Berio-D’Amico: nemici come prima
Da L’Acropoli 2 / aprile 2003, pp.266-271
Recensione alla corrispondenza fra Luciano Berio e Fedele D’Amico.
Luciano Berio – Fedele d’Amico
Nemici come prima Carteggio 1957 – 1989
A cura di Isabella d’Amico
Introduzione di Enzo Restagno
Archinto, Milano 2002 €15.50
La corrispondenza fra Luciano Berio e Fedele d’Amico descrive la nascita e il consolidarsi di un amicizia capace di entusiasmare il lettore al di là dell’interesse specifico verso la materia musicale. Nell’arco di pochi giorni, infatti, una polemica condotta in modo aspro, non privo addirittura di inopportuni riferimenti personali, si trasforma in una rapporto di stima, consolidatosi nel corso degli anni in una preziosa amicizia. Questo mutamento, registrato dalla corrispondenza, è di carattere talmente sorprendente da dare l’impressione di un’invenzione letteraria. Pochissimi narratori saprebbero, in poche pagine, rendere credibile un’evoluzione, al contempo emotiva e intellettuale, così repentina.
Tali osservazioni non devono invero far dimenticare che ci troviamo di fronte a un’importante documentazione, rilevante non solo per la storia musicale del secondo Novecento, ma per l’insieme della cultura italiana dell’ultimo dopoguerra. Quanto viene discusso nel carteggio, inoltre, non possiede solo un valore storico; le diverse tematiche affrontate da Berio e d’Amico nell’arco di un trentennio, al di là del carattere contingente, presentano implicazioni e sviluppi in grado di interrogare a tutt’oggi la cultura musicale italiana. E rivelano come Berio e d’Amico condividessero già allora una comune sensibilità che, dal singolo problema, li portava a comprendere con significativo anticipo le principali questioni in cui si dibatteva non solo la musica, ma tutta la problematica estetica di quei ricchi quanto controversi anni. Da questo punto di vista – e tenendo presente la complessità del dibattito che allora interessò la cultura italiana – possiamo individuare nelle posizioni dei due quelle che meglio compresero i limiti concettuali in cui allora la discussione si presentava; tanto che le loro posizioni – a differenza di molte altre dell’epoca – possono ancora oggi manifestare una profonda attualità e rappresentare un valido punto di riferimento per i percorsi di ricerca più recenti.
La lettura di questa corrispondenza, che pure costituisce un materiale minimo rispetto alle riflessioni che in quegli anni avevano ad oggetto la ricerca musicale, permette di comprendere quanto il tema coinvolgesse i principali intellettuali, favorendo una comunicazione fra le diverse arti e fra i molteplici ambiti della cultura (di particolare interesse è il dibattito, di cui nel carteggio c’è ampia documentazione, a proposito del concetto di “opera aperta” proposto da Umberto Eco). Se è vero che la musica contemporanea – tranne per sporadici periodi, particolarmente favorevoli – rimase sempre in una nicchia tutto sommato riparata ed esclusiva rispetto ad altre produzioni artistiche, pure rilanciò un dibattito estetico che coinvolse e investì – in questo caso quindi in modo tutt’altro che esclusivo – ricercatori di qualsiasi campo.
Il “miracolo” dell’amicizia tra Berio e d’Amico, così come testimoniata dalla loro corrispondenza, è stato reso possibile da un atteggiamento intellettuale carico di implicazioni etiche; una disponibilità al confronto che si potrebbe definire socratica, dove lo scambio di opinioni, anche se fra loro distanti e sostenute con durezza, viene preferito alla acritica identità di vedute. Il contrapporsi di posizioni divergenti, infatti, consente di evidenziare reciprocamente i rispettivi limiti, permettendo di migliorare le proprie convinzioni e di scoprire ciò che il proprio punto di vista – probabilmente pregiudiziale – in alcuni casi tende ad occultare. Ne è una prova “l’impeto di masochismo” con cui Berio preferisce d’Amico, e non “i soliti amici laudatores”, quale autore adatto a pubblicare una propria monografia. E la motivazione, così come riportata nella lettera del 23 novembre 1959, merita di essere letta per intero: “Ricordo anzi di aver detto a Strobel che avrei preferito te agli altri (…): al che, Strobel mi diede del pazzo suicida. Ma per me la questione è un’altra. Cioè, è tutta qui: da te ho imparato qualcosa.”
Il risultato di questo confronto intellettuale, quanto cioè i due abbiano imparato l’uno dall’altro, è pienamente verificabile nel carteggio, nel corso del quale si nota come ciascuno dei due interlocutori finisca per acquisire parte delle posizioni dell’altro, almeno su alcuni temi. Non è difficile d’altronde constatare come le posizioni iniziali di entrambi fossero limitate, e non solo a causa della vis polemica impiegata. Da questo punto di vista, anzi, l’atteggiamento di d’Amico si presenta più corretto e distaccato, fosse solo perché non confonde mai la polemica sul contenuto col giudizio sulla persona. E anche quando l’amicizia tra i due sarà consolidata, egli tenderà sempre a rimproverare al musicista il difetto di far slittare il confronto critico sul piano personale.
Conviene però accennare in modo più accurato ai termini della polemica che coinvolge i due, dal dicembre 1957 al gennaio 1958; vi appaiono infatti le ragioni di quella affinità intellettuale indispensabile a spiegare tutte le successive prese di posizione riportate nel carteggio. In quel periodo la rivista “Il Contemporaneo” aveva deciso, per commemorare l’anniversario della morte di Maurice Ravel, di offrire la possibilità a quattro diversi compositori di valutarne l’eredità. Fedele d’Amico, che della rivista era critico musicale, decise di inoltrare la richiesta a quattro compositori che, per ruolo generazionale e caratteristiche stilistiche, occupavano posizioni dissimili. Ma tali motivazioni (“militanti in tendenze opposte”, “alcune musiche Sue e dei Suoi amici”) suscitano la contrarietà di Berio; egli rifiuta le espressioni di “tendenza” e di “militanza”, e soprattutto non pensa che l’eventuale appartenenza ad una di queste debba condizionare il giudizio storico su Ravel. Il carattere stizzito della risposta, con la quale comunque Berio informava di volere aderire all’iniziativa, obbliga d’Amico ad una replica; in essa egli cerca di giustificare, sulla base di valutazioni oggettive, le espressioni scelte. Ritiene sia indubbia l’esistenza di vere e proprie “tendenze” nell’ambiente musicale italiano, riferibili a contrapposte convinzioni estetiche generali, nelle quali si riconoscono gruppi di compositori omogenei che, pure, possono poi dare origine a poetiche o a lavori comunque differenti (“dalla posizione che Lei occupa … sostiene certe idee comuni insieme con altri”). Berio d’altronde non ignorava – ne era infatti testimonianza la nutrita serie di riserve che d’Amico aveva più volte esplicitato nei confronti della ricerca musicale contemporanea – che il musicologo riteneva detta “tendenza” prigioniera di un dogmatismo stilistico capace di mettere in secondo piano le eventuali differenze tra i singoli compositori.
E’ proprio questa considerazione complessiva, che non intende – almeno apparentemente – approfondire e articolare la conoscenza del fenomeno che pure pretende di giudicare, ad irritare Berio; il quale, nella successiva risposta (23 dicembre 1957) trascende nel confronto personale (“io non volevo affatto prendermela con la Sua idea … volevo prendermela solo con Lei”), e accusa espressamente l’interlocutore di “maldicenza” e di “malafede” (“esprimerle tutto il mio rincrescimento per il fatto che un uomo come Lei, del Suo valore, preferisca fare della facile e divertita maldicenza invece di contribuire serenamente a una nuova vita musicale”). Sembrerebbe una risposta definitiva, tale da non sopportare repliche, se non anche in questo caso di natura personale. E invece d’Amico, sicuramente risentito sul piano intellettuale dall’accusa di superficialità, risponde con una lunga lettera (30 dicembre 1957) nella quale, in modo dettagliato e sicuramente a tutt’oggi proficuo per qualsiasi studioso, precisa la propria valutazione in merito al serialismo e alla ricerca musicale contemporanea del secondo dopoguerra.
La puntualità di tale analisi sembra spiazzare delle tutto il compositore il quale, sulla base di tali osservazioni, non può certo replicare i giudizi di faciloneria precedentemente formulati; e, in modo improvviso, la lettera del 10 gennaio 1958 (anche se il manoscritto originale riporta erroneamente la data 1957), mostra un cambio repentino d’opinione che, in questi termini, risulta oltre che inaspettato, forse volutamente esagerato (“desidero solo non tardare a dirLe che sono profondamente grato della Sua ultima lettera: e non le nascondo che, per tutta la settimana, il pensiero di Lei e di quanto mi ha scritto mi ha tenuto in buona compagnia”, “con molta stima”, “Se ha occasione di venire a Milano non manchi, La prego, di farmelo sapere”).
Prima di accennare alla sostanza delle argomentazioni di d’Amico, destinate a inaugurare un’amicizia per anni inattaccabile e di grande valore per l’esperienza umana dei due intellettuali, conviene forse dire che, pur nell’asprezza delle polemiche, il lettore si rende facilmente conto che tutto viene generato da un equivoco e che i due hanno molti più elementi in comune di quanto inizialmente credono. In primo luogo il rifiuto di qualsiasi posizione ideologica; Berio non vuole essere etichettato, non sopporta l’idea che la poetica della nuova musica venga respinta sulla base di convinzioni estetiche generali che privano la singola opera della sua specificità. E, sicuramente, egli aveva interpretato in questo senso gli articoli di d’Amico su “Il Contemporaneo”, evidentemente condizionato da un ambiente critico che, in linea di massima, non esprimeva una valutazione estetica adeguata sui nuovi compositori ma si limitava a contestarli sulla base di un pregiudizio, teso a mettere in dubbio la legittimità razionale delle nuove ricerche, senza approfondirle ulteriormente.
D’Amico capisce al volo questa situazione e, incurante del tono quasi insultante del compositore, gli mette in faccia la verità dei fatti, propone dubbi sul piano estetico che Berio, probabilmente, non solo trova legittimi, ma in parte propongono valutazioni critiche che il compositore andava già elaborando autonomamente. Ed emerge in questo caso la qualità umana di Berio, il quale sa riconoscere i propri errori di valutazione e sa cogliere dall’interlocutore – anche nel momento del dissenso – le osservazioni che ritiene giuste; non facilitato in questo dallo stesso d’Amico, il quale non fa nulla per compiacere il musicista se non proporre il puro confronto intellettuale, aggiungendo però un gelido “Lei non mi conosce personalmente, ma probabilmente saprà da conoscenti comuni che io sono uomo scortese, e soprattutto antipatico”.
Berio ha il merito di riconoscere nelle posizioni di d’Amico – ammettendo quindi il carattere errato della sua prima valutazione – un rifiuto per le impostazioni ideologiche identico al suo. Non si può d’altra parte affermare che le ragioni di d’Amico – in questo primo scambio di opinioni– fossero superiori a quelle di Berio; sicuramente però il critico musicale aveva un’idea più esatta delle doti del suo interlocutore e – nel complesso dell’intero epistolario – sembra la personalità più equilibrata sulle cui posizioni finiscono spesso per convergere quelle dell’amico. Quello che la lettura del carteggio a mio parere permette di concludere è che le opinioni di entrambi gli interlocutori allora presentassero dei limiti; e che, nel corso della loro relazione, hanno di molto cambiato i rispettivi convincimenti, ciascuno facendo in parte propria la lezione dell’altro.
La posizione di d’Amico sulla ricerca contemporanea, per esempio, presentava ancora evidenti limiti storici, che il confronto con Berio finirà per attenuare. D’Amico si trova nella posizione di chi non ha ancora compreso che la ricerca più innovativa – che si veniva in quegli anni manifestando nei seminari di Darmstadt – rappresentava, pur tra mille limiti e ingenuità, l’unica e originale possibile via di evoluzione della musica nel nostro tempo. Contrappone dunque le nuove ricerche alle composizioni di Dallapiccola o di Britten, ritenendo queste ultime un esito compositivo al quale non è forzatamente destinata a seguire una ricerca più radicale; oppure considera un compositore come Turchi, invitato al pari di Berio a commemorare Ravel in nome di una “tendenza” più vicina alla tradizione, quale possibile alternativa ai nuovi compositori, quando oggi l’inattualità di quella ricerca appare più che evidente. In particolare, d’Amico non ha ancora chiaro a se stesso – e questo emerge dalla sua introduzione ai differenti contributi su “Il Contemporaneo” – se la musica nel secondo Novecento debba svilupparsi secondo i principi della continuità o della rottura. E, d’altra parte, le osservazioni di Berio che definiscono la relazione con Ravel quale “paradiso perduto”, rafforzano nel critico tale convinzione e lo portano a individuare una intima contraddizione: non si può fondare una poetica sulla consapevolezza dell’impossibilità di esprimersi secondo un modello sì sorpassato, ma comunque definito “paradiso”; è come riconoscere l’inevitabile inferiorità della propria ricerca rispetto alla tradizione, rispetto alla quale pure si afferma la necessità del superamento.
Il fatto che d’Amico non sappia decidersi sul valore effettivo della nuova musica, ma soprattutto stenti a individuarne una poetica, si nota in particolare nell’uso costante e, per una penna felice come la sua, a volte eccessivamente ripetitivo, del termine “ambiguità”, che ritorna in modo ossessivo sia nelle lettere, sia nel materiale documentario che occupa la seconda parte del volume. L’espressione di per sé poteva non essere rifiutata dal compositore, ma mentre per d’Amico manifestava la debolezza intrinseca della nuova poetica musicale, per Berio ne esaltava le qualità più alte, in base alle quali il codice linguistico, piuttosto che preesistere alla composizione, si definisce in modo di volta in volta differente nello stesso atto del comporre. Ed è illuminante leggere come già nel 1959, in occasione della recensione del lavoro di Berio Allez–hop al Festival di Venezia, d’Amico sembri usare il termine ambiguità nel senso del compositore: “Atonalità vuol dire soltanto ambiguità tonale, vuol dire musica polisensa, che ci si presenta, in grado maggiore o minore, come un test, che ciascuno di noi leggerà a suo modo, gerarchizzando le note a suo modo”.
E’ grazie all’accoglimento dello stesso termine, per esprimere pure posizioni in parte distanti, che è possibile individuare la sostanza di quel nucleo comune appartenente da sempre alle convinzioni musicali dei due, capace di giustificare la successiva amicizia. A confermare tale valutazione, nel carteggio sono presenti diverse prese di posizione di Berio riprese dalle riflessioni di d’Amico. Berio si accorge che le osservazioni di d’Amico sulla serialità affrontano problematiche riferibili in toto alla ricerca musicale del secondo Novecento, sicuramente avvertite con urgenza dallo stesso compositore: “Perché le mie opinioni, sebbene molto sfavorevoli alla vostra tendenza, sono completamente opposte a quelle dei vostri avversari abituali, quelli che vi rimproverano di avere ucciso la libertà attraverso regole e strutture prestabilite; laddove io vedo in voi l’esatto contrario, e cioè il completo divorzio fra tecnica teorizzata e prodotto musicale; il quale prodotto, quando ha strutture, le ha totalmente diverse da quelle che voi ci spiegate sulla carta”.
Chi conosce non solo la successiva corrispondenza fra i due, ma l’ulteriore riflessione teorica di Berio, sa quanto il compositore rifiuti quelle posizioni unilaterali che, piuttosto di invitare a sperimentare le possibili forme espressive dell’universo sonoro, fanno del compositore un’icona, simbolo di un atteggiamento che, al di là del prodotto musicale, gli assicura un ruolo riconosciuto all’esterno1. E’ chiaro quindi che certe affermazioni di d’Amico devono avere profondamente colpito il compositore, come quella sull’uso arbitrario che della tecnica concepita da Schoenberg è stato fatto dalla generazione di Darmstadt: mentre il postwebernismo “è frutto di un atteggiamento morale e spirituale”, una sorta di “mito esoterico”, i suoi epigoni ne hanno dato un’interpretazione positivistica, considerandolo una “evoluzione formale del linguaggio musicale”.
Sicuramente in questa affermazione Berio ha riconosciuto una convinzione condivisa e la possibilità di instaurare un dialogo fruttuoso; anche in lui – ed è questo il secondo elemento comune ai due, anche nel momento della più decisa contrapposizione – è forte ogni rifiuto di una interpretazione positivistica del fenomeno musicale, e più volte egli cita, per contrapporsi a quel modello, l’interpretazione della dodecafonia che in quegli anni andava diffondendo Riccardo Malipiero (“Certo che la serie non ha alcun potere strutturale nella musica dei Vlad, e dei Malipiero (junior), italiani e stranieri…”). Indubbiamente fra i due restano le distanze, soprattutto quando d’Amico afferma, provocatoriamente, che il postwebernismo è più rivolto al passato che al futuro e, quindi, tende a mostrare scetticismo sull’evoluzione di un linguaggio musicale. Emerge però un principio condiviso che in quegli anni non tutti intuivano: l’idea che il valore di una composizione musicale impostata sulla serie non dipendesse dalla scelta strutturale, ma dalla capacità di esprimere, attraverso quel linguaggio, una disposizione spirituale (che d’Amico identificava prevalentemente con la ascesi o la angoscia). Un’opinione simile a quella di Massimo Mila, altro critico musicale che, sfuggendo alla trappole delle rigide contrapposizioni manichee, aveva posto al centro della sua riflessione sul postwebernismo proprio questa convinzione .
Ritengo che l’aspetto più rilevante proposto dalla discussione dei due – che, prescindendo dalla specificità della serie, può tranquillamente essere esteso alle problematiche relative al comporre musica nei nostri anni – riguarda proprio la riflessione sul linguaggio nelle poetiche d’avanguardia. Nel ribadire la sua posizione antipositivistica, Berio afferma che è assurdo pretendere di costituire un nuovo linguaggio organico; nello stesso tempo però, nessuna comunicazione è possibile senza di esso. Di conseguenza, anche “l’impulso espressionistico a superare il linguaggio” non può realizzare quest’intenzione, che resta progetto utopistico, ma deve proprio esprimere “l’impossibilità di quel superamento”; “occorre in questo caso che del linguaggio rimanga almeno un’ombra, uno spettro, altrimenti poesia e musica scompaiono e resta solo il documento”.
Si capisce perché allora, nella musica contemporanea, nessuna convinzione teorica può rivendicare un ruolo esclusivo; il linguaggio, nella musica contemporanea, si elabora da sé, di volta in volta inventando un nuovo codice, che comunque esiste: “tra le invenzioni della musica d’oggi e l’idea di comunicazione musicale c’è un rapporto analogo a quello che corre tra fonetica e linguaggio: cioè un rapporto da ricostruire e percorrere ogni volta. Mentre invece tra la musica tonale e l’idea di comunicazione musicale il rapporto è simile a quello che intercorre tra una lingua specifica e l’uso che se ne fa”.
Non stupisce più, a questo punto, vedere in alcune lettere di Berio affermazioni che potrebbero tranquillamente uscire dalla penna del suo interlocutore; dalla lettera del 14 agosto 1963: “Il cosiddetto sistema dodecafonico, come vissuto dai successori di Schoenberg, ha coltivato in larga misura l’idea di linguaggio a livello nostalgico, il rimpianto di un paradiso perduto a livello musicale. Ce n’è voluto di tempo per accorgersi che anche la musica seriale non esisteva come istituzione linguistica ma, piuttosto, come indirizzo poetico, come strumento analitico, come stato d’animo…”.
Da allora in poi Berio e d’Amico si ritroveranno quasi sempre su fronti comuni: nella polemica contro l’ingenua ideologia musicale di Armando Plebe (in questo caso – ed è un tratto caratteristico di Berio – quello che più irrita il compositore è l’incompetenza, la scarsa professionalità), o contro il volume “Fase seconda” del musicologo Mario Bortolotto, dove le posizioni di Berio appaiono francamente esagerate e ingenerose e la replica di Bortolotto, riportata in appendice, convincente. Questa condivisione non evita a d’Amico di criticare la costante e inelegante caduta dei toni di Berio, che assume a volte la forma dell’insulto personale (“perché Armando Plebe dev’essere designato come il signor Plebe, ovvero come l’AP oppure la Plebe’s Co. Inc: queste ingiuriette non contribuiscono a far progredire le discussioni, credimi.”, oppure “Senti Berio, adesso ti faccio una paternale … Il tuo pezzo su Bortolotto è brillante, e contiene osservazioni pertinenti; ma anche ingiurie gratuite…”). Un richiamo insomma a quella lealtà e a quel rispetto intellettuale che, nel loro caso, aveva permesso la nascita di una grande amicizia da premesse tutt’altro che solide.
Un’amicizia che il carteggio, il quale prosegue fino alla morte di d’Amico nel 1989, testimonia anche nei riferimenti personali, o agli affetti, o alle richieste d’aiuto. L’Appendice contiene quasi tutta la documentazione cui nell’epistolario si fa riferimento, tutti contributi di grande interesse. Sarebbe stato forse opportuno – ed è l’unico appunto da rivolgere a questo importante volume – inserire integralmente il dibattito su “Il Contemporaneo”, in quanto le affermazioni di Turchi o di Dallapiccola, per quanto estranee ai contenuti della corrispondenza, avrebbero meglio permesso al lettore di inserire la sostanza di quel dibattito in un contesto storico più completo.