Cinema & Fumetto
Da Supercinema, n°1, 1997 pp.40-49 e su cd rom allegato
Che cosa hanno in comune il cinema e i fumetti? Apparentemente molto poco. Certo, sono due modi di raccontare storie che coinvolgono la vista e che si fondano sulle immagini; nulla di strano dunque che alcuni eroi dei fumetti siano diventati protagonisti di avventure cinematografiche (e viceversa).
È anche vero però che cinema e fumetto sembrano molto distanti per quanto riguarda l’uso della tecnica: possiamo immaginare il creatore di fumetti nell’isolamento del suo studio, mentre disegna i tratti somatici dei suoi personaggi e li coinvolge in storie sempre diverse. Il set cinematografico vede invece incontrarsi più professioni e competenze, prevede la presenza di un numero enorme di lavoratori che rendono il creatore (il regista) dipendente dai finanziamenti. Possiamo facilmente, nei nostri sogni ad occhi aperti, immaginarci come creatori di un personaggio dei fumetti, avere fiducia nelle nostre doti grafiche e nella possibilità creativa di inventare storie su carta; anche adesso potremmo creare il nostro personaggio! La strada del cinema appare invece irta di difficoltà; non bastano carta e penna, ma è necessario un numero considerevole di fattori in grado di scoraggiare anche la persona più dotata; solo in parte saremmo padroni della nostra opera e il lavoro creativo sarebbe condizionato da esigenze di carattere pratico con le quali dovremo realizzare un compromesso. Se anche fossimo dei fumettari falliti, il nostro lavoro -fosse solo per la gioia dei nostri occhi- sarebbe lì compiuto sulla scrivania dello studio, nella speranza di essere prima o poi conosciuto ed avere successo; per portare a compimento un nostro progetto cinematografico, dovremmo invece già avere convinto del nostro talento già almeno i finanziatori.
Ebbene… sulla base di queste premesse, sembra assurdo pensare che il cinema e il fumetto abbiano in comune l’anno di nascita: possibile che un’attività tecnicamente così elementare come scrivere immagini in sequenza su carta sia stata concepita solo quando si realizzò la possibilità di proiettare immagini in movimento, procedimento ben più complesso? E invece è così: il 7 luglio 1895 il primo fumetto compiuto della storia, “Yellow Kid”, apparve sul “New York World”, mentre qualche mese più tardi, esattamente il 28 dicembre 1895, i fratelli Lumiere presentarono la loro invenzione al pubblico parigino. Come spiegare questa paradossale coincidenza? come mai il fumetto, una tecnica in fondo elementare, non ha preceduto di molti anni il cinema? si tratta di una casualità o, al di là di questa notevole notevole differenza, cinema e fumetto possiedono qualcosa in comune che spiega l’identico anno nascita? La risposta è in fondo molto semplice: è vero che il fumetto e il cinema sono molto diversi dal punto di vista tecnico, però hanno in comune il tipo di pubblico; un pubblico che cominciò a esistere solo alla fine del secolo scorso, quando si formò definitivamente la società industriale moderna (se avete visto “Dracula”, di Francis Ford Coppola, e ricordate la scena dove i protagonisti si recano a un cinema, capirete quanto stiamo dicendo). Il fumetto come strumento espressivo non poteva avere successo se non fosse stato diffuso dai quotidiani o dai periodici popolari, che sfruttavano la crescente alfabetizzazione e che intendevano proporre un’attività di evasione. Pubblicare delle storie che fossero coinvolgenti e di agevole lettura e che potessero interessare fasce di età diverse, divenne una necessità; in particolare i fumetti delle origini, per lo più americani, rispondevano positivamente a questa esigenza di evasione. Non è un caso che, sempre nel 1895, nacque un’altra forma di arte popolare, pure legata alla società consumistica: il “pulp”, una sorta di letteratura d’appendice, ad argomento avventuroso e con protagonista un eroe che incarnava alcuni valori sociali dominanti, destinata a coinvolgere sempre il pubblico dei periodici. Anche il cinema si inseriva allora in questo bisogno di consumi narrativi leggeri, tanto è vero che, nei primi venti anni del Novecento, cinema e fumetti hanno avuto un impatto sul pubblico molto simile, dando vita a personaggi ed eroi destinati a far parte del patrimonio culturale collettivo e a incarnare interi valori sociali. E’ il caso delle più celebri orfanelle della storia dei fumetti, Little Orpham Annie e Little Annie Rooney. Della piccola Annie, creata nel 1924 da Harold Gray, conoscerete almeno il musical di John Huston (“Annie”, 1981); per tutti gli anni ‘30 provocò un vero delirio di massa, tanto da scatenare eclatanti reazioni dei lettori quando mancò per un breve periodo dalle colonne del Chiacago Tribune. Little Annie Rooney , creata qualche anno più tardi da Darrell McClure, più leziosa e civettuola, si poneva come antagonista dell’Annie di Gray. Fu però la prima ad essere impersonata sullo schermo (“Little Annie Rooney”, di William Beaudina, 1925) da una delle star dell’epoca, Mary Pickford, offrendo molti argomenti alle cronache rosa. Il genere della commedia fu del resto molto condizionato dai fumetti, soprattutto per quanto riguarda storie di carattere familiare e personaggi femminili: uno dei tentativi più riusciti negli anni ‘30 fu, nel 1928, “Bringing Up Father”, di Jack Conway; il film aveva come protagonisti i personaggi di Arcibaldo e Petronilla, creati nel 1913 da George McManus. Altri cinque film vennero loro dedicati fra il 1946 e il 1950. Significativo fu anche il successo di Blondie, creata da Chic Young nel 1930; insieme al suo compagno Dagoberto, è protagonista di vicende familiari, rappresntate ben ventotto volte sullo schermo. Ma l’incontro più prolifico fra cinema e fumetti si ebbe negli anni ‘30, con il genere avventuroso; il cinema aveva il vantaggio di poter ricostruire (sia pure in maniera palesemente artificiale) i luoghi dei romanzi fantastici, che il lettore poteva soltanto immaginare. Molti di questi film non sono di grande levatura artistica e costituiscono quella sterminata produzione dei cosiddetti “B movies” che però, in prospettiva, contribuirono tantissimo ad arricchire il linguaggio cinematografico e a formare molti tecnici di talento. Questi registi dovevano infatti realizzare grandiosi scenari con pochi mezzi e in tempi brevissimi e, dietro un’apparente ingenuità della rappresentazione, si cela invece un’autentica creatività; non a caso, molti celebri cineasti degli ultimi due decenni hanno riscoperto il valore storico di queste opere, a lungo snobbate dalla critica ufficiale. Sempre più spesso si sentono autori impegnati dichiarare il loro debito verso alcuni di questi misconosciuti artigiani delle produzioni minori. Questi autori, oltre per la formidabile messa in scena, erano maestri nei diversi espedienti narrativi; uno dei generi infatti in cui si concretizzò la trasposizione dei fumetti su grande schermo fu il serial, ovvero una storia divisa in episodi (proiettati al cinema a distanza di una settimana), ciascuno dei quali doveva suscitare una tale tensione, da spingere il pubblico a tornare al cinema, per vedere l’episodio successivo. Rivolgersi ai personaggi dei fumetti era, per il cinema d’avventura, un affare: questi erano già affermati presso il grande pubblico e garantivano, alla loro uscita, un interesse spontaneo. Inizia fra l’altro quello scambio fra cinema e fumetti, in seguito al quale alcuni personaggi vengono identificati con il volto di un particolare attore, oppure personaggi dei fumetti vengono creati ispirandosi a qualche star cinematografica.
Anche se non siete esperti di fumetti, conoscerete senz’altro i tre più importanti eroi degli anni ‘30, il decennio in cui esplose la moda degli eroi dei fumetti al cinema: Tarzan, Flash Gordon e Dick Tracy. La fama di Tarzan è sicuramente dovuta più ai fumetti e al cinema che ai romanzi in cui il personaggio fu concepito; il cinema quasi mai, soprattutto negli anni ‘30 e ‘40, si interessò al ritorno di Tarzan in patria (nel romanzo la parte più significativa era proprio la trasformazione di Tarzan in Lord Greystoke) mentre si concentrò sulle avventure eccezionali che il personaggio incontrava nella giungla. Protagonista già di film muti (“Tarzan of the apes” del 1918 di Scott Sidney), i numerosi film dei decenni successivi (diverse decine di titoli) lo vedono alla prese con uomini ed animali mostruosi, o districarsi in ambienti ostili. In “Tarzan and the Golden Lion” di J.P.McGowan (1927) l’eroe si ritrova in un’antica città disabitata; in “Tarzan’s desert mistery” di William Thiele (1943) è alle prese con animali giganti e piante carnivore; donne leopardo lo sfidano in “Tarzan and the Leopard Woman” (1945) di Kurt Neuman, regista anche di “Tarzan and the Amazons” (1946); interessante è la presenza femminile in questi film. La donna ha il compito o di addolcire la rozzezza dell’eroe o, se gli si vuole contrapporre, diventa una specie di mostro, un nemico da combattere.
Se l’eroe della giungla richiamava atmosfere e ambienti primitivi e selvaggi, Flash Gordon coinvolge direttamente la dimensione del futuro, mondi e galassie sconosciute. Creato nel 1934 da Alex Raymond, la popolarità del personaggio impose la realizzazione di tre serials, dal 1936 al 1938, che illustravano le avventure dell’eroe, teso a ripristinare i valori della libertà sul pianeta Mongo, governato dal perfido Ming. Un lungometraggio dedicato al personaggio si avrà solo nel 1980, per la regia di Mike Hodges.
Meno conosciuto in Italia è il personaggio di Buck Rogers, eroe scaraventato nel futuro in seguito all’inalazione di una sostanza radioattiva. Precedente a Flash Gordon (venne creato da Philip F. Nowlan e Dick Calkins nel 1929), non ebbe eguale successo e venne portato sullo schermo solo nel 1939, con il serial “Buck Rogers” diretto da Ford L.Beebe.
Non pensiate che, dal punto di vista tecnico, i film di Flash Gordon fossero molto diversi da quelli di Tarzan. In realtà nella fantasia dei registi e degli scenografi spesso il futuro e il selvaggio finivano per coincidere; così la giungla di Tarzan, oltre alle comuni fiere, era abitata da animali straordinari, che potevano trovarsi in qualche pianeta sconosciuto; i costumi e gli ambienti dei pianeti in altre galassie potevano ricordare, paradossalmente, quelli di civiltà antichissime.
Con Dick Tracy lo straordinario non viene riferito al selvaggio o al futuro, ma direttamente alla frenetica dimensione urbana degli anni ‘30; la figura del detective, ripresa direttamente dal pulp, mette in luce i numerosi conflitti che si celano dietro l’apparente benessere della grande città. Dick Tracy fu creato da Chester Gould nel 1937 e, come altri eroi, decide di difendere la legge dopo l’assassinio dei suoi genitori. Un fumetto duro, dove l’eroe si confronta con personalità quasi perverse nella loro cattiveria; non a caso, nelle realizzazioni cinematografiche, oltre alla interpretazione dell’eroe, era ancora più importante la caratterizzazione del cattivo di turno: in “Dick Tracy” (1937), diretto da Ray Taylor e Alan James, il nemico dell’eroe è The Lame One; in “Dick Tracy return” (1938) di William Witney e John English è Pà Stark; gli stessi registi (che firmeranno, come vedremo, molti altri serial dedicati ai personaggi dei fumetti) girano l’anno successivo “Dick Tracy’s G-Men”, dal clima quasi orrorifico grazie a Zarnoff, criminale resuscitato dalla sedia elettrica. In Dick Tracy non si rinuncia al fantastico, dal momento che il nemico del film successivo (“Dick Tracy Vs. Crime Inc” -1941- stessi registi), The Ghost, è in grado di rendersi invisibile. Nel realizzare le storie di Dick Tracy i registi dovevano, oltre a precisare l’ambientazione urbana, rendere le sagome dei diversi personaggi aderenti al fumetto, dove apparivano deformate, quasi espressionisticamente. Altro importante nemico della criminalità diffusosi negli anni ‘30 fu l’Agente segreto X-9, creato da Alex Raymond nel 1934, su soggetto di uno dei maggiori scrittori di pulp, Dashiell Hammet. Nel 1937 si realizzò un serial intitolato “Secret Agent X”, realizzato da Ford L.Beebe e Cliff Smith.
Negli anni ‘40 i serial e i lungometraggi continuano, sia riproponendo gli eroi già portati al successo nel decennio precedente, sia con nuovi personaggi. “King of the Royal Mounted” (1940), “King of the Mounties” (1942), “The Yukon Patrol” (1942), sempre di William Witney e John English, celebrano le gesta della giubba rossa Sgt. King (in Italia nota come Audax). Negli anni ‘40 appaiono poi i serial dedicati a Batman (Batman, 1943; Batman e Robin, 1948) e Superman (Superman, 1948); ma i personaggi che vantano maggiori titoli sono meno conosciuti in Italia: l’eroe western Red Ryder (27 titoli negli anni ‘40) e, soprattutto, un altro cowboy, Hopalon Cassidy, creato nel 1912 da Clarence E. Mulford. Sono ben 66 le pellicole dove è protagonista; l’attore più famoso che lo impersonò diverse volte fu Robert Mitchum.
Vi chiederete a questo punto se l’idea di trasformare eroi dei fumetti in personaggi cinematografici si sia realizzata solo negli Stati Uniti; in effetti l’Europa, forse per un atteggiamento un po’ snobistico, colse molto tardi questa possibilità. Forse la nazione più attiva fu la Francia; i film dedicati a “Bécassine”, di Pier Caron (1939), all’orfanello Bibì Fricotin, diretto nel 1950 da Marcel Bustene e alla famiglia Fenouillard (Yves Robert -1959-), non sono particolarmente rilevanti. Una novità costituì invece Barbarella di Roger Vadim, da un personaggio creato da Jean-Claude Forest nel 1962. L’erotismo, sempre accennato ma mai esibito nei serial americani, diventa esplicito. La presenza scenica di Jane Fonda non fa rimpiangere Brigitte Bardot, alla cui immagine era ispirata l’eroina dei fumetti. Per quanto riguarda l’Italia, invece, i primi tentativi degni di nota si ebbero solo a partire negli anni ‘60, e si iscrivono in questo nuovo filone in cui l’avventura si unisce all’erotismo. Come nel caso dei B movies americani, anche in questo caso ci troviamo di fronte a lavori snobbati a livello critico, e che invece contengono un tesoro di esperienze e di professionalità importanti per valutare il cammino del nostro cinema. Se si prescinde dal lungometraggio del 1942 Cenerentola e il signor Bonaventura per la regia di Sergio Tofano e con Paolo Stoppa protagonista, in cui il riferimento al fumetto è minimo, la maggiorparte dei film è dedicata agli eroi del crimine degli anni ‘60: Diabolik, Kriminal, Satanik. Nato nel 1962 da Angela e Luciana Giussani, Diabolik rappresenta, a livello mondiale, il primo eroe dei fumetti totalmente negativo, dedito con successo al crimine e sempre in grado di sfuggire alla giustizia. Nel 1968 Diabolik venne portato sullo schermo da Mario Bava, in un film straordinario, dove il regista preferisce accentuare il grande armamentario tecnologico inventato dal criminale, ricordando le più costose operazioni americane che ebbero per protagonista James Bond. Kriminal è un personaggio nato sulla scia di Diabolik, di minore successo, anche se frutto di due autori geniali quali Max Bunker e Magnus. I due film dedicati al personaggio (Kriminal di Umberto Lenzi -1967- e “Il marchio di Kriminal” di Fernando Cerchio -1968) non sono all’altezza del film di Bava. Sempre Magnus e Bunker idearono Satanik, cui venne dedicato un mediocre film nel 1968, per la regia di Piero Vivarelli. Ai nostri giorni, il regista che con più genialità e originalità ha saputo accostarsi al mondo del fumetto è senz’altro Maurizio Nichetti: in “Volere volare” (1991) la recitazione dell’attore si modella su quella del cartoon, avvicinandosi alla gestualità tipica dei personaggi dei fumetti e costituendo dei precedenti per altri film. Lo stesso esperimento lo conduceva, con ben altri mezzi, Robert Zemeckis in “Chi ha incastrato Roger Rabbit?” (1988).
A partire dagli ani ‘60 il rapporto fra il cinema e i fumetti viene a mutare, in seguito alla riscoperta del valore artistico dei B movies e, comunque, del cinema classico hollywoodiano. Recuperare il fumetto significava, nell’ottica dei cineasti moderni, accostarsi a una tradizione letteraria troppo a lungo considerata minore e mettere in luce i rapporti -mai così stretti come nel cinema- fra cultura popolare e espressione artistica. Anche quando, in anni recenti, si sono riproposti personaggi già apparsi sullo schermo decenni fa, lo si è fatto con una coscienza culturale e un atteggiamento impegnato del tutto nuovo. D’altra parte molti importanti cineasti avevano subito il fascino del fumetto e intendevano trarre dal suo mondo delle fonti d’ispirazione. Pare che Federico Fellini sceneggiò una storia di Flash Gordon e sicuramente progettò di realizzare un film su Mandrake con protagonista Marcello Mastroianni. Sicuramente la riproposizione di personaggi dei fumetti al cinema oggi viene realizzata con estrema consapevolezza da parte dei registi; in alcuni casi, come nel “Greystoke; la leggenda di Tarzan” di Hugh Hudson, il regista approfondisce la psicologia del personaggio e si richiama più all’origine letteraria che al personaggio dei fumetti; Robert Altman in “Popeye” approfondisce il valore sociale del personaggio, facendone un oppositore a qualsiasi forma di oppressione. Altri autori approfondiscono il valore figurativo del fumetto, come Warren Beatty in “Dick Tracy” (1990); in questo film il regista si compiace a ricostruire, con grande virtuosismo, l’alterazione somatica dei personaggi del fumetto di Chester Gould; quando avete visto il film, siete riusciti a riconoscere a prima vista attori come Madonna, Al Pacino, Dustin Hoffman, William Forsythe, così incredibilmente sfigurati?
Esistono anche personaggi puramente cinematografici, dalle caratteristiche tipicamente fumettistiche, come Indiana Jones di Steven Spielberg; il personaggio è infatti capace di imprese che sembrano sfidare i limiti naturali di resistenza, proprio come avviene nelle strisce. Non è un caso che questi eroi diano origine a delle vere e proprie saghe, che riprendono dunque la tradizione dei serial; il rischio è però, come è avvenuto per le numerose produzioni di George Lucas e Steven Spielberg, che la ripetizione continua dello stesso personaggio finisca per rendere prevedibili le sue avventure, fenomeno che non si verifica nel fumetto.
E’ merito anche del cinema, comunque, se il fumetto è stato riscattato come forma d’arte. L’analisi più acuta di questa situazione è stata proposta dal regista francese Alain Resnais, un autore considerato impegnato ma guarda caso un grande amante dei fumetti (suo un fondamentale studio su Dick Tracy): in “Voglio tornare a casa” (1989) un autore di fumetti americano si trova a fare un viaggio in Francia; la figlia, che odia la volgarità della cultura americana a confronto con la grande tradizione europea, sarà sconvolta dal vedere come un grande accademico francese, piuttosto che ascoltare e mostrare interesse per i suoi lavori letterari, subirà lo straordinario fascino del genitore. Una critica feroce, dunque, dell’intellettualità presuntuosa e disinteressata alle forme d’arte “minori”. Una dimostrazione di come questo film di Resnais non sia un evento isolato nella sua filmografia ma costituisca una riflessione più profonda sull’intero suo cinema, la si può cogliere nei recenti due capolavori del regista (“Smoking, no smoking”), laddove le varie sequenze sono introdotte da quadri fumettistici che trovano un immediata corrispondenza con la costruzione delle scene. Ad indicare come la figuratività del fumetto incide in maniera profonda anche nelle tecniche di ripresa più ardite e sperimentali.
I supereroi
Il supereroe è stato il personaggio del fumetto probabilmente con più frequenza riproposto al cinema. Ad attrarre il pubblico erano non solo le straordinarie avventure, ma soprattutto il poter vedere, con un notevole effetto di verosimiglianza, gli incredibili poteri di cui l’eroe disponeva.Se i film che tutti noi abbiamo visto negli ultimi anni rendono quasi ovvie queste osservazioni, potete immaginare come, negli anni ‘40, la realizzazione di queste opere dovesse essere tutt’altro che semplice, dovendo rendere credibili, con mezzi ben più rudimentali, situazioni straordinarie. Alcuni cercarono di aggirare le difficoltà; se era possibile con un personaggio come Batman, un uomo in realtà normale ma che dispone di tecnologie sofisticate, altri eroi avevano delle caratteristiche così peculiari (il volo di Superman, per esempio) da rendere obbligatorio il ricorso a trucchi. La prima opera significativa fu Capitan Marvel, personaggio dei fumetti creato nel 1938 da Earl e Otto Binder e disegnato da C.C.Beck; capace di trasformarsi in superuomo pronunciando la formula magica “Shazam”; Capitain Marvel aveva un nemico degno di lui in The Scorpion, mascherato, a metà fra uno scienziato pazzo e un vecchio alchimista che cerca di trasformare i metalli in oro. Nel film “The adventure of Captain Marvel” (1941), diretto da William Witney, si puntò soprattutto sulla prestanza fisica. A interpretare l’eroe vi era un campione olimpionico del sollevamento pesi, Tom Tyler, che aveva come controfigura acrobatica Dave Sharpe. Ci si assicurava così, contemporaneamente, sia la prestanza fisica sia l’agilità atletica. Una maggiore precisione tecnica era invece richiesta da un personaggio come Superman, laddove si doveva ritrarre l’eroe in volo. Precedentemente era stato realizzato un serial su Batman, ma l’uomo pipistrello, come abbiamo già detto, non necessitava di molti elementi fantascientifici. Le opere a lui dedicate, pur avendo alcune particolari pregi dal punto di vista delle idee figurative (in particolare il film “Batman” diretto da Leslie H.Martinson nel 1966) non mostravano particolari soluzioni tecniche. Il primo serial dedicato a Superman, invece, (“Superman”, 1948, regia di Spencer Gordon Bennet) fu un fallimento proprio perché la produzione rifiutò di usare accorgimenti tecnici particolari per evidenziare il volo dell’eroe, rendendo francamente ridicola la raffigurazione del personaggio; con “Atom Man Vs. Superman” (regia di Spencer Gordon Bennet, 1950) e “Superman and the Mole Men” (regia di Lee Sholem, 1951) la situazione migliorò, anche se i maggiori pregi di questi lavori, più che sulla tecnologia, vertono sulla sceneggiatura. I film più popolari e più riusciti sul super eroe sono sicuramente rappresentati dalla trilogia con protagonista Christopheer Reeve, in questi anni più volte visti anche in televisione. Il primo, diretto da Richard Donner nel 1978, ha il merito di rendere finalmente credibile il volo del personaggio anche se, dal punto di vista della storia, la regia di Richard Lester in “Superman 2” (1980) e “Superman 3” (1983) appare migliore, tesa a interpretare la psicologia profonda del personaggio.
Un ulteriore spinta alla rappresentazione nel cinema di supereroi fu dovuta all’enorme successo dei personaggi del gruppo Marvel, dovuti alla genialità di Stan Lee. Oltre a dare origine a personaggi divenuti celebri e in grado di sostituirsi a precedenti eroi, Lee ebbe il merito di riprendere alcune figure di secondo piano di diversi anni prima e di rinnovarle, sia dal punto di vista figurativo sia da quello delle storie. Per esempio è il caso di Captain America, creato nel 1941 da Joe Simon e Jack Kirby per puri motivi di propaganda; si tratta di un uomo comune che, a causa di un siero, si tramuta in un eroe invincibile. Stan Lee seppe riprenderlo e inserirlo in nuove avventure che evitavano quel tono propagandistico tipico degli anni della guerra. Il primo film a lui dedicato, realizzato nel 1944, per la regia di John English e Elmer Clifton, con Dick Purcell quale protagonista, risente ancora del clima di propaganda; nel 1978 l’Universal realizzò un altro “Captain America”, per la regia di Rod Holcomb e con protagonista Reb Brown; in questo caso l’eroe risente positivamente della ricchezza che al personaggio seppe aggiungere Stan Lee. Doc Savage, creato nel 1933 da Kenneth Robeson, è un altro rappresentante del nazionalismo USA rinnovato da Lee. Il film “Doc Savage, l’uomo di bronzo”, del 1974 e diretto da Michael Anderson, ripropone però, in piena guerra del Vietnam, un personaggio fortemente ideologizzato.
L’eroe comunque più celebre del gruppo Marvel che sia mai stato portato sugli schermi è senz’altro l’uomo ragno, in realtà il timido giornalista Peter Parker che, in seguito alla puntura di un ragno, ha subito un’alterazione genetica grazie alla quale possiede gli strumenti per opporsi a menti criminali sempre più perverse e sofisticate. La trilogia realizzata dal 1977 al 1979, pur dignitosa, non ha dato luogo a risultati particolarmente apprezzabili. Anche l’Incredibile Hulk, portato sullo schermo due volte nel giro di due anni (“L’incredibile Hulk” di Kenneth Johnson del 1978 e “Il ritorno dell’incredibile Hulk”, realizzato dallo stesso regista l’anno successivo) perde la forza espressiva e la qualità letteraria del personaggio. Il cinema può affrontare con successo questo eroi solamente se trova un certo distacco dalla pagina del fumetto e non si limita all’azione ma complica in parte la psicologia del personaggio, magari anche prendendo ironicamente le distanze dalla storia narrata, come fa Richard Lester in “Superman 1” e “Superman 2”. O, meglio ancora, Tim Burton in “Batman” (1966) e “Batman. Il ritorno” (1992), dove del personaggio vengono anche evidenziati i limiti, sia del carattere, sia in merito ai valori di giustizia che intende difendere. A questa profondità psicologica, il film aggiunge una creatività figurativa straordinaria, dove Burton, come aveva fatto Beatty per Dick Tracy, riesce a trasferire lucidamente l’atmosfera del fumetto su pellicola. Il terzo film della trilogia (“Batman forever” diretto da Joel Schumacher nel 1995) non è invece, per limiti di sceneggiatura, all’altezza degli altri due. Poche sono invece le eroine femminili; la tendenza a creare dei doppi femminili agli eroi (la bat-donna, per esempio), che ha suscitato un qualche richiamo nei fumetti, non ha avuto altrettanto successo sullo schermo. Solo il personaggio di Wonder Woman, una superman femminile creata nel 1942, ha dato luogo a un tv movie di qualche successo. Quando un personaggio femminile si affianca all’eroe, più che aiutarlo sembra metterlo in difficoltà; l’esempio più splendido, a questo proposito, è il personaggio di Catwoman, impersonato da Michelle Pfeiffer in “Batman. Il ritorno” di Tim Burton.