L’universo di Giordano Bruno
Una breve considerazione sulla posizione “copernicana” di Bruno, attraverso la citazione di alcuni passi significativi
L’universo di Bruno
Per comprendere il passaggio in Bruno dalle opzioni metafisiche generali a una particolare concezione dell’universo ho scelto dei passi significativi, che intendo commentare in modo analitico; mi sembra più opportuno rispetto a una vaga sintesi. Ho scelto in particolare dei passi in cui si affronta il problema dell’infinità dell’universo; ho quindi privilegiato un aspetto particolare rispetto a tutte le possibili osservazioni.
Bruno infatti, a proposito dell’universo, ha proposto altre analisi degne di nota. Per esempio, è riuscito addirittura a intuire alcune prove fisiche del copernicanesimo, anticipando il principio della relatività galileiana. Ho ritenuto più importante, però, sottolineare la considerazione bruniana dell’infinito, nonostante questa non sia necessariamente collegata alla scientificità della proposta copernicana; Copernico infatti, come abbiamo detto, non ci pensava affatto, Galilei con molta cautela ne accenna nella sua opera e, in genere, gli scienziati non ritengono il principio dell’infinità il più rilevante nell’ambito delle discussioni in cui erano coinvolti.
Per noi è invece concetto che riveste importanza fondamentale, in quanto implica la piena coscienza del valore epocale della teoria copernicana o – per utilizzare una terminologia cui abbiamo fatto accenno all’inizio del corso – il suo valore metaforico. La infinità dell’universo apre all’uomo infinite possibilità di conoscenza, ne esalta la natura e le doti, lo libera dalla schiavitù delle tradizioni e dai falsi dogmatismi. Lo spirito del moderno implicito nella teoria copernicana lo si evince proprio nell’ipotesi, che da quel principio viene dedotta, dell’infinità dell’universo.
da Giordano Bruno, De la causa, principio e Uno
E’ dunque l’universo uno, infinito, immobile. …è però infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato, e per conseguenza inmobile. Questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che si il tutto. Non si genera; perché non è altro essere, che lui possa desiderare o aspettare, atteso che abbia tutto lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in cui si cangie, atteso che lui sia ogni cosa. Non si può sminuire o crescere, atteso che è infinito; a cui come non si può aggiongere, cossì è da cui non si può suttrarre, per ciò che lo infinito non ha parti proporzionabili. Non è alterabile in altra disposizione, perché non ha esterno da cui patisca e per cui venga di qualche afezione. Oltre che, per comprender tutte contrarietadi nell’esser suo in unità e convenienza, e nessuna inclinazione posser avere ad altro e novo essere, o pur ad altro ed altro modo d’essere, non può esser soggetto di mutazione secondo qualità alcuna, né può aver contrario o diverso che lo alteri, perché in lui ogni cosa è concorde.
In questo passo Bruno ribadisce che l’infinito, in quanto totalità, è unità e non tollera alcun altro concetto ad esso esterno e che ad esso si contrapponga. Da questa convinzione vengono dedotte tutta una serie di caratteristiche – evidenziate in neretto – che differenziano l’universo, in quanto totalità non ulteriormente sintetizzabile, dalle qualità proprie dei fenomeni singoli e particolari. E’ quindi interminabile, non si muove localmente, non si genera, non si corrompe, non cresce e non diminuisce, e così via. Come potete notare, tutte queste caratteristiche sono tipiche di ogni fenomeno che noi percepiamo, che le possiede in quanto finito, particolare e, quindi, soggetto a mutamento. La totalità, proprio perché esaustiva, non può essere soggetta alle medesime condizioni, ma contenerle in sé tutte. Si tratta dell’antitesi fra l’Uno e il molteplice presente in ogni filosofia neoplatonica; solo che in questo caso non viene prospettata con i toni moralistici del neoplatonismo tradizionale, ma unicamente come una verità oggettiva propria della natura, che non si può ignorare se vogliamo comprendere in modo adeguato il senso della propria esistenza.
Notate l’espressione secondo la quale l’universo contiene in sé tutte le “contrarietà(di)”; Bruno non nega la verità della qualità particolari ma le subordina, dal punto di vista naturalistico, alla causa prima da cui provengono.
da Giordano Bruno, De la causa, principio e Uno
…Sotto la comprensione dell’universo non è parte maggiore o parte minore, perché alla proporzione dell’infinito non si accosta più una parte quantosivoglia maggiore che un’altra quantosivoglia minore; e però nell’infinita durazione non differisce la ora dal giorno, il giorno da l’anno, l’anno dal secolo, il secolo dal momento; perché non son più gli moneti e le ore che gli secoli, e non hanno minor proporzione quelli che questi a la eternità. Similmente ne l’immenso non è differente il palmo dallo stadio, il stadio dalla parasanga; perché alla proporzione del l’inmensitudine non più si accosta per le parasanghe che per i palmi. Dunque infinite ore non son più che infiniti secoli, ed infiniti palmi non son di maggior numero che infinite parasanghe. Alla proporzione, similitudine, unione e identità de l’infinito non più ti accosti con esser uomo che formica, una stella che un uomo; perché a quello essere non più ti avvicini con essere sole, luna, che un uomo o una formica; e però nell’infinito queste cose sono indifferenti. E quello che dico di queste, intendo di tute le altre cose di sussistenza particolare.
Il passo appena letto precisa quanto già affermato in precedenza; nel farlo, Bruno ripropone consuete argomentazioni neoplatoniche. Notate le osservazioni relative al tempo, laddove l’infinità dell’universo è estraneo al divenire temporale, che riguarda unicamente i fenomeni particolari. Vi invito a paragonare questi passi con le pagine agostiniane sulla temporalità, perché, da questo punto di vista, le rispettive osservazioni sono accostabili.
C’è però, già in questo passo, un brusco allontanamento dal neoplatonismo cristiano o tradizionale, che sottolinea ulteriormente l’originalità della posizione bruniana. E’ visibile questa differenza quando, nel passo, il ragionamento slitta dalle considerazioni temporali a quelle spaziali: se l’eternità dell’universo è indifferente al millennio o all’istante, per lui sullo stesso piano, così la sua infinitezza lo rende altrettanto impassibile verso qualsiasi proporzione, similitudine o natura. Per cui, nei confronti dell’universo infinito, la dignità del sole, della luna, dell’uomo o della formica risultano simili. Anche il sole, rispetto all’infinità dell’universo, diventa un granellino e, quindi, insignificante quanto un essere microscopico.
In questo elenco delle varie nature nei confronti delle quali l’universo si mostra superiore, Bruno comprende anche l’uomo. Nella sequenza del passo questo accenno può sfuggire, ma in realtà è di grande significato: l’uomo viene parificato alla formica o al sole; non è né più grande né più piccolo, né più importante né più indegno. Si sottolinea così una delle conseguenze culturali più enormi del copernicanesimo, che tanto preoccupava le autorità ecclesiastiche: l’uomo non è più collocato in un luogo privilegiato dell’universo, ma in un punto qualunque, e non può vantare o rivendicare una dignità maggiore degli altri esseri, animati o inanimati che siano. Deve dunque, con la sua attività che tanto Bruno loda, conquistarsi il suo spazio e il suo ruolo; ancora una volta, l’infinità dell’universo concorre a legittimare la facoltà conoscitiva dell’uomo.
da Giordano Bruno, De la causa, principio e Uno
Or, se tutte queste cose particulari ne l’infinito non sono altro ed altro, non sono differenti, non sono specie, per necessaria consequenza non sono numero; dunque, l’universo è ancor uno inmobile. … Dunque l’individuo non differisce dal dividuo, il simplicissimo da l’infinito, il centro da la circonferenza… Se il punto non differisce dal corpo, il centro da la circonferenza, il finito da l’infinito, il massimo dal minimo, sicuramente possiamo affermare che l’universo è tutto centro o che il centro dell’universo è per tutto, e che la circonferenza non è in parte alcuna per quanto per quanto è differente dal centro, o pur che la circonferenza è per tutto, ma il centro non si trova in quanto che è differente da quella. Ecco come non è impossibile, ma necessario, che l’ottimo, massimo, incomprensibile è tutto, è per tutto, è in tutto, perché, come semplice e indivisibile, può esser tutto, esser per tutto, esser in tutto. E cossì non è stato vanamente detto che Giove empie tutte le cose, inabita tutte le parti dell’universo, è centro de ciò che ha l’essere, uno in tutto e per cui uno è tutto. Il quale, essendo tutte le cose e comprendendo tutto l’essere in sé, viene a far che ogni cosa sia in ogni cosa.
Il passo conferma alcune convinzioni che noi abbiamo già esaminate: l’unicità dell’universo e il suo differenziarsi dai fenomeni singoli, che pure sono compresi in esso; il presentarsi l’universo quale coincidentia oppositorum; la compenetrazione fra le parti e il tutto, a confermare una visione panteistica; l’identità fra Dio e la natura, cui si accenna col riferimento a Giove (non a caso un esempio pagano).
Volevo però condurre la vostra attenzione ai passi centrali, dove si afferma che nell’infinità dell’universo coincidono il centro e la circonferenza; non è possibile non cogliere la coincidenza con quanto affermato da Cusano [cfr. pag.123] ed esprimere le medesime considerazioni riguardo le implicazioni culturali insite nella nuova concezione dell’universo.
Riferiamoci adesso ad un’altra delle numerose opere di Bruno; è in forma di dialogo, come altri suoi celebri scritti. L’oggetto è sempre l’infinità dell’universo. Il personaggio di Filoteo si fa interprete delle concezioni bruniane, cui si oppone Elpino.
da Giordano Bruno, De l’infinito universo e mondi:
FILOTEO
In questo siamo concordanti, quanto a l’infinito incorporeo. Ma che cosa fa che non sia convenientissimo il buono, ente, corporeo infinito? O che repugna che l’infinito, implicato nel semplicissimo ed individuo primo principio non venga esplicato più tosto in questo suo simulacro infinito ed indeterminato, capacissimo de innumerabili mondi, che venga esplicato in sì angusti margini di sorte che par vituperio il non pensare chequesto corpo, che a noi par vasto e grandissimo, al riguardo che alla divina presenza non sia che un punto, anzi un nulla?
Il passo vuole mostrare l’intima contraddizione teologica propria della cultura cristiana che si oppone all’idea copernicana e alla convinzione sull’infinità dell’universo. L’argomentazione di Filoteo è semplice: una volta che ammettiamo il carattere infinito dell’incorporeo – cioè di Dio – in quanto non possiamo concepirlo come dotato di limiti, bensì caratterizzato dall’onniscienza, dall’onnipotenza e da altre sovrumane qualità, non possiamo pensare che il frutto della sua attività sia una realtà finita, quale l’universo teorizzato dagli aristotelici cristiani. Come è possibile che un Dio, in teoria capace di creare infiniti mondi e di dare luogo a spazi senza confini, si sia limitato a un unico universo finito?
La considerazione è importante perché sottolinea un passaggio fondamentale – da noi già più volte evidenziato – dalla mentalità pre-moderna a quella moderna: nella prima si associava l’idea di perfezione alla dimensione della finitezza, dov’era possibile concepire un’insieme ordinato, proporzionale ed armonico. Nella mentalità moderna l’idea di perfezione viene invece associata all’illimitato, alla possibilità di proseguire un’attività senza mai incontrare limiti; la prova questa della capacità dell’uomo di progredire all’infinito e di avvicinarsi quindi sempre più alla perfezione.
da Giordano Bruno, De l’infinito universo e mondi:
ELPINO
Come la grandezza de Dio non consiste nella dimensione corporale in modo alcuno (lascio che non li aggionge nulla il mondo), cossì la grandezza del suo simulacro non doviamo pensare che consista nella maggiore o minore mole e dimensioni.
La replica di Elpino contrappone a Filoteo, come potete notare, l’obiezione tradizionale, ovvero l’opposizione tra la sfera materiale imperfetta e la pure realtà spirituale che non conosce imperfezione. E’ assurdo voler provare la grandezza divina secondo considerazioni di pura spazialità (e quindi materialità); la potenza spirituale di Dio va oltre le dimensioni spazio-temporali e dunque, per essere affermata, non ha bisogno che si affermi un’esistenza illimitata della materia.
da Giordano Bruno, De l’infinito universo e mondi:
FILOTEO
Assai bene dite, ma non rispondete al nervo della raggione; perché io non richiedo il spacio infinito, e la natura non ha spacio infinito, per la dignità della dimensione o mole corporea, ma per la dignità delle nature e specie incorporee; perché l’incomparabilmente meglio in innumerevoli individui si presenta l’eccellenza infinita, che in quelli che sono numerabili e finiti. Però bisogna che di un inaccesso volto divino sia un infinito simulacro, nel quale, come infiniti membri, poi si trovino mondi innumerabili, quali sono gli altri. Però, per la raggione de innumerabili gradi di perfezione, che danno esplicare la eccellenza divina incorporea per modo corporeo, denno essere innumerabili individui, che son questi grandi animali (de quali uno è questa terra, diva madre che ne ha parturiti ed alimenta e che oltre non ne riprenderà), per la continenza di questi innumerabili si richiede uno spacio infinito. Nientemeno dunque è bene che siano, come possono essere, innumerabili mondi simili a questo, come ha possuto e può essere ed è bene che sia questo.
Il passo è senz’altro il più complesso fra quelli che abbiamo letto, ma per noi di capitale importanza. L’infinità dell’universo non si evince per l’esigenza di attribuire a Dio una qualità infinità anche nell’ambito materiale; se così fosse, avrebbe ragione anche la teoria tradizionale ad opporsi. Il ragionamento che Bruno propone è invece il seguente: le singole realtà naturali sono, prese di per sé, imperfette; esse però presentano gradazioni di qualità molteplici, che possono classificarsi in ordine gerarchico. In altre parole, nei diversi fenomeni possiamo scorgere una presenza più o meno accentuata di una determinata qualità, senza che il presentarsi positivo di essa non possa essere pensato in forme ancora superiori. Per esempio: noi vediamo molti fenomeni che giudichiamo belli, eppure non sono belli alla stessa maniera; così come, anche a una cosa bellissima possiamo contrapporre una realtà ancora più bella, proprio perché non esiste limite possibile nei gradi di perfezione. Ogni fenomeno richiama dunque all’infinito come sua possibile perfezione, rimanda a qualcosa che lo supera in qualità. Questa qualità massima, concepibile all’infinito, non avrà dunque caratteristiche proprie dei singoli oggetti sensibili, altrimenti si potrebbe concepire una perfezione ancora superiore alla sua. Ma presenterà caratteristiche che superano i limiti obbligati in cui si trova coinvolta la materia; sarà dunque una realtà spirituale, per quanto interna alla materia stessa.
Questo vuol dire Filoteo quando afferma che le ragioni per cui si deve affermare l’infinità dello spazio non riguardano la dignità delle realtà materiali, ma di quelle incorporee, ossia spirituali. Le realtà materiali rimandano a una perfezione che trascende la materialità e che impone la dimensione dell’infinito su quella del finito. Dai gradi possibili di perfezione si evince che, perché questi possano concretizzarsi, deve esistere una spazialità e una temporalità infinita. E, per ricollegarci al ragionamento del precedente passo di Filoteo, è assurdo che Dio, nella sua perfezione, non abbia esplicato totalmente la propria potenza creativa, dando origine a infiniti mondi.
da Giordano Bruno, De l’infinito universo e mondi:
ELPINO
Diremo che questo mondo finito, con questi finiti astri, comprende la perfezione di tutte le cose.
FILOTEO
Possete dirlo, ma non già provarlo; perché il mondo che è in questo spacio finito, comprende la perfezione di tutte quelle cose finite che son in questo spacio, ma non già dell’infinite che possono essere in altri spacii innumerabili.
Elpino cerca di rispondere affermando che la perfezione si può concepire racchiusa comunque nello spazio infinito. Ma è una risposta debole; questo spazio può garantire la perfezione delle cose che contiene. Ma se non può contenere altri fenomeni, possibili a concepirsi, la cui esistenza contribuirebbe alla perfezione, allora non sarebbe perfetto. Deve esistere un universo infinito se deve contenere gli infiniti gradi di perfezione possibili.
da Giordano Bruno, De l’infinito universo e mondi:
FILOTEO
…Ora, per cominciarla: perché vogliamo o possiamo noi pensare che la divina efficacia sia ociosa? Perché vogliamo dire che la divina bontà la quale si può comunicare alle cose infinite e si può infinitamente diffondere, voglia essere scarsa e restringersi in niente, atteso che ogni cosa finita al riguardo de l’infinito è niente? Perché volete quel centro della divinità, che può infinitamente in una sfera (se cossì si potesse dire) infinita amplificarse, come invidioso, rimaner più tosto sterile, padre fecondo, ornato e bello?
… per cui non solamente verrebbe suttratta infinita perfezione dello ente, ma anco infinità maestà attuale allo efficiente nelle cose fatte se son fatte, o dependenti se sono eterne. Qual raggione vuole che vogliamo credere, che l’agente che può fare un buono infinito, lo fa finito? E se lo fa finito, perché doviamo noi credere possa farlo infinito, essendo il lui il possere ed il fare tutto uno?
Quest’ultimo passo è riassuntivo di tutte le considerazioni che abbiamo presentato. Bruno, riepilogando le affermazioni di Filoteo, afferma che l’infinità dell’universo è necessario per un doppio ordine di motivi: da una parte perché si esplichi – come abbiamo affermato poca sopra – la bontà infinità implicita in tutte le creature, dall’altra per il carattere onnipotente e illimitato del principio primo. Non avrebbe senso che questo, potendo manifestare al massimo la sua potenza dando luogo all’infinito, si limiti poi a creare un universo finito.