1975, il cui obiettivo è quello di convertire un disegno grafico in suoni, cercando proprio quella sintesi o coincidenza tra visualizzazione spaziale e universo musicale. Per dare un’idea di come funziona, conviene dare la parola a Xenakis: «se tu disegni per esempio un tratto ascendente, acusticamente questo corrisponde a un glissando ascendente. Occorre però anche un timbro, allora tu disegni anche una curva o una sinusoide e la macchina riproduce acusticamente quello che tu hai disegnato con la compressione e la dilatazione di quella forma d’onda»[22]. Lo strumento ha avuto anche una decisa applicazione pedagogica, permettendo di cogliere la razionalità insita nel gesto compositivo anche a giovani non provvisti di una completa educazione musicale[23]. Pure in questo caso, dove l’impressione può essere quella di una trascrizione automatica, siamo lontani da una visione meccanicistica; si tratta di sfruttare la creatività insita nella grafica per evidenziare una possibile struttura musicale che, a seconda della destinazione di organico, assumerà comunque forme differenti.

7. Un presocratico
A proposito dell’importanza della filosofia greca antica nella formazione culturale di Iannis Xenakis, tradizione che gli ha consentito una profonda riflessione sulla realtà e sull’imprescindibile valore conoscitivo del sapere scientifico, si sono fatti molti riferimenti, troppi forse, anche perché parzialmente in contraddizione fra loro. Lo stesso compositore ha contribuito a questa confusione; d’altra parte, egli non ha mai inteso comunicare un sistema teorico compiuto, ma ha suggerito di volta in volta suggestioni relative a diversi suoi lavori.

Non c’è dubbio, comunque, che la tradizione della filosofia antica che maggiormente coinvolge il compositore sia quella del materialismo ilozoista, a partire dalla considerazione del suono quale realtà fisica che ha in sé i principi del proprio dinamismo; non è l’organizzazione dei suoni a produrre un riferimento eidetico trascendente, a trasmettere un’idea, ma è la stessa realtà sonora che ha in sé i principi della propria forza espressiva. E’ un rifiuto pressoché totale della trascendenza platonica; non mancano in effetti in Xenakis citazioni del grande filosofo greco, ma risulta chiaro che egli non ne ha mai sposato la metafisica.

La letteratura critica su Xenakis ha di volta in volta richiamato i materialismi presocratici o quelli di epoca ellenistica, in quanto l’energia dinamica è nel compositore sempre concepita nella dimensione dell’immanenza. Le suggestioni, da questo punto di vista, sono tantissime, e variano dall’epicureismo lucreziano alle scuole presocratiche, facendo riferimento un po’ a tutti i nomi (da Pitagora, a Parmenide, fino a Eraclito).

Da una parte questa varietà di nomi, tra l’altro spesso citati dallo stesso compositore, potrebbe fare pensare ad associazioni poco rigorose, dettate soprattutto dalla suggestione o dalla impressione estetica del momento. Ma non è così.

Questa pluralità di riferimenti invece –tutti legittimi- permettono di comprendere meglio il carattere non necessitante della fondazione scientifica elaborata da Xenakis, e il suo coniugarsi con una dimensione umanistica dell’ispirazione. Xenakis infatti non si affida a una metafisica, ma intende invece riprendere un rigore concettuale che concilia l’impegno di ricerca con il rispetto per le prerogative più autentiche dell’essere. Se l’intenzione dell’artista o, in questo caso, del compositore, vuole essere quella di esprimere in modo compiuto le potenzialità del suono, non può misconoscerne la realtà fisica o i fondamenti matematici e, quindi, non deve fondare la tecnica di scrittura sull’arbitrio. Ma nello stesso gesto compositivo, di volta in volta, può accentuare particolari momenti della realtà che fanno riferimento all’uno o all’altro dei pensatori cui si è fatto riferimento. Sempre però rispettando il rigore “scientifico” di rendere coerente l’immagine del suono con una teoria universalmente condivisibile, sottratta al pericolo dell’impressionismo soggettivo.

A riprova di quanto detto, è il fatto che Xenakis è totalmente estraneo a chiusure nette nei confronti dei suoi colleghi, fatte in nome dell’appartenenza a una scuola; alcuni sui giudizi musicali possono lasciare perplessi[24], e poco servono per avere un’idea adeguata della musica di quei compositori; ma non c’è mai la delegittimazione del lavoro altrui presente invece nelle dichiarazioni di alcuni suoi colleghi. Per esempio, su John Cage o su Morton Feldman, il giudizio è molto più aperto alla comprensione di quanto ci si potrebbe aspettare[25].

Detto questo –e considerando quindi legittima qualsiasi associazione – il riferimento a Epicuro, per quanto stimolante, sembra meno fondato. La suggestione sta soprattutto nell’evento del clinamen che, introducendo libertà e casualità nel processo naturale, prevede sia lo stretto riferirsi alle concrete dinamiche fisiche, sia l’infinità pluralità di forme che da essa può scaturirsi, riflessa dal lavoro artistico. E’ però un’impressione apparente perché l’insostenibilità fisica del clinamen si giustifica nella proiezione etica posseduta dal concetto, ovvero nel fondare un’etica della libertà che sottrae l’uomo al dolore. Fondamentalmente, l’interesse di Epicuro si sposta dalla materia al soggetto, in qualche modo disinteressandosi del rigore fisico della sua argomentazione.

In Xenakis invece agisce la costrizione logica parmenidea, la quale impone che non ci si possa accostare all’essere negandone le più evidenti caratteristiche costitutive; l’intelligenza creatrice deve riconoscerle nella loro evidenza. Per cui il compositore non può che tenere conto del dato fisico che possiede e manipolarlo a partire da una logica strutturale che è propria della materia fuori di sé e che va colta con estremo rigore.

Anche il riferimento a Parmenide può sembrare improprio, nel momento in cui Xenakis intende agire sul dinamismo implicito della materia, creando grandi masse sonore in movimento. Da questo punto di vista il suo modo di concepire la materia sembra più vicino al naturalismo ilozoistico e non all’ontologismo parmenideo. In parte ciò è esatto, tanto che il richiamo a Eraclito o soprattutto a Pitagora è frequente: si tratta in entrambi di trovare l’identico nel mutamento, l’armonia o l’equilibrio dietro il caos apparente.

Non c’è dubbio però che egli tenti di intrappolare il dinamismo in una dimensione spaziale in qualche modo compiuta; se è vero che la materia sonora in Xenakis –come del resto in Ligeti- non tende a uno sviluppo cieco, ma mostra la microvariuazione all’interno di una struttura fissa e riconoscibile, essa tende sempre a definire un insieme stabile. Ma, soprattutto, i blocchi sonori risultano spessi dotati di una loro pesantezza, squadrano il brano e non danno l’impressione del dissolvimento. Non la componente micro, ma la grande costruzione, un blocco della struttura che si sposta e va a relazionarsi con gli altri, attraverso il timbro compatto delle diverse sezioni –nella maggior parte dei casi gli archi- e la tecnica del glissando. Torna dunque l’idea parmenidea della pienezza, della forza di gravità che ricerca la fissità, il punto stabile, sia pure in strutture dall’equilibrio precario o dalle forme singolari.

Non si tratta dunque di mera suggestione, ma di una posizione teoretica –pur mai esplicitamente dichiarata da Xenakis, che lascia da questo punto di vista spiazzati gli interlocutori-[26] di grande rilevanza, che va ben oltre la semplice problematica estetica. Si tratta di una delle più lucide riflessioni sulla relazione esistente tra le origini del pensiero occidentale e i fondamenti della scienza moderna; di come si sia originato quello sguardo sul mondo teso a rispettare l’essere, a non prevaricarlo con la potenza soggettiva, per rispettarlo nella sua essenza, farlo esprimere (il logos) attraverso di noi.

8. Sulla musica
Proviamo a concretizzare le osservazioni appena svolte in precisi riferimenti musicali; da questo punto di vista, la recente rassegna milanese è stata esemplare. Un numero di composizioni minimo rispetto al lavoro complessivo dell’autore, ma comunque capace di costituire una monografia, ovvero un’occasione per ricordare e riflettere in modo opportuno sul valore storico di una produzione musicale. Ciò è stato possibile grazie alla accorta successione delle composizioni nei diversi concerti –nient’affatto rispettosa della cronologia-, ma soprattutto, agli accostamenti proposti in ciascuna serata, capaci di favorire feconde interpretazioni anche più dell’ascolto dell’opera integrale.

Prevalentemente, nel corso della rassegna sono state privilegiate composizioni del secondo periodo di attività di Xenakis: i due estremi cronologici sono stati un lavoro del 1994 (Dämmerschein), per concludere –con un paradosso cronologico magari involontario ma certamente felice- con la prima opera di Xenakis, un brano storico della musica del secondo Novecento: Metastaseis del 1954.

Nel confronto tra queste due composizioni, distanti l’una dall’altra ben quaranta anni, compare la stessa volontà di strutturare la musica secondo blocchi sonori riconoscibili, individuabili facilmente dal pubblico, invitato a seguirne tutte le dinamiche e gli intrecci; l’idea è proprio quella di una massa di materia che si sposta nello spazio. Rispetto agli ormai notissimi glissando che aprono e chiudono il capolavoro del 1954, quelli di Dämmerschein sembrano meglio valorizzati in senso plastico. Manca in questo brano la violenza sonora tipica di altre composizioni, ma il suono appare comunque privato di ogni espressività sentimentale, offerto nella sua rudezza, nella asprezza o stridore dovuto all’incontro tra le varie parti. Questi blocchi sono percorsi da una costante tensione ritmica di straordinaria complessità (il già ricordato intervento del tempo all’interno dello spazio), che ulteriormente crea tensioni e in qualche modo provoca lo spostamento di queste masse. La grande novità rispetto al 1954 è lo staccarsi momentaneo di alcuni strumenti solisti (archi in particolare) ad accennare una linea melodica, assente nella musica degli inizi.

Non è affatto un cedimento al lirismo, ma l’evidenziarsi di un contrasto acustico tra la compattezza della massa complessiva e la tensione sottile di un filo che però è in grado di far quadrare le relazione, di disporre al meglio fra loro quelle masse tese a creare –secondo il modello di architettura più volte professato da Xenakis- una struttura non destinata all’abitabilità perenne ma in grado di mostrare le potenzialità d’equilibrio della materia.

Un approfondimento ulteriore della ricerca di un suono puro –ovvero che esprime la sua effettiva realtà fisica- viene confermata dall’ascolto dei quartetti. In effetti la sezione degli archi viene da Xenakis decisamente privilegiata nella costituzione dei blocchi sonori e possiede quindi un ruolo decisivo nell’architettura sonora concepita dal musicista; la formula del quartetto, quindi, permette di approfondire la sua ricerca in modo privilegiato. Ascoltando queste composizioni, inevitabilmente sembra trovare conferma la formula di Kundera, perché emerge l’intenzione di far parlare il suono, di non sovraccaricarlo di aspettative e significati soggettivi; esporlo fenomenologicamente nella sua essenza.

Sia chiaro che questo atteggiamento non contraddice affatto l’umanesimo sostanziale che in queste pagine abbiamo rivendicato come decisivo nel compositore greco: egli intende in questo modo valorizzare il rigore intellettuale di cui l’uomo e capace; c’è quasi un’esigenza etica nel voler rispettare il suono, trattarlo kantianamente come fine e non come mezzo, favorendo una sguardo contemplativo sull’essere, sulla natura e i fenomeni. Non si tratta di negare l’attività del compositore, censurare il suo gesto, quanto evidenziare la possibilità di esprimere attraverso i fenomeni sonori l’essere stesso. Non però in un senso metafisico, come fosse al di là di un disvelamento; Xenakis non sembra proprio un heideggeriano. Egli vuole valorizzarlo nella sua evidenza fisica e razionale, mostrando ciò che è in effetti alla portata di tutti. Per fare arte, non è necessario richiamarsi alla discutibile dimensione del “mistico”, basta guardare con occhi attenti ciò che è già presente e che l’invadenza del soggetto impedisce di vedere.

Paradossalmente, le possibilità di sviluppo creativo di questa intenzione compositiva sono infinite, superiori a quelle del serialismo, in fondo matematicamente limitato nelle sue possibilità. Xenakis è anzi molto più aperto a recepire poetiche a lui estranee, in ragione della concezione disinteressata del suono da lui coltivata. A Milano ciò è stato evidenziato grazie a una felice compresenza: il capolavoro quartettistico di Xenakis, Tetras, è stato preceduto da un altro storico brano del repertorio, ovvero Torsodi Ernst Lachenmann. Una composizione di particolare radicalità, che anche nella recente esecuzione non ha mancato di suscitare perplessità da parte del pubblico. Ricerca estrema del timbro tesa a negare la specificità strumentale: percussioni sui legni, tremolii e grattature delle corde, il tutto inserito in pause che sembrano interminabili. Ebbene, questa ricerca “rumoristica” è pressoché assente in Xenakis, ma compare, in un frammento di particolare suggestione, proprio nella parte iniziale di Tetras, in una collocazione molto significativa nell’equilibrio complessivo del brano. E’ importante sottolineare questo aspetto, anche in riferimento al rifiuto pregiudiziale di alcuni presenti; Xenakis non si colloca su un campo avverso alla poetica rumoristica; può anzi utilizzarla in modo mirabile, nel momento in cui questa trova uno spazio razionale all’interno di una architettura sonora.

Si potrebbe anche ribadire questo concetto facendo riferimento al repertorio per percussioni;

nonostante la decisa ascendenza su Xenakis di Edgar Varèse, il compositore non ha mai reso le percussioni protagoniste dei suoi brani nei primi due decenni di attività; fatta salva la centralità della sezione degli archi, l’inserimento degli altri strumenti –dalle percussioni, ai legni e agli ottoni- va di volta in volta giustificato a partire dallo specifico contesto del brano e dalle particolari intenzioni che lo motivano. Le percussioni però lo hanno sempre interessato, fosse solo perché Xenakis è uno di quei compositori che –sulla scia di Bartok o Ligeti- hanno molto amato e studiato la tradizione folklorica, non solo balcanica ma anche asiatica e africana. Ma anche perché la componente ritmica –come si accennato sopra- ha un ruolo fondamentale nel formare la dinamica dei blocchi sonori.

Xenakis, nella fase più recente della sua produzione, ha dedicato ampi lavori alle sole percussioni, tra i più lunghi mai scritti per questi strumenti, culminati in una composizione intitolata Persephassa. L’utopia del brano è proprio quella di realizzare la massima sintesi tra spazio e tempo. Un tentativo –quello di inserire il pubblico dentro il suono- non nuovo, perseguito in particolar modo da Karlheinz Stockhausen, che in Giappone è riuscito addirittura a far costruire un auditorium in cui il pubblico si trova quasi al centro di una sfera[27]. I sei percussionisti, infatti, si collocano intorno al pubblico, coinvolgendolo in una dinamica ritmica estremamente varia, che culmina in un movimento vorticoso in cui si superano anche le più spedite velocità metronomiche. Le tre componenti, acustica, visiva e concettuale si uniscono e l’ascoltatore è portato, durante il concerto, a figurarsi una struttura musicale solida, visualizzabile spazialmente. Si tratta di un brano nello stesso tempo tra i più particolari sul piano timbrico, ma anche tra i più rappresentativi della poetica di Xenakis.

Concludiamo con l’analisi di una composizione che meglio riassume quanto si è voluto sin qui sostenere e che non ci si aspetterebbe nel repertorio di questo straordinario compositore: un brano per coro intitolato Pur la Paix, del 1981, esplicito nel denunciare la guerra (da Xenakis conosciuta negli anni di militanza partigiana in Grecia), in cui l’utilizzo del suono è quasi realistico, con parole (mourir, pleureront les morts) ripetute secondo uno schema ritmico molto sostenuto e pronunciate in modo molto partecipato e con toni violenti. In nulla però Xenakis si lascia andare al sentimentalismo e rinnega la sua ricerca sul suono; da questo punto di vista, il confronto con Il canto sospeso di Luigi Nono, dove si musicavano le lettere dei condannati a morte della resistenza secondo i principi della serie, è immediato, pur nella radicale diversità dell’effetto sonoro. In entrambi i casi, è presente la convinzione che qualsiasi ricerca tesa al rigore linguistico non implica affatto una rinuncia, non tanto all’impegno civile, quanto a suscitare riflessioni sul vivere contemporaneo di profonda consapevolezza, in grado di offrire un contributo a un più generale progresso culturale e civile.


[1] 14° Festival di Milano Musica, dedicato a Iannis Xenakis, Milano ottobre-novenbre 2005.

[2] «Per me erano [le musiche di Schönberg e di Webern, n.d.a.] espressioni esacerbate di una tradizione pseudosentimentale tipicamente tedesca»; Un’autobiografia dell’autore raccontata da Enzo Restagno, in AA.VV., Xenakis, E.D.T. Edizioni di Torino, Torino, 1988, p.15.

[3] Id.

[4] Ibid.,pp.16-17.

[5] Iannis Xenakis, The crisis of serial music, Gravesaner Blätter, n°1, 1955.

[6] «La polifonia lineare si autodistrugge attraverso la sua effettiva complessità […] l’enorme complessità impedisce all’ascolto di seguire l’intreccio delle linee e ha come effetto macroscopico una dispersione non controllata e fortuita dei suoni lungo tutta l’espressione dello spettro sonoro. Nasce così una contraddizione fra il sistema polifonico lineare e il risultato percepito come puro effetto di superficie, massivo.» Iannis Xenakis, The crisis of serial music, citato, fra gli altri, in Ernesto Napoletano, Xenakis, l’audacia intellettuale, Catalogo 14° Festival Milano Musica, pp.17-18.

[7] «[…] una volta rese inoperanti le combinazioni lineari e le loro sovrapposizioni polifoniche, ciò che si affermerà sarà la media statistica degli stati isolati e delle trasformazioni delle componenti a un dato istante. L’effetto macroscopico potrà allora essere controllato dalla media dei movimenti degli oggetti da noi scelti. Ciò implica l’introduzione del concetto di probabilità e, in termini più specifici, l’uso del calcolo combinatorio». Iannis Xenakis, cit., in Ibid.

[8] Queste caratteristiche giustificano il famoso giudizio dato su Xenakis da Milan Kundera quale «profeta dell’insensibilità»; cfr. Milan Kundera, Xenakis, Prophète de l’Insensibilité, in Maurice Fleuret, Regards sur Iannis Xenakis, éd. Stock Paris 1981; trad. it. Xenakis, profeta dell’insensibilità, in AA.VV:, Xenakis, cit., pp.73-76. Il giudizio di Kundera, che si vorrebbe problematizzare in queste pagine, ha ispirato anche il titolo del presente testo.

[9] E’ il caso del dossier dedicato al compositore dalla rivista francese Entretemps, n°6, 1988, pp.57-143.

[10] Un’autobiografia dell’autore raccontata da Enzo Restagno, cit., p.19.

[11] Ibid., pag.20.

[12] Nel repertorio classico, tale organizzazione delle masse sonore è particolarmente evidente in molte composizioni di Beethoven.

[13] I due musicisti si incontrarono nel 1958 All’esposizione di Bruxelles, in occasione dell’inaugurazione del “padiglione Philips”, progettato da Le Corbusier e Xenakis.

[14] Un’autobiografia dell’autore raccontata da Enzo Restagno, cit., p.9.

[15] Ligeti, piuttosto che riferirsi ad assiomi logico matematici, preferisce fare riferimento all’osservazione naturalistica (i cristalli, i riflessi su una superficie d’acqua); anche in Xenakis è presente questa riflessione sulla fusis, che gli deriva, a livello teorico, dal particolare legame che egli avverte con il naturalismo presocratico. E a livello musicale dalla frequentazione di Olivier Messiaen.

[16] Sono questi i nomi più citati in ambito critico; non bisogna però dimenticare anche gli americani Charles Ives e Henry Cowell, senza i quali l’opera di molti grandi compositori non potrebbe trovare la sua giusta collocazione storica.

[17] Massimo Mila, La linea Nono (A proposito de “Il canto sospeso”), in La Rassegna Musicale, XXX, 4 (dicembre 1960), pp. 297-311; ripubblicato nel catalogo del 10° Festival di Milano Musica dedicato a Luigi Nono, Milano 2000, pag.121-130.

[18] Non si tratta di un atteggiamento proprio solo dei sostenitori della musica di Xenakis, ma anche dei suoi detrattori; cfr. quanto detto in nota 8 sulla rivsta franceseEntretemps.

[19] Cfr. Giovanni Carosotti, Gli ottant’anni di Gyorgy Ligeti, in L’Acropoli, 1/2004, pp.42-54.

[20] Particolarmente felice sembra a proposito la formula «Allearsi con lo spazio per sconfiggere il tempo e il divenire» in Ernesto Napoletano, Xenakis, l’audacia intellettuale, cit.,p19.

[21] Unità Poliagogica Informatica del CEMAMU, Centre d’Etudes Mathématiques et Automatique Musicale.

[22] Un’autobiografia dell’autore…, cit., p.57.

[23] Per le implicazioni pedagogiche del suo lavoro, Xenakis ha svolto un’azione simile a quella di un altro grande compositore ungherese contemporaneo, Gyrögy Kurtag.

[24] Valga per tutti il giudizio su Mahler: «Potrei anche dirti che non amo affatto la musica di Mahler, che trovo un po’ falsa e superficiale…»; in Un’autobiografia dell’autore, cit., p.36.

[25] «… quello che lui [Morton Feldman] scriveva era lontanissimo dal mio modo di comporre, ma la sua musica mi attraeva moltissimo. Ci trovavo una profonda disperazione e una straordinaria finezza. Tra i compositori minimalisti mi sembra il più grande, un vero poeta e lo trovavo molto vicino al mio modo di sentire, anche se io mi esprimo musicalmente in maniera completamente diversa», dove è interessante anche il giudizio di tipo psicologistico. Id.

[26] Consapevole del rischio di una dogmatizzazione della sua poetica, Xenakis si è sempre mostrato schivo nel definire un sistema musicale stabile e definitivo, lasciando i suoi giudizi sul passato musicale su un piano discorsivo immediato, allo scopo di non essere interpretato in modo rigido.

[27] Sul progetto di un auditorium a Villette mai realizzato, cfr. Un’autobiografia dell’autore, cit., pp.67-69.