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Nov
2006

Gli 80 anni di György Ligeti

Da L’Acropoli 1/febbraio 2004

Gli 80 anni di György Ligeti

Diverse manifestazioni nel mondo hanno ricordato, nel corso del 2003, gli 80 anni compiuti da György Ligeti; un anniversario che diventa occasione per una valutazione critica dell’intero suo lavoro, dal momento che le notizie poco rassicuranti sullo stato di salute del compositore non consentono di immaginare un significativo sviluppo della sua produzione.

Quasi vent’anni sono trascorsi dalla edizione del 1985 di “Settembre Musica”, la rassegna torinese di musica contemporanea, dedicata quell’anno interamente al compositore ungherese; se allora si era da poco manifestata una svolta nelle scelte stilistiche del musicista e, di conseguenza, era impossibile comprendere appieno quanto le nuove esperienze musicali da cui Ligeti aveva tratto ispirazione avrebbero caratterizzato in modo originale il suo progetto creativo, oggi si può in modo più accorto proporre una valutazione sintetica della totalità di questa produzione, nel tentativo di elaborare un giudizio estetico ma, soprattutto, di contestualizzare e valorizzare meglio l’importanza di Ligeti nella cultura musicale del secondo Novecento.

E’ possibile avanzare alcune ipotesi in merito, a partire dalla rassegna monografica, dedicata appunto agli 80 anni di Gyorgy Ligeti, organizzata dalla Associazione Milano Musica lo scorso autunno. L’elaborazione del programma, che ha potuto, grazie alla trasmissione integrale dei concerti via radio, essere apprezzata dagli appassionati di tutta Italia, rispondeva a una scelta critica di grande sensibilità interpretativa e ha permesso, di conseguenza, una serie di riflessioni rivelative.

La valutazione che si desidera qui sostenere intende minimizzare il concetto di “svolta”, relativamente al diverso atteggiamento stilistico manifestato da Ligeti a partire dei primi anni Ottanta, per sottolineare invece una estrema coerenza poetica che, pur attraverso moduli stilistici differenti, prosegue con identica motivazione dagli anni Sessanta alle opere più tarde.

La politica culturale seguita da Milano Musica in questi anni nelle proprie rassegne impedisce a dire il vero di assumere in modo troppo rigido il concetto di “monografia”, in quanto l’intenzione sempre presente ogni anno è quella soprattutto di stabilire relazioni e di contestualizzare la ricerca musicale contemporanea in un ambito più ampio, teso a evidenziarne le interazioni con il complessivo contesto culturale, senza peraltro cedere alla tentazione semplicistica di forzare attraverso accostamenti inappropriati tale repertorio con la logica di consumo. Una volontà di ampliare la fascia di pubblico interessata alla musica contemporanea – richiamando antichi fasti in questo senso del panorama culturale milanese – cercando nel contempo di favorire un’attenzione critica e di stimolare le capacità di ascolto del pubblico.

Date queste premesse, era evidente che l’anno dedicato a Ligeti non mirava semplicemente a riproporre – in base a una semplice scansione cronologica –i diversi percorsi compositivi esplorati dal musicista in quasi mezzo secolo di attività, quanto isolare alcuni momenti significativi della sua produzione mostrandone la continuità con ricerche coeve, esaminarne i legami con la tradizione, evidenziare gli stimoli che le composizioni ligetiane hanno sollecitato, nel tempo, tra le generazioni più giovani di compositori.

La musica di György Ligeti permette con estrema naturalezza di impostare un programma caratterizzato dal confronto fra esperienze a prima vista distanti (nel tempo, per il contesto culturale, nelle intenzioni poetiche dell’autore) le quali invece, accostate nell’unicità del concerto, rivelano le loro evidenti affinità. La ragione che rende le composizioni ligetiane più adatte a tali intenzioni risiede nel fatto che il musicista, già in tempi non sospetti – quando frequentava lo studio di fonologia musicale del Westdeutsche Rundfunk a Colonia, da lui definito “paese delle meraviglie”, e più tardi i seminari a Darmnstadt – non si è mai riconosciuto all’interno di poetiche rigide, risultando da una parte pienamente inserito e riconosciuto nell’ambiente della sperimentazione musicale del secondo dopoguerra, e dall’altra critico verso modalità compositive assunte con eccessiva rigidità. D’altra parte, come ha fatto giustamente notare Armnando Gentilucci, György Ligeti “per un suo sia pur breve ritardo nel frequentare da protagonista i corsi di Darmstadt […] diviene un autore di importanza decisiva proprio quando le sue opere maggiori sbocciano in coincidenza con l’affievolirsi di alcuni a priori sui quali l’avanguardia seriale e strutturalista aveva eretto il proprio apparato tecnico, concettuale, perfino ideologico”1. Non è un caso che negli ultimi due decenni, quando si è tentato un superficiale tentativo di delegittimazione dell’avanguardia musicale successiva alla seconda guerra mondiale, non solo il nome di Ligeti non è mai stato usato quale referente polemico, ma addirittura si è cercato di cooptarlo all’interno di un’estetica “post-moderna” alla quale egli era del tutto estraneo. Attraverso infatti una lettura superficiale della produzione più recente di Ligeti, definita come ritorno al diatonismo, lo si è voluto artificialmente contrapporre ai compositori con cui pure aveva condiviso lo spirito della nuova musica.

A sgombrare il campo da qualsiasi equivoco ci ha pensato Ligeti stesso, rifiutando sia la nozione di diatonismo rispetto alla sua ricerca più recente, sia mostrando un palese scetticismo nei confronti dell’estetica “postmoderna”. Rispetto ai compositori cosiddetti “postmoderni”, egli scrive: “Quella di premoderni sarebbe tuttavia per questi movimenti una definizione più idonea, perché gli artisti che ne fanno parte mirano alla restaurazione di elementi e forme storiche: … una tonalità ritrovata unitamente a figurazioni ritmico – melodiche impregnate di pathos espressionista. … Questa nozione retrò dopo un periodo di sperimentazione e di modernità è comprensibile … comprensibile ma non perdonabile.”2 Ligeti non nega comunque una decisa presa di distanza dal vecchio spirito della avanguardia: “Rifiutando del pari il retrò e la vecchia avanguardia mi dichiaro per un modernismo di oggi. Per me questo vuol dire in primo luogo una precisa distanza rispetto al cromatismo totale e alle dense tessiture micropolifoniche che caratterizzavano la mia musica tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Questo significa anche sviluppo di una polifonia fatta di una rete di voci ritmicamente e metricamente complesse e al tempo stesso di un’armonia trasparente e consonante che non intende tuttavia ristabilire la vecchia tonalità”.3

Quest’ultima indicazione riveste particolare importanza perché – come vedremo anche facendo riferimento ai brani eseguiti nel corso della rassegna – manifesta un rinnovamento che si pone, nei confronti della ricerca precedente, in un rapporto di evidente affinità: ovvero, la nuova concezione polifonica inaugurata da Ligeti, che senz’altro tende ad avvicinarsi maggiormente alla dimensione tonale, pure si presenta come sviluppo o, meglio, in continuità poetica con l’intuizione fondamentale e il tratto distintivo di Ligeti compositore, ovvero una tessitura sonora di ampio spettro costituita da un fitta rete di micro elementi di carattere timbrico, ritmico, melodico, che vanno fruiti attraverso un processo mentale di instancabile e affascinante rimando dalla preziosità minimale delle diverse fasce sonore alla eccezionalità del risultato complessivo.

Tale intuizione produce un rapporto particolarmente complesso con la tradizione; da una parte questa è sempre presente ma nello stesso tempo implacabilmente occultata all’interno della trama complessa costituita da Ligeti, dall’altra proprio il risultato sonoro conclusivo non sembra porsi in quell’atteggiamento di radicale rifiuto del concetto canonico di composizione suscitato da altre opere dell’avanguardia. Eppure, in queste ultime, la citazione, sia pure solo strutturale, sia pure con rimandi polemici o anche come semplice metafora stilistica – p. es. il gocciolio in una composizione per pianoforte – si presenta immediatamente visibile, mentre in Ligeti essa è presente come ispirazione ma mai individuabile in una citazione diretta4. Come afferma lo stesso compositore: “nella mia opera viene negata l’intera tradizione, eppure continua a giocare il suo ruolo a livello subliminale”.5

Per valorizzare questi molteplici legami che la musica di Ligeti mantiene con il passato musicale e le diverse forme espressive della musica d’oggi, era necessario meditare in modo accorto sugli accostamenti più adatti da realizzare nei confronti delle diverse composizioni in programma. A tal fine, era però necessario individuare i momenti decisivi nella carriera compositiva di Ligeti, ciascuno dei quali potesse essere riferito a una particolare tematica propria della ricerca musicale contemporanea; il programma di Milano Musica ha teso a focalizzarne alcuni: il periodo ungherese, precedente la fuga dell’artista in Occidente; il rapporto comunque stretto di Ligeti con la cultura musicale ungherese, da Bartok, ovviamente, sino alle altre importanti personalità che fanno dell’Ungheria una delle nazioni più importanti per la musica contemporanea (Kurtag, Eötvos); la musica di genere, nel caso specifico il quartetto d’archi e la produzione per pianoforte; e, infine, ma non certo subordinato agli altri quale tema essenziale, il rapporto di Ligeti con il repertorio classico e, in particolare, con la musica di Joahnnes Brahms.

Per quanto riguarda il primo tema, esso è stato esplicitamente rivalutato nonostante le dichiarazioni riduttive del musicista, che in un primo tempo aveva negato l’importanza della sua attività compositiva relativa al periodo ungherese; è evidente infatti che, il clima di costrizione diffusosi in Ungheria dopo la seconda guerra mondiale portasse il giovane Ligeti a compromessi estetici che egli, una volta trovatosi in una situazione di totale libertà creativa, ha decisamente rifiutato. Come però spesso accade, gli artisti non sono sempre i migliori esegeti di se stessi, soprattutto quando riflettono sul loro periodo di formazione; diventa dunque una necessità – e non una semplice curiosità archeologica – riesaminare con spirito nuovo questo repertorio dimenticato, così come è stato realizzato nel corso della rassegna.

Bisogna però aggiungere che lo stesso Ligeti, a partire dal 1968, decise di ripubblicare i lavori giovanili e da essi trasse, successivamente, spunti per nuove composizioni, per pianoforte soprattutto. Alcuni hanno voluto individuare in questo recupero del periodo ungherese una prova dello scetticismo sostanziale di Ligeti verso alcune derive dell’avanguardia musicale; sino ad anticipare l’inizio della “fase diatonica” proprio alla fine degli anni ‘706. In realtà tale visione appare riduttiva, tesa più a evidenziare differenze sulla base di una lettura retrospettiva e ideologica della storia musicale recente, mentre è più utile, proprio per sottrarre il compositore ungherese a qualsiasi ascendenza, avanguardistica o post- avanguardistica, sottolinearne la coerenza del percorso compositivo, pur attraverso scelte stilistiche differenziatisi con gli anni.

Il periodo “ungherese” di Ligeti presenta in verità motivi di estremo fascino, in quanto il compositore, pur vivendo in un clima di deprimente disinformazione rispetto alle ricerche più avanzate che avvenivano ad Occidente, soltanto vagamente percepite attraverso i canali radio dell’Ovest fortemente disturbati7, manifestava già una mentalità avanguardistica, che andava ben oltre la lezione – appena tollerata dal regime comunista – di Bela Bartok. Come spesso è accaduto nelle democrazie popolari, gli artisti più dotati cercavano di essere attivi lavorando nelle contraddizioni profonde in cui si dibatteva l’ideologia dello stesso regime; per esempio, continuando gli studi e le ricerche etno-musicologico-antropologiche di Bela Bartok; compositore da una parte esaltato dal regime comunista, per la sua dichiarata posizione antifascista, dall’altra quasi mai eseguito – a parte un paio di composizioni ritenute fra le più agevoli all’ascolto – per la tendenza all’atonalità, espressione di decadenza piccolo – borghese, secondo l’estetica marxista imperante in quei paesi.

Pur consapevole che il suo repertorio sarebbe stato eseguito con difficoltà, Ligeti inizia la sua attività di compositore dedicandosi alla raccolta di canti popolari e di materiale folklorico e impegnandosi in trascrizioni delle stesse. Il catalogo della rassegna presenta, tra i contributi introduttivi, uno scritto di Carlo Sini, nel quale si mette nel giusto rilievo – ben più di quanto abbia fatto lo stesso compositore – il carattere eversivo di tale pratica compositiva:”…il folklore […] ha in sé movenze inaspettate diavanguardia: strane disimmetrie, inaudite dissonanze, complicazioni ritmiche, evocazioni di atmosfere magiche, mistiche, irrazionalistiche… Il potere si preoccupa: la censura interviene anche qui, ma più discreta (e forse ignora, nella sua approssimativa rozzezza, quanto di quel folklore è in realtà invenzione genuina dell’artista, libera ispirazione e variazione da un linguaggio sedimentato nelle memorie del passato). E così il popolo indistruttibile dei fantasmi “reali” della leggenda e del ricordo combatte validamente la sua battaglia estetica contro il popolo immaginario dei burocrati, dei censori e dei fanatici del localismo e delle tradizioni popolari […]: un popolo che non è mai esistito e che non potrà mai esistere”8. Il richiamo a Bartok diventa allora un espediente per potere esplorare mondi sonori estranei alla logica realistica dell’estetica socialista, paradossalmente ricollegandosi a una ricerca che quella stessa autorità avrebbe dovuto favorire. A Milano, nel corso del primo concerto, sono state eseguite le “Antiche danze ungheresi di società”, del 1949, da parte dell’Orchestra da Camera di Zurigo sotto la direzione di Howard Griffiths. Il brano, che presenta un’orchestrazione di estremo interesse, mostra la sua evidente importanza ovviamente solo a posteriori, nel momento in cui viene posto in relazione con la futura produzione del maestro.

Da questo punto di vista, l’altro brano del periodo ungherese, previsto nel secondo concerto, ha fornito un importante e ulteriore tassello critico. Si tratta delQuartetto n°1, composto tra il 1953 e il 1954 e che porta il titolo di “Metamorphoses nocturnes”; nello stesso concerto si sono ascoltati anche il Quartetto n°2, del 1968 e ilQuartetto n°6 di Bela Bartok, del 1939. Un accostamento dunque tra una composizione del periodo ungherese e, da una parte, un brano del periodo di piena maturità del musicista, dall’altra composizione dell’autore per lui più importante relativamente al primo periodo di attività.

I brani sono stati eseguiti dal Quartetto Arditti, sicuramente la formazione quartettistica più prestigiosa per il repertorio contemporaneo, presenza abituale della rassegna milanese; la quale, per chi la segue periodicamente, offre dunque anche una panoramica trasversale, nei diversi anni, sulla composizione per quartetto nella musica contemporanea; un argomento affascinante, in quanto tale organico è l’unico che, con estrema continuità, mantiene un legame diretto con il repertorio classico ma contemporaneamente, ha espresso con frequenza le proposte più innovative.

Il Quartetto n°1 è opera importante in quanto rappresenta al meglio, all’interno della fase ungherese, quella parte di repertorio non rivolta alla tradizione folklorica, ma tesa a proporre nuove soluzioni compositive. E’ una composizione nella quale il richiamo a Bartok è esplicito e immediatamente evidente, al contrario delle opere future, nelle quali il rapporto con la tradizione si manifesta con l’allusione e non con una esplicita ripresa stilistica. Pure, anche in questa architettura bartokiana, Ligeti manifesta già alcuni criteri compositivi che saranno propri delle sue opere future; ciò significa che il richiamo a Bartok negli anni precedenti il 1956 non era solo un espediente per produrre ricerca innovativa senza incorrere nelle censure del regime, ma rappresenta il vero fondamento della concezione compositiva di Ligeti, in grado di motivare sia la piena appartenenza dell’artista alla tradizione dell’avanguardia europea, sia la sua posizione in parte non omologata all’interno di questa. Come è stato giustamente notato, dalla constatazione che Ligeti, ma anche Lutoslawski, sono due compositori “che non hanno condiviso l’esperienza seriale e che si collocano nell’orbita di Bartok, seguono importanti conseguenze per una possibile storiografia della musica moderna. L’analisi dei modi di ricezione dell’opera di Bartok permette sempre infatti di rompere la rigida bipartizione tra avanguardia strutturalista, rima dodecafonica poi seriale, e neoclassicismo, da Strawinsky a Hindemith, istituzionalizzatasi a torto o a ragione sulle basi della filosofia della musica moderna adorniana. Questi compositori e il nesso problematico che si manifesta nel loro rapporto di ricezione rinviano a un’altra tradizione, a un pensiero musicale laterale, in cui sono essenziali l’eruzione sonora, una agonica irritante fino ai movimenti meccanici, la fusione degli elementi musicali in musica timbrica. Da questo punto di vista Bartok, insieme a Satie e a Varèse, può essere annoverato tra gli Urphanomene della musica post seriale”9. La modalità compositiva bartokiana più evidente nel Quartetto n°1 è il principio della variazione continua10; Ligeti lo ripropone senza partire però da alcun tema specifico; ogni variazione rappresenta invece lo sviluppo di una particolare concezione stilistica che acquista autonomia all’interno dei movimenti ma, allo stesso tempo, impone un’unica logica formale all’intera composizione. Ed è proprio il principio della variazione continua a contraddistinguere in modo più significativo il periodo maturo di Ligeti e a realizzare una coerente continuità fra tale periodo e quello successivo “diatonico”. I famosi tessuti sonori, ottenuti dalla fitta trama di elementi melodici, timbrici e ritmici, in cui tracce sonore apparentemente disarmoniche e comunque disomogenee riescono a produrre un effetto d’insieme di grande coerenza e suggestione, nel loro stendersi in ampi spazi attraverso microvariazioni che, in lassi di tempo variabili, realizzano un mutamento costante rispetto alla situazione iniziale (creando una sorta di “movimento statico” più volte rivendicato da Ligeti), è sicuramente uno sviluppo coerente del principio della variazione continua.

Il confronto col Quartetto n°2 del 1968, eseguito nel corso della stessa serata, ha permesso di verificare le ipotesi avanzate sopra. L’interesse stava nel fatto che, per stessa ammissione di Ligeti, tale composizione è di ispirazione bartokiana, senza che il riferimento al maestro risulti immediatamente evidente11. Anche in questo caso ogni movimento tende ad identificarsi con una particolare cifra stilistica, pur cercando di manifestare un principio comune12; in alcuni casi i rimandi a Bartok sono maggiormente riconoscibili (il “pizzicato” dello Scherzo), in altri si tratta di allusioni più sottili: certo uso dei fortissimi o di sonorità gutturali, come pure, negli episodi di estrema lentezza, quasi di stasi temporale, il ricordo di alcune atmosfere ombrose di Bartok, quali, ad esempio, il mesto del Quartetto n°6.

E’ stata veramente una scelta felice quella di far ascoltare, nello stesso concerto, non il Quartetton°2 o il Quartetto n°3 di Bela Bartok, esplicitamente citati da Ligeti come suoi modelli per il suo primo quartetto; bensì il n°6, l’ultima composizione scritta da Bartok in Europa, tra le opere più pessimiste del compositore, iniziata poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, quando Bartok temeva di non potere tornare più in Ungheria, e decise di emigrare negli Stati Uniti. Le situazioni che si succedono nel quartetto sono varie, ma prevale proprio la tonalità espressiva del mesto a caratterizzare drammaticamente l’opera, e che ricompare nei diversi movimenti; esplicitando quella “grande forma”, quell’unità nelle diverse situazioni stilistiche, più volte – come abbiamo visto – richiamata da Ligeti.

Queste considerazioni relative agli anni ungheresi del compositore ci consentono, dunque, di ipotizzare una continuità, nel senso di uno sviluppo delle intuizioni iniziali, con la produzione più matura; non è corretto dunque, interpretare la riscoperta che lo stesso compositore ha realizzato di questo repertorio a partire dagli anni ’70 – dopo averne più volte negato recisamente il valore – come la conferma di un aspra critica alle passate concezioni di avanguardia. Come infatti non esiste cesura netta fra le composizioni fino al 1956 e quelle degli anni ’60, così non si manifesta rottura poetica rispetto alle opere degli anni successivi. Non si vuole qui negare l’esistenza di una svolta avvenuta sul piano della tecnica compositiva e delle scelte stilistiche, che è ineccepibile e che lo steso Ligeti ha messo in rilievo valutando in modo sereno le nuove procedure adottate e le esperienze da cui ha tratto ispirazione (dalla produzione del compositore americano Conlon Nancarrow, a un nuovo approfondimento etno musicologico non solo delle consuete tradizioni ungheresi e rumene, ma anche di culture extraeuropee, quali la musica dei Carabi e quella della Repubblica centraficana); non è condivisibile però interpretare questo mutamento come un abbandono o una critica alla propria passata poetica che, pur con nuovi mezzi espressivi, si ritrova invece tutta intera nella nuova fase. L’errore insito in questa lettura impedisce, innanzitutto, di comprendere in modo adeguato la produzione degli anni ’60 e ’70; il rischio è infatti quello di intenderle in modo monolitico, valutandole come un insieme di opere volte tutte a uno stesso fine, quello di costituire una vasta tessitura micropolifonica. In effetti, le numerose e abili descrizioni che la letteratura su Ligeti ha prodotto nel descrivere la complessa trama musicale creata dal compositore, rischia di realizzare, nell’ascolto, una tensione tesa tutta a individuare la stessa cifra stilistica, evidenziando meno le differenze tra un brano e l’altro e fornendone, quindi, una valutazione riduttiva. E’ stato corretto quindi, da parte degli organizzatori della rassegna, concentrare questa fase (diventata celebre anche grazie alle colonne sonore di alcuni film di Stanley Kubrick) in un numero ridotto di concerti e avvicinare fra loro, prescindendo dall’esatta cronologia, composizioni di periodi differenti. Tale scelta ha infatti consentito una migliore riflessione su alcuni capolavori storici di Ligeti, quali, ad esempio, Aventures, Nouvelles Aventures e il Kammerkonzert. Questi lavori, tutti realizzati negli anni ’60, evidenziamo aspetti differenti; nella prime due composizioni una declamazione fortemente mossa e coinvolgente ha lo scopo di sconcertare lo spettatore e di aggredirlo con suoni gutturali, fortemente distaccati fra loro ed evidenziati ritmicamente, sostanzialmente urtanti e respingenti; un’espressività molto diversa dal classico tessuto sonoro, teso a creare un amalgama che riduce lo spazio fra gli esecutori e gli ascoltatori. Tale analisi non costituisce però una contraddizione nella poetica di Ligeti, in quanto permette di evidenziare un elemento drammaturgico nel suo comporre, proprio anche dei più famosi brani strumentali. Inoltre, le parole prive di qualsiasi contesto utile per evidenziare il loro valore semantico, appaiono anche in questo caso come i singoli elementi di una trama sonora il cui insieme trascende i significati particolari per realizzare un effetto più ampio, ad esse parzialmente estraneo. Il Kammerkonzert, invece, realizza l’unità non attraverso una sovrapposizione magmatica di spazi sonori estesi, ma con la sovrapposizione di voci e timbri dei singoli strumenti, che rimangono però fortemente distinguibili. In altre parole, mentre nella tessitura ligetiana più nota si fa a un certo punto indistinguibile il passaggio dalle singole trame al risultato del tutto, nel Kammerkonzert l’impressione di omogeneità totale non annulla la singolarità dei percorsi strumentali dei vari solisti.

Sulla base di queste valutazioni, non ha alcun senso contrapporre in modo netto a tali composizioni la produzione successiva di Ligeti, in quanto è sempre stata presente, nel suo comporre, l’esigenza di dare vita a una determinata concezione del suono attraverso forme espressive radicalmente differenti. E’ tale esigenza è ugualmente presente anche nella fase più tarda. Semmai è doveroso interrogarsi sulle ragioni che lo hanno condotto a non riconoscersi più in certe modalità espressive fino allora adottate. Nel 1981, appena uscito da un periodo di difficoltà compositiva, Ligeti affermò: “Non è una crisi personale, piuttosto penso sia la crisi di tutta la generazione a cui appartengo, quella che nella seconda metà degli anni Cinquanta a Darmstadt, Colonia o in qualsiasi altro posto ha sviluppato qualcosa di nuovo e di originale. A poco a poco si presenta per noi il pericolo dell’accademismo. Personalmente, essendo un antiaccademico, io vorrei combattere in me questo pericolo, ossia non vorrei continuare a comporre secondo i vecchi clichés dell’avanguardia, ma nemmeno ricadere in un ritorno ai vecchi stili. Io cerco, proprio negli ultimi anni, di trovare anzitutto una risposta per me, una musica che non sia una rimasticatura del passato, neppure del passato dell’avanguardia”13. Tali dichiarazioni sono importanti, innanzitutto perché permettono di distinguere le motivazioni di Ligeti da quella dei teorici del post-moderno, nel momento in cui afferma di non volere proporre “rimasticature del passato”; dall’altra perché individua l’esaurirsi di alcuni moduli stilistici secondo una logica evolutiva in base alla quale non esistono dogmi estetici insuperabili. La necessità di modificare l’atteggiamento stilistico non è quindi contro il passato, ma contro una negazione del carattere storico della ricerca musicale, che impedisce trasformazioni. In realtà, come ha affermato in modo puntuale Ivanka Stoianova, Ligeti ha anticipato in modo straordinario il principio in base al quale si è sviluppata la musica nuova: “la più radicale trasformazione che ha rivoltato da cima a fondo il modo di pensare la musica nel corso degli ultimi trent’anni non riguarda il tipo di scrittura (seriale, aleatoria, stocastica, multipla, processi produttivi, ecc.), ma il materiale sonoro”14. Quindi la svolta stilistica non nasce da alcuna improvvisa conversione, ma matura all’interno di un’esigenza poetica che era propria del compositore già nei primi anni della sua attività, e che ne precisa la posizione “non allineata” nel gruppo della avanguardia. Egli non ha mai pensato all’avanguardia come a una nuova scrittura, ma come esplorazione continua del materiale sonoro, addirittura anticipando, pur in composizioni solo orchestrali, ricerche timbriche che diverranno comuni con la successiva sperimentazione elettronica15. Non era quindi una critica al proprio passato di ricerca, ma la necessità di sperimentare nuovi modi di manipolazione de3lla materia sonora a partire da nuove esperienze stilistiche.

Non a caso Ligeti non solo ha sempre rifuggito atteggiamenti dogmatici rispetto alle modalità di scrittura, ma pure non si è mai concentrato sulle singole forme musicali in modo circoscritto; ogni scelta – dal quartetto. al pianoforte, all’orchestra al piccolo organico – era una tappa successiva nella manipolazione del materiale sonoro; tanto che è più opportuno leggere i brani in una sequenza orizzontale, a prescindere dall’organico, e non verticale (la produzione per quartetto, quella per pianoforte, ecc.). Come è stato felicemente scritto: “Tuttavia non si può schematizzare la sua produzione in base alla caratteristica dei generi, né riassumerla in gruppi formali. E’ consigliabile invece seguire un altro procedimento: la prospettiva strutturale, in base ai caratteri espressivi e alla tipologia delle composizioni. Ciò non tanto in riferimento alla singola opera, ma in relazione all’opera complessiva e alle sue parti viste nella loro unità storico – sistematica”16.

Per confermare come, a partire dal superamento di tale periodo di crisi creativa, le novità stilistiche abbiano contribuito ad alimentare una poetica comunque rimasta coerente, è possibile fare riferimento alla letteratura pianistica di Ligeti; in questo caso, il principale interprete delle composizioni pianistiche di Ligeti, Pierre-Laurent Aimard, ha proposto a Milano l’integrale dei tre libri degli Etudes. L’interesse, in questo caso, sta nel fatto che si tratta di composizioni scritte tra il 1985 e il 1994; un arco di tempo molto lungo, che permette dunque di valutare l’evolversi del processo creativo in più di un decennio. Nello stesso tempo, però, trattasi di un periodo tutto interno alla nuova fase creativa di Ligeti. Tuttavia il nuovo repertorio non muta la tendenza di Ligeti a ricercare sempre la materializzazione sonora di una unità organica, pur non suggerendo più l’immagine di perpetuum mobile, di superficie marina17 , cerca comunque di espriemere il movimento continuo, il segreto dell’unità del mondo, in una costante dialettica fra le parti e il tutto che, di volta in volta, esalta il quadro d’insieme che ne emerge o la potenzialità delle singole voci che la compongono. Questa ricerca, sostanzialmente, è stata affrontata da Ligeti in due modi: attraverso composizioni omogenee, tese a realizzare una trama continua in cui l’orecchio dello spettatore è coinvolto in questo continuo annodarsi e slegarsi di figure, oppure attraverso una organicità che, in modo più classico, coinvolge i diversi movimenti di un brano.

Proviamo a confrontare fra loro due affermazioni del compositore, apparentemente opposte, con le quali presenta il quartetto del 1968 e gli studi pianistici, tutte riportate nel catalogo. In merito al Quartetto n°2, scrive Ligeti: “I cinque movimenti sono connessi tra di loro in modo sotterraneo, ci sono corrispondenze segrete…; tutti i movimenti sono, per così dire, presenti in ogni movimento”18. In merito invece agli Etudes, lo stesso compositore afferma: “Studi nel senso pianistico del termine […] essi partono sempre da una semplice idea centrale e conducono dalla semplicità alla estrema complessità”19. La differenza non potrebbe essere più pronunciata, laddove nel primo caso si tende alla omogeneizzazione, nel secondo alla concentrazione autonoma del singolo studio. Poiché però, nelle intenzioni dell’autore, la composizione intende esplorare a fondo, in tempi differenziati, tutte le possibilità espressive connesse al virtuosismo pianistico, è chiaro che tende a ricercare comunque una totalità espressiva, una visione globale, non più da presentarsi sincronicamente e polifonicamente, bensì attraverso un confronto meditato delle diverse parti esecutive. In altri termini, Ligeti non vuole esprimere, attraverso i vari movimenti, un’impressione particolare, che caratterizzi la singola opera rispetto alle altre composizioni, ma cerca invece di rivelare la dimensione della totalità mettendo dialetticamente in rapporto le sue stesse parti. Non pare condivisibile quindi il passo in cui, nelle pur pregevoli note di presentazione al concerto, si afferma che gli Etudes di Ligeti sono “potenzialmente eseguibili anche singolarmente”20; si perderebbe in questo caso l’intenzione complessiva, l’architettura mobile che costituisce il senso dello stesso gesto compositivo. Sembra quasi che Ligeti voglia fondare un sistema, che non è però, hegelianamente, chiuso in sé stesso, autoreferenziale e teleologico, bensì aperto, in quanto la processualità risulta fine a se stessa; come si può notare da i numerosi inizi che sembrano evocare un suono già presente da tempo, oppure i finali in cui il direttore continua per un breve arco di tempo a dirigere il silenzio, ad indicare che non di conclusione si trattava, bensì di un frammento di movimento infinito. E Riccardo Muti, nell’ultimo concerto, ha magistralmente sottolineato questo aspetto nella esecuzione di Lontano (1967).

Prima di concludere, è necessario soffermarsi sul modo singolare con cui la musica di Ligeti tende a rapportarsi alla tradizione, sempre traendo spunto dalla felice intuizione con cui è stata concepita la rassegna milanese; anche questo modo di relazionarsi al passato musicale, rimane identico durante l’intera carriera di Ligeti. La scelta di Milano Musica è stata quella, da una parte, di valorizzare la pratica dell’allusione, ossia quei richiami al passato che l’ascoltatore percepisce al di là del riferimento al brano specifico; il concerto tenutosi nella suggestiva sede della basilica di San Lorenzo alle colonne prevedeva, da parte del gruppo strumentale Mala Punica, un’esecuzione alternata di composizioni di Paolo da Firenze (esponente di quella ricerca musicale gotica fiorita a Pisa negli anni intorno al concilio del 1409), con quelle degli altri grandi maestri ungheresi della ricerca musicale contemporanea (György Kurtag e Peter Eötvös), dove protagonista strumentale era il cimbalon, ad indicare questo comune trarre spunto di una scuola nazionale dalle origini più antiche (in merito alla documentazione possibile) della storia musicale occidentale21.

L’altra scelta è stata quella di privilegiare un solo compositore del repertorio classico; dalle diverse scelte possibili si è optato felicemente per Johannes Brahms. Il senso di tale accostamento si è rivelato appieno nell’ultimo concerto, che ha coinciso con l’inaugurazione della stagione sinfonica dell’Orchestra Filarmonica del Teatro alla Scala. La straordinaria sensibilità interpretativa di Muti è stata capace di valorizzare al massimo, nell’unità del concerto, gli aspetti che suggeriscono un rimano tra Ligeti e Brahms. Come abbiamo già accennato sopra, Muti ha esaltato al massimo il concetto di continuum o di ad libitum, insito nei due classici di Ligeti eseguiti quella serata,Ramifications (1968/69) e Lontano (1967). Il brano più significativo per potere suggerire suggestive analogie era proprio la Seconda sinfonia in re maggiore opo.73 di Johannes Brahms; e Muti ha, dal punto di vista intepretativo, sottolineato proprio questi aspetti. Una volta di più dimostrando – anche a proposito delle polemiche che hanno interessato in questo periodo il teatro alla Scala – come il senso delle propria progettualità artistica stia in una volontà di offrire occasioni di conoscenza e di crescita culturale per il pubblico, con un atteggiamento quasi didattico. Non solo Muti si è confermato tra i più grandi interpreti brahmsiani (e in questi anni ha condotto la Filarmonica della Scala da livelli ad esecuzioni di assoluta eccellenza in tale repertorio), ma ha voluto orientare la propria interpretazione in sintonia con le finalità culturali del concerto. Una delle caratteristiche peculiari della Sinfonia n° 2 sta nel fato che i primi due movimenti non appaiono momenti espressivi in opposizione, ma suggeriscono anzi una continuità elegiaca di tono pastorale che sembra ricercare, direbbe Ligeti, la stessa dimensione spirituale in tutti i movimenti. Brahms forza in modo evidente la struttura della forma sonata, con la ripetizione per ben tre volte, in tutto il primo movimento, della lunga esposizione. Si ha quindi una dilatazione e una modificazione degli stessi temi prima ancora che inizino le variazioni; secondo un dinamismo che non obbedisce alla semplice logica della successione delle singole parti ma, ancora in analogia con Ligeti, appartiene alla dimensione del suono in quanto tale, e conduce Brahms a dilatare i tempi, in oltre venti minuti di movimento.

E’ abbastanza evidente, a questo punto, come proprio Ligeti sia tra i grandi compositori della seconda metà del XIX secolo a lasciare più tracce di sé, a poter vantare, se non eredi, un numero comunque amplio di giovani compositori che alla sua lezione si richiamano. La rassegna milanese ha proposto degli accostamenti interessanti, proseguendo un percorso con le precedenti edizioni di carattere non monografico, tese a delineare nel modo più chiaro possibile le diverse proposte stilistiche della musica d’oggi22. Sono stati eseguiti i nuovi lavori di Stefano Gervasoni e Alessandro Solbiati. Dal punto di vista della vicinanza a Ligeti, particolare impressione ha suscitato ilQuartetto n°3 di Giovanni Verrando, anche in questo caso per il fine lavoro degli interpreti, il Quartetto Arditti, i quali, nel consigliare al compositore alcune soluzioni interpretative23 hanno voluto esaltare la continuità con le altre composizioni in programma.

 


1 Armando Gentilucci, György Ligeti oggi, in AA.VV., Ligeti, Torino 1983, p.58

2 György Ligeti, La mia posizione di compositore oggi, in AA.VV., Ligeti, cit., p.3. Il testo è stato ripubblicato anche in Ligeti, catalogo del 12° Festival di Milano Musica, p.24.

3 Id.

4 Vi sono delle eccezioni, come la presunta citazione mozartiana nel primo movimento del Kammerkonzert fur 13 Instrumenten, rispetto alla quale il compositore non ha mai chiarito se trattasi di un riferimento voluto o di semplice causalità.

5 Cit. da O.Nordwall, György Ligeti, eine Monographie, Main 1971, p.141; il passo è riportato in Gianmario Borio, L’eredità bartokiana nel “Secondo Quartetto” di Ligeti. Sul concetto di tradizione nella musica contemporanea, nota 14, p.66, in AA.VV, Ligeti, cit.

6 E’ la tesi espressa nel catalogo della rassegna da Claudio Tempo, il quale peraltro si richiama a un precedente giudizio di Wolfgang Schreiber. La spiccata teatralità di alcune opere degli anni ’70, il carattere di evento proprio di alcune composizioni, anticiperebbero questa svolta che, nelle considerazioni più diffuse, andrebbe invece fatta risalire all’opera Le grande macabre, composta tra il 1974 e il 1977.

7 Tali informazioni sono state fornite dallo stesso Ligeti nel corso di una conversazione tenuta nel 1968 al Sudwestfunk di Baden Baden con Josef Hausler. Parte del testo, cui si è fatto riferimento in queste righe, è riportato nel saggio di E.Restagno, Ouverture, in AA.VV., Ligeti, cit.

8 C.Sini, Variazioni sulle composizioni a cappella, all’origine della musica di György Ligeti, in Ligeti, cit., p. 21.

9 Gianmario Borio, L’eredità Bartokiana del Secondo Quartetto di Ligeti. Sul concetto di tradizione nella musica contemporanea, nota 10, in AA.VV., Ligeti, cit., p.165.

10 Sull’importanza di tale principio nelle composizioni quartettistiche di Bartok confronta sempre Gianmario Borio, cit., p.160.

11 Dopo aver definito la composizione “un piccolo omaggio a Bartok”, Ligeti aggiunge: “Non è la musica ad essere citata, bensì l’habitus, l’aura di questa musica, all’interno di un contesto che ha assunto caratteri totalmente diversi”. Cfr. Ligeti, cit., p.52.

12 Ligeti parla espressamente di ricerca di “una grande forma”; cit. in id.

13 Da un colloquio con M.Lichtenfeld, “Neue Zeitschrift fur Musik, n°142, p.471; citato in Monika Lichtenfeld, Da „Le Grand Macabre“ alla „Tempesta“, in AA.VV., Ligeti, cit., pp.47-48.

14 I. Stoianova, Ramificazioni timbriche e forma-movimento, in AA.VV., Ligeti, cit., p.20.

15 Cfr. ibid., p.21.

16 Wolfgang Schreiber, Ogni pezzo un microcosmo. Sul rapporto fra generi musicali, forma e moduli stlistici in Ligeti, in AA.VV., Ligeti, p.44.

17 L’immagine è suggerita dallo stesso Ligeti; cfr. E.Restagno, Ouverture, cit., p.6; altre volte Ligeti ha proposto la figura del cristallo liquido; cfr. I.Stoianova, cit., p.25.

18 Cfr. catalogo della rasegna, cit., pag.52.

19 Ibid., pag.70.

20 Angela Ida De Benedictis, Una tastiera tra viaggi, limiti e ludica semplicità, in Ligeti, catalogo della12° Festival di Milano Musica, cit., pag.68.

21 E’ da sottolineare il grande lavoro di ricerca realizzato in Ungheria, fin dai tempi della Repubblica socialista, per lo riscoperta del repertorio meno frequentato, come testimoniano le numerose pubblicazioni della etichetta discografica Hungaroton. Questa preziosa attività di documentazione, ha prodotto eccellenti risultati, sia dal punto di vista compositivo sia da quello interpretativo.

22 Cfr. il mio Milano e la musica contemporanea, in L?Acropoli 1/Febbraio 2003, pp.114/117, dedicato all’edizione precedente.

23 Cfr. le dichiarazioni dello stesso compositore a Radiotre, durante la messa in onda in diretta del concerto,il 30/09/2003.