Socrate
Si tratta di un estratto, a beneficio degli studenti, dallo scritto (sempre presente sul sito) “Socrate e la sofistica”
Socrate
Il giudizio di Aristofane su Socrate
Vorrei presentare la personalità di Socrate a partire da una fonte letteraria, che sembra in parte contraddire quanto abbiamo sino ad ora accennato. La fonte è il grande commediografo Aristofane, e in particolare la sua commedia Le nuvole.
Le nuvole del titolo (e i coreuti uscivano in scena travestiti da nuvole) rappresentano i ragionamenti aleatori e ingannevoli dei sofisti. Aristofane, nell’individuare un sofista cui indirizzare le proprie critiche, sceglie proprio Socrate. La trama è semplice: Strepsiade, uomo lavoratore, campagnolo ma anche tirchio, ha sposato una donna di città tutta dedita a frivolezze. Il loro figlio, Fidippide, nonostante le attenzioni del padre, è venuto su con la mentalità godereccia della madre e sperpera in pochezze tutte le ricchezze del padre, indebitato con molti suoi concittadini. Allora Strepsiade conduce il proprio figlio dai sofisti (in particolare da Socrate) avendo saputo che insegnano una tecnica capace di far sì che chi la possiede abbia sempre ragione. Socrate mette in scena il confronto fra il discorso giusto e il discorso ingiusto, facendo vincere quest’ultimo e insegna a Fidippide a diventare sofista. Strepsiade crede di avere risolto i suoi problemi, ma si accorge invece di averli peggiorati; Fidippide arriva a mettergli le mani addosso e, alla protesta del padre, il figlio gli dimostra di averlo picchiato a ragione. Alla fine Strepsiade, oramai roso dalla rabbia, appicca il fuoco alla casa di Socrate.
La commedia ci suggerisce due valutazioni:
1) Aristofane si dimostra un critico della democrazia ateniese, colpevole di mettere alla guida della città degli incompetenti, cresciuti in potere e arroganza grazie alla sofistica. Aristofane è un cultore della vecchia moralità e società aristocratica, fondata su valori dimostrati pubblicamente e in grado di garantire la moralità fra i cittadini, ponendo ai vertici chi lo merita. La sofistica, di cui Aristofane ignora la problematica morale, è responsabile di questa decadenza e della distruzione dell’ethos ateniese.
2) Socrate viene identificato totalmente con i sofisti, malgrado sia storicamente accettabile la sostanziale diversità della sua filosofia. Aristofane non intende però imbrogliare lo spettatore ma, sia pure utilizzando tutti gli strumenti caricaturali del genere comico, afferma un’opinione diffusa fra il popolo ateniese, che individuava in Socrate né più né meno che un sofista. Come mai?
Socrate -l’abbiamo anticipato più volte- rappresenta un punto di svolta della filosofia; anche il giudizio negativo che sul socratismo ha avanzato Nietzsche, gli riconosce comunque un ruolo fondamentale nella cultura occidentale. Come mai che alcuni contemporanei non se ne sono accorti?
Per comprendere quanto detto, dobbiamo ricordare come la svolta la svolta rappresentata da Socrate nella storia della filosofia si realizza all’interno della più ampia rivoluzione attuata dai sofisti. Socrate infatti condivide tutti gli assunti di partenza della sofistica, ma non è convinto delle conseguenze teoriche che i sofisti derivano da quelle premesse. La filosofia socratica utilizza quindi alcune tecniche che erano state elaborate dalla pratica sofistica e questo spiega come, agli occhi dei contemporanei, forse meno attenti alle sottigliezze teoriche, Socrate potesse apparire né più né meno che un sofista.
Potremmo sintetizzare in tre punti le fondamentali identità teoretiche fra i sofisti e Socrate:
1) innanzitutto il rifiuto del naturalismo, ovvero la consapevolezza che il naturalismo costituisce una forma di sapere inadeguata per l’intelletto umano e, quindi, destinata al fallimento. Socrate stesso narra -nel Fedone– di essere stato attratto dalla filosofia di Anassagora, ma di averla abbandonata ben presto. E’ certo che Socrate coltivò interessi naturalistici.
2) l’impossibilità di acquisire la verità oggettiva nell’ambito naturalistico sposta l’interesse della riflessione filosofica dalla natura all’uomo, dall’ambito del fisico e del fenomenico a quello dell’interiorità e dello psichico. L’uomo diventa l’oggetto principale della filosofia in quanto è necessario cogliere i limiti dell’intelletto umano, per rimediare alle conseguenze negative legate al carattere instabile della conoscenza ovviare alle conseguenze negative che la consapevolezza di non possedere la verità comporta.
3) Poiché l’interesse della filosofia si concentra sull’uomo, e poiché nessuno può affermare di possedere una verità, l’unico modo di filosofare e discutere con gli altri uomini e cercare, attraverso il confronto delle rispettive opinioni, di giungere a un accordo. Socrate condivide così con la sofistica ilprimato della parola e del linguaggio e la centralità, nell’ambito della ricerca filosofica, del confronto dialettico fra parlanti.
Le differenze fra Socrate e i sofisti
Dov’è però la sostanziale differenza fra Socrate e i sofisti? Nel modo di concepire il dialogo, non più inteso quale tecnica agonistica, ma come collaborazione reciproca di individui ciascuno dei quali ha interesse a cogliere la verità. Socrate, in altre parole, non rinuncia alla speranza di raggiungere la verità, o meglio: anche se la verità non è a disposizione dell’uomo in modo chiaro, positivo e delineato, l’uomo deve sempre porre il concetto di verità come scopo dei suoi sforzi filosofici. L’uomo è infatti dotato di una facoltà razionale che lo porta a impostare e risolvere problemi; è possibile, attraverso l’uso di questa razionalità (e qui c’è qualche rapporto con Protagora) distinguere nei problemi un grado minore o maggiore di verità; quindi è possibile, nel discutere con un interlocutore, arrivare a un accordo non in base alla ricerca dell’utile personale, ma constatando l’esattezza o la falsità di quanto affermato.
La condotta socratica
Prima di valutare le conseguenze che questa posizione riveste sul piano teorico, dobbiamo sottolineare come Socrate rimase sempre fedele nella vita pratica, con una coerenza estrema, a queste sue convinzioni, fino a costituire una sorta di riferimento mitico (circondato quasi da un alone di santità) per la storia della filosofia. Socrate, come saprete, sarà condannato a morte dal regime democratico ateniese, ed egli affronterà la morte con estrema dignità; ma è interessante come nel suo discorso di difesa al processo (nell’Apologia di Socrate) egli, per rimanere coerente alla sua difesa della verità, piuttosto che ricercare l’utile personale, condurrà la prolusione in modo da rendere inevitabile la condanna (non cercherà di imbonirsi i giudici, ma semmai ne rivelerà il carattere corrotto) E’ significativo il rifiuto di farsi difende dal più celebre avvocato di allora, Lisia.
Socrate e la scrittura
Questa estrema coerenza costituisce però una difficoltà per gli storici della filosofia: Socrate, proprio perché era convinto che la filosofia si realizzasse nel dialogo fra due persone le quali, senza avere la presunzione di possedere la verità, collaboravano insieme per ricercarla, non scrisse nessuna opera. In questo egli radicalizzò un atteggiamento che era già proprio dei sofisti: avrete notato che la maggiorparte dei testi che abbiamo letto sulla sofistica erano testimonianze: questo perché i sofisti si dedicavano prevalentemente all’insegnamento; l’attività pedagogica realizzava il loro impegno di carattere sociale e morale, ed era allora nel colloquio diretto che manifestavano la loro sapienza. Sappiamo che Protagora e Gorgia scrissero dei trattati, ma le affermazioni maggiori le conosciamo per via indiretta; è vero comunque che Protagora e Gorgia, pur scrivendo poco per i motivi sopra addotti, non rifiutavano in sé la scrittura come strumento per diffondere il loro pensiero. Invece Socrate adottò un atteggiamento radicale, di totale chiusura nei confronti della pagina scritta: in un dialogo platonico, il Fedro, egli afferma che il libro è uno strumento di sapere sterile perché, se interrogato, non è in grado di rispondere. E per Socrate una teoria, se non le si pongono immediatamente delle obiezioni per ricevere significative risposte, non ha alcun valore.
Come è possibile ricostruire la dottrina di Socrate dal momento che non possediamo alcuna sua opera? evidentemente grazie a delle fonti, non tutte però di uguale valore. Quella di Aristofane, abbiamo visto, è interessante storicamente ma inaffidabile dal punto di vista della ricostruzione del pensiero filosofico. Quella di Aristotele contiene informazioni di seconda mano, derivati dalla sua frequentazione dell’Accademia platonica. Rimangono quelle di Platone e di Senofonte; quest’ultimo riporta alcune affermazioni riguardo a temi specifici, che servono ad approfondire alcuni aspetti del suo pensiero, senza però offrirci un’immagine globale. La fonte più importante è dunque Platone: discepolo di Socrate, dopo la sua drammatica morte egli volle che l’insegnamento del maestro non andasse perduto. Il problema e che Platone scrisse cinquanta dialoghi, di cui quarantanove vedono Socrate protagonista; ma in questi dialoghi Platone, uno dei più grandi filosofi dell’umanità, descrive teorie che Socrate sicuramente non aveva mai concepito. Come distinguere allora, nei dialoghi platonici, le teorie socratiche da quelle platoniche?
Gli studiosi considerano alcuni dialoghi, che si ritengono scritti in epoca giovanile, come una pura testimonianza, da parte del discepolo, dell’opera del maestro. E sono tutti dialoghi in cui si manifesta esplicitamente la personalità di Socrate, modificata invece in alcuni tratti nelle opere posteriori. Questi dialoghi socratici sono quattordici (Apologia, Critone, Ione, Lachete, Liside, Carmide, Eutifrone, Eutidemo, Ippia minore, Cratilo, Ippia Maggiore, Menesseno, Gorgia, Protagora), e non è un caso che la maggiorparte di loro testimonino, oltre che la condanna, la detenzione e la morte di Socrate, soprattutto la polemica con i sofisti.
L’ignoranza socratica
Vediamo ora a quali conseguenze comporta, sul piano teorico ma anche su quello pratico, il diverso modo di affrontare, da parte di Socrate, la questione della verità:
1) Innanzitutto -l’abbiamo già detto- il confronto dialogico non è più concepito come una tecnica agonistica, in cui uno dei due contendenti deve prevalere, ma come una collaborazione reciproca tesa a cogliere il vero. Di conseguenza, quando discorriamo con qualcuno, non dobbiamo far finta di sapere verità che in realtà non conosciamo, non dobbiamo far credere di essere convinti di qualcosa mentre in realtà stiamo solo fingendo; non si deve avere paura nel manifestare la propria ignoranza, in quanto questa ignoranza e in realtà condizione comune di tutti gli uomini.
Nell’Apologia di Socrate di Platone, il filosofo narra come l’oracolo avesse decretato essere Socrate il più sapiente fra gli uomini. Ovviamente Socrate rimase sorpreso di questa sentenza, dal momento che egli dubitava di tutto ed era convinto di non sapere nulla. Andò allora interrogando coloro che erano ritenuti e si consideravano particolarmente sapienti (politici, retori, artisti, magistrati), per scoprire come costoro, a parte qualche tecnica specifica, in realtà fossero ignoranti di tutto. Socrate si convinse allora che l’oracolo avesse detto il vero: egli era il più sapiente degli uomini in quanto era l’unico che sapeva di non sapere. La vera sapienza consiste infatti nell’essere coscienti della propria ignoranza, nel rendersi conto che l’uomo non è in grado, con le sue deboli capacità intellettuali, di cogliere la verità assoluta.
2) Il dialogo allora serve, una volta ammessa l’ignoranza dei vari partecipanti, a ricercare insieme, con modestia, la verità o comunque affermazioni il più vicine al vero; un dialogo può concludersi con la constatazione che non si è in grado di risolvere un problema; affermazione sicuramente più vera di una falsa verità, che è frutto invece di persuasione ingannevole.
Le tecniche del dialogo socratico
Ovviamente Socrate, quando dialoga secondo queste modalità, non si trova di fronte personalità disposte ad ammettere la propria ignoranza, bensì campioni di presunzione (i sofisti, ma non solo). Quindi deve in qualche modo creare le condizioni perché il dialogo si svolga in modo produttivo per la ricerca della verità.
Socrate elabora allora delle tecniche con cui condurre il dialogo, in grado di indirizzarlo nella giusta direzione morale. Il dialogo socratico si divide un due parti, una pars destruens in cui ci si propone di distruggere l’infondata presunzione dell’interlocutore e una pars costruens in cui, una volta ammessa l’ignoranza di tutti, ci si avvia alla risoluzione del problema.
1) La pars destruens si avvale dell’ironia e della confutazione: attraverso l’ironia, Socrate finge di crede alla falsa sapienza del suo interlocutore, e lo adula, gli fa dei complimenti, ammira la sua sapienza. Poi però, attraverso la confutazione, ne dimostra l’ignoranza e ne distrugge tutte le sicurezze.
2) La pars costruens prevede invece l’attuazione della maieutica, ovvero una tecnica in grado di far scaturire, attraverso la discussione, la verità presente in ognuno di noi. Dentro di noi ovviamente non ci sono verità definite ma vi è, secondo Socrate, una facoltà razionale che è in grado di distinguere secondo verità e, quindi, di confutare le teorie ingannevoli.
Ma su questa pars costruens dovremo ritornare più avanti; per ora ci interessa valorizzare i concetti di ironia e confutazione perché sono gli strumenti con cui si può realizzare un dialogo non antagonistico, alternativo a quello propugnato dalla sofistica.
La confutazione e il problema dell’universale (la definizione)
Come riesce Socrate a confutare l’interlocutore? Egli pone sempre un problema riguardo una definizione: per esempio chiede all’interlocutore che cosa mai sia il bello. L’interlocutore risponde con esempi empirici che, fatalmente, cadono vittima delle obiezioni socratiche (è bella una persona, un oggetto, un paesaggio). Socrate non ricerca il particolare, ma quella caratteristica comune a tutti i fenomeni particolari (quella cosa comune a tutte le cose belle, per cui una persona, un oggetto o un paesaggio, pur essendo realtà completamente diverse, sono tutte belle).
Socrate pone quindi il problema dell’universale e dimostra, in questo modo, come la nostra mente sia in grado di cogliere logicamente la verità(è qualcosa che possiede le caratteristiche dell’universalità), anche se non può articolarla e definirla nelle sue caratteristiche proprie. L’ignoranza dell’interlocutore viene manifestata proprio dal suo errore: egli confonde il particolare con l’universale, mentre la verità si può identificare solo con quest’ultimo.
I passi dell’Ippia maggiore
Vorrei leggere alcuni passi tratti dall’Ippia maggiore di Platone. Si tratta di un dialogo minore ma estremamente significativo per comprendere la tecnica dialogica di Socrate. In questo caso -a differenza di quanto abbiamo realizzato per i sofisti- è utile una lettura minuziosa, proprio perché ci permette di cogliere delle costanti (stilistiche o retoriche) proprie di tutti i dialoghi socratici: se le comprenderemo, saremo in grado di affrontare autonomamente la lettura di altri dialoghi e comprenderemo il valore filosofico di alcune espressioni.
Il problema affrontato nel dialogo è semplice e non dà luogo, come in altre opere che esamineremo, ad articolazioni e a sviluppi di particolare profondità. D’altra parte Ippia è un interlocutore tanto presuntuoso quanto modesto: non mette mai in difficoltà Socrate e subisce l’iniziativa polemica e distruttiva (la confutazione) del filosofo. E’ un dialogo poco significativo, in quanto ripropone, in una struttura semplificata, ciò che è più interessante da analizzare in dialoghi di ben maggiore profondità e spessore. E’ un dialogo, del resto, dove compaiono solo due interlocutori, laddove quelli più significativi prevedono la presenza di diversi personaggi.
D’altra parte proprio i limiti teorici rendono l’Ippia maggiore molto utile, a mio parere, ai fini didattici; ci mostra infatti la tecnica distruttiva socratica nei suoi momenti essenziali, dove nei dialoghi più importanti è comunque sfumata, rivolta a singoli e non a tutti gli interlocutori.
Noterete come i neretti con cui ho evidenziato parti del testo non si riferiscano a contenuti filosofici particolarmente pregnanti, ma sottolineano aggettivi apparentemente secondari, modi di dire o di interloquire che sembrano solo sfumature linguistiche e retoriche irrilevanti. In Socrate però la filosofia si identifica con il dialogo e, quindi, il modo in cui il dialogo si realizza, le interlocuzioni con cui si dipana la conversazione, diventanofondamentali concetti filosofici. Il messaggio filosofico coincide con la scrittura che lo comunica
Prima citazione:
da Platone, Ippia maggiore, 281 A-C:
SOCRATE. Oh! bello e sapiente Ippia! quanto tempo è che non sei venuto da noi, ad Atene!
IPPIA. Non ho tempo, Socrate! perché quando Elide ha bisogno di trattare con qualche altro stato, sempre si rivolge a me, prima che ad altri cittadini, e mi nomina suo ambasciatore, certa che io sia il più abile a giudicare e a riferire i discorsi che si svolgono nelle altre città. Spesso, dunque, fui ambasciatore in vari stati, ma soprattutto a Sparta e sempre per moltissimi affari della più grande importanza. Ecco perché, come tu mi chiedi, non vengo spesso in questi luoghi.
SOCR. Questo, Ippia, significa essere uomo davvero sapiente e perfetto! Certo, perché tu da privato, facendoti dare dai giovani molto denaro, hai la capacità di procurare loro vantaggi ben più preziosi delle somme che ricevi, e, da uomo pubblico, di giovare alla tua città, come deve fare chi non vuole rimanere oscuro, ma farsi un grande, pubblico nome. Ma, Ippia, per quale mai ragione quegli antichi, i cui nomi sono divenuti famosi per sapienza, Pittaco, Biante, e da Talete di Mileto via via fino ad Anassagora….
Si tratta dell’inizio del dialogo, che si apre con un tono evidentemente ironico: la falsa adulazione che Socrate rivolge a Ippia ha la funzione di indurlo ad accettare la discussione. Ippia è di fretta, si finge impegnato ma, di fronte alla possibilità di mettersi in mostra e fare sfoggio della sua erudizione, non esita a interrompere la sua attività. Ippia subito cade nella trappola e, presuntuosamente, fa sfoggio delle sue capacità; egli è ambasciatore, un atipica attività rivolta al compromesso di interessi e non alla ricerca della verità; egli infatti è abile a riferire e giudicare, sulla base però, di un puro interesse di parte.
Socrate, nella sua risposta, prosegue con il tono ironico, ma inserisce nel suo discorso due fondamentali elementi di critica: il riferimento alcompenso, che testimonia come la ricerca filosofica dei sofisti non sia disinteressata e, quindi, tesa alla realizzazione della verità morale; e, successivamente, l’accenno agli antichi. Socrate vuole mostrare come gli autentici sapienti, nell’antichità, rifuggissero il denaro e l’ambizione; com’è che i sofisti, sapienti per definizione, li ricercano?
Ho messo i puntini di sospensione perché volevo evidenziare non tanto il contenuto della frase, quanto la tecnica socratica: dopo avere adulato, dopo essersi apparentemente appiattito sulle posizioni dell’interlocutore, Socrate inserisce un ma con cui inizia l’opera di confutazione, il ragionamento finalizzato a mettere in difficoltà Ippia.
Seconda citazione
Ibid., 282 C-D:
“Non solo, ma se vuoi, Prodico, nostro compagno di studi, è più volte andato fuori del suo paese con incarichi pubblici, e, infine, ultimamente, venuto qui da Ceo, a nome della sua città, parlando nella Bulé ha riportato un gran successo, mentre in privato tenendo conferenze e intime discussioni con i giovani ha guadagnato favolose ricchezze. Quei tali antichi, invece! nessuno di loro pensò bene di farsi pagare in denaro o di dar prova della propria sapienza dinanzi a svariato pubblico, tanto erano semplici ed era loro nascosto il valore del denaro! Sia Gorgia che Prodico, invece, ciascuno ha ricavato con il proprio sapere più quattrini di ogni altro tecnico da qualsivoglia arte: e, prima di loro, Protagora.”
Prosegue l’ironia socratica, che ribadisce i contenuti del frammento precedente. E’ evidente la pochezza di Ippia nel momento in cui gli si attribuisce maggiore capacità dei grandi maestri antichi (tutti esempi di virtù), per il fatto che egli subordini la sapienza al valore del denaro Evidentemente, Socrate ha già presenti i modelli di virtù che intende contrapporre ai sofisti: i filosofi dell’antichità, quando la poleis non era ancora degenerata nella corruzione.
Terza citazione
…282 E, 283 B:
SOCR. Questa che dici, Ippia, è sì una bella e grande prova della tua sapienza e di quella dei nostri contemporanei, e di quanto voi siate diversi dagli uomini del tempo antico. Secondo le tue parole essi erano davvero ignoranti! Di Anassagora, ad esempio, si narra che gli accadesseesattamente il contrario di quel che accade a voi: avendo ereditato un grosso patrimonio, non se ne curò affatto e lo sperperò totalmente, tanto senza cervello era il suo sapere. Ma anche di altri antichi si narrano le stesse cose. Ecco perché mi sembra che la tua risulti una bella prova della sapienza dei nostri contemporanei rispetto alla sapienza dei predecessori, tanto più che oramai è opinione comune che il sapiente debba soprattutto esser sapiente a proprio favore, per cui può essere definito così: sapiente è chi guadagna quanti più quattrini è possibile.
In questa citazione notiamo, oltre all’ironia, un ulteriore aspetto della tecnica dialogica socratica: i contenuti delle consuete adulazioni conducono a una definizione paradossale: “sapiente è chi guadagna più quattrini possibile”. Vi è quindi un procedere logico dell’argomentazione con cui si dimostra l’esito contraddittorio delle tesi dell’interlocutore. Il sapiente che deve esserlo soprattutto a proprio favore è una contraddizione in termini.
Quarta citazione::
Ibid., 286 C, 287 B:
SOCR. Ma sì, Ippia, se il dio lo vuole! Ora, invece rispondi, in forma breve a una questione, che mi hai fatta ricordare al punto giusto. Recentemente, ottimo amico mio, mentre, discorrendo, criticavo alcune cose in quanto brutte, e altre, invece, lodavo come belle un tale mi ha messo in grave dubbio, chiedendomi, addirittura con insolenza: “Ma come fai, Socrate, a sapere quali cose sono belle e quali brutte? in realtà, m sapresti dire“cosa è” il bello? Ed io, per la mia inettitudine, rimasi tutto confuso e non seppi rispondergli a modo; e così, venendo via da quella conversazione, mi arrabbiavo con me stesso, mi rimproveravo e minacciavo che non appena mi fossi incontrato con uno di voi sapienti, vi avrei ascoltato sull’argomento, mi sarei addottrinato, preparato come si deve, e, tornato da quel tale, che mi aveva interrogato, avrei ripreso il combattimento. Ecco perché ore, dico, sei giunto proprio al momento giusto. Insegnami, dunque, in maniera adeguata, cosa sia il bene in quanto bello, e cerca di rispondermi parlando in termini quanto più è possibile esatti, sì che io non venga confutato una seconda volta e sia di nuovo oggetto di risate. Tu, senza dubbio, lo sai in maniera lampante, e questa non è, forse, che una minima parte tra le moltissime discipline che conosci. IPPIA. Si, per Zeus, Socrate, una minima parte, e, per così dire, di nessun significato. SOCR. Imparerò, allora, facilmente, e nessuno potrà più confutarmi. IPP. Nessuno, assolutamente! Proprio da nulla e assai limitata sarebbe se no la mia professione. SOCR. Per Era, Ippia, che bella cosa se riusciremo a vincere quel tale! Ma non vorrei metterti in difficoltà se, imitandolo, mentre tu mi rispondi, ti porro delle obbiezioni si che tu possa istruirmi nella maniera migliore possibile: io sono piuttosto esperto nel fare obbiezioni. Se dunque per te è lo stesso ti proporrò una serie di obbiezioni per imparare in modo davvero fondato. IPP. Ma si, obbietta, ché, come or ora dicevo, la domanda non è gran cosa, ed io sono in grado d’insegnarti a rispondere a domande ben più complesse, si da sfidare chiunque ti confuti.
Approfondiremo più avanti l’espressione forma breve, con la quale Socrate prega Ippia di non dilungarsi nei discorsi, nel tentativo di confondere le idee. Questa citazione riveste per noi particolare importanza perché vi è descritto il problema della definizione con cui Socrate inizia la suaconfutazione. Oltre alla domanda centrale del passo, che cosa è il bello?, ho sottolineato in neretto anche le evidenti espressioni ironiche, che non dovreste avere più difficoltà a riconoscere. La sicurezza di Ippia nell’offrire la risposta giusta serve a creare quel patos drammatico che rende ancora più visibile la confutazione finale.
Quinta citazione:
…287 D-E:
SOCR.” E allora dimmi, forestiero—preciserà—cosa e questo bello ?”. IPP. Ma chi ponga una domanda simile,Socrate, cos’altro vuole mai sapere se non “cosa sia bello”? SOCR. No, non mi sembra, ma “che cosa sia il bello”, Ippia. IPP. E che differenza c’è fra le due espressioni? SOCR. Ti sembra che non vi sia alcuna differenza? IPP. Nessuna. SOCR. Evidentemente tu lo sai meglio di me. Ad ogni modo, mio caro, rifletti un po’: quel tale ti chiede non “cosa è bello”, ma “che cosa è il bello”. IPP. Capisco, mio caro, e gli risponderò che cosa è il bello, né certo sarò più confutato. Ecco, Socrate, il bello, sappilo bene, se debbo dire la verità, è una bella fanciulla. SOCR. Bella risposta, Ippia, e degna d’essere famosa, corpo di un cane!
La citazione testimonia la difficoltà di Ippia nel rispondere alla domanda socratica: il sofista confonde che cosa è il bello con che cosa è bello, dando ovviamente risposte empiriche che non hanno, per Socrate alcun valore. Anzi, dimostrano la sostanziale ignoranza degli uomini. La risposta conclusiva di Ippia (il bello è una bella fanciulla) lascia sconsolati per la sua ingenuità; nonostante le avvertenze di Socrate, il sofista ha dato la risposta più sbagliata che potesse concepire. I complimenti finali di Socrate sono un’evidente manifestazione di ironia.
Sesta citazione:
…288 D:
…a riprova del suo modo di tare, quel tale dirà: ” Ottimo Socrate, e una bella pentola? non è cosa bella? “. IPP. Ma che tipo d’uomo è costui, Socrate? Com’è incolto, se in cosi alto argomento ardisce usare parole sì basse! SOCR. Tale è l’uomo, Ippia! nient’affatto fine, anzi, volgare, di nulla preoccupato se non del vero.
La breve citazione incomincia ad avere già un’importanza definitiva, nell’evidenziare la totale distanza della dottrina di Ippia dalla sapienza. Ippia si comincia a spazientire, a individuare nelle critiche che Socrate gli rivolge addirittura una manifestazione di incultura! Vedremo nei frammenti successivi approfondito questo aspetto. Per ora ci interessa la risposta socratica, dove si contrappone la ricerca disinteressata del vero alle fumose risposte del sofista. L’intento socratico non è di vincere, ma di raggiungere la verità, mettere in discussione tutti i falsi saperi. La distanza morale fra i due personaggi è, a questo punto del dialogo, abissale.
Settima e ottava citazione:
…293 A:
IPP. Ma questo, che vuol dire? Mandalo tra i beati! Socrate, le domande di quest’uomo non sono parole di buon augurio. SOCR. Come? rispondere positivamente a tali domande è un’empietà? IPP. Forse.
da Platone, Menone 94 C – 95 A:
SOCR.Ebbene, non risulta evidente da questo, che, se egli dette ai figli un insegnamento assai dispendioso, sicuramente non avrebbe omesso di renderli virtuosi senza bisogno di spendere un soldo, se la virtù fosse state insegnabile? Ma era forse Tucidide di bassa condizione? Nonaveva molti amici in Atene e tra gli alleati ? Anzi, grande era il suo casato e gran potenza godeva in città ed in tutta la Grecia, per cui, se la virtù si potesse insegnare, nel caso non avesse avuto tempo lui stesso perché preso dalle cure politiche, avrebbe facilmente trovato fra i suoi concittadini o fra gli stranieri gente capace di rendere virtuosi i suoi figlioli. Ma forse, compagno Anito, la virtù non è insegnabile! ANIT. Mi sembra, Socrate, che sei facile a dir male della gente! Se vuoi darmi retta, ti consiglierei di andarci cauto. Se in altra città è facile fare del male o del bene alla gente, nella nostra è facilissimo. Anche tu, credo, lo sai!
In questi due frammenti è bene evidenziato l’effetto che il dialogare socratico suscitava presso gli interlocutori. Ovviamente in questo caso non rientrano quei dialoghi in cui Socrate si confronta con dei giovanissimi; in quel caso, l’ingenuità è dovuta all’età e la timidezza si confonde con la modestia; l’atteggiamento di Socrate in quei casi è sempre comprensivo e tollerante.
Quando però si scontra con un falso sapiente, il quale su questa apparente sapienza fonda quasi sempre il proprio prestigio sociale, allora la reazione è ben diversa. Notate come Ippia -il campione della diplomazia!- rifiuti il dialogo, arrivando unicamente a mandare al diavolo chi gi si oppone. Non solo, ma con l’accenno alla colpa di empietà, si passa dalla intolleranza alla minaccia (non a caso una delle accuse rivolte da Socrate al processo è proprio quella di empietà). La morte di Socrate si spiega anche con questo odio che egli spargeva fra i suoi nemici, con quel sentimento di intolleranza (oggi tutt’altro che scomparso!) con il quale si detesta colui che ci mette di fronte ai nostri limiti, che in questo modo scalfisce l’immagine patinata che ci siamo fatti in pubblico. Questa intolleranza, dovuta al non volere ammettere la propria ignoranza, rappresenta la paura di guardare dentro noi stessi, esattamente il contrario da quanto affermato dall’oracolo di Delfi (cfr. sopra il riferimento all’Apologia di Socrate, pag.34).
Ho anche aggiunto una citazione dal Menone, che precisa ulteriormente quanto abbiamo sino a ora sostenuto. Anito, messo in difficoltà da Socrate, lo minaccia apertamente, ricordandogli quanto sia facile fare del male alla gente nella città. Anito è il principale accusatore di Socrate, più volte citato nell’Apologia di Socrate; è evidente come Platone voglia, in questo modo, sottolineare con forza uno dei motivi che portarono al processo e alla condanna di Socrate. E intenda in questo modo rimarcare gli esiti nefasti di una società che poggia le istituzioni sulla menzogna e sulla furbizia dialettica.
Nona e decima citazione:
da Platone, Ippia maggiore, 302 E:
Se ben ricordo, sostenevamo che bello èil piacevole: non tutto, ma quello che ci proviene dalla vista e dall’udito. IPP. Vero! SOCR. E tale accidente appartiene ad ambedue presi insieme, non a ciascunosingolarmente: come dicevamo sopra, ciascuno di essi nonè prodotto da entrambi i sensi, ma entrambi dalle due sensazioni, e non ciascuno da ambedue. Non è così? IPP. Certo! SOCR. Ciascuno di questi piaceri non è dunque bello per unquid che non appartiene a ciascuno singolarmente —la proprietà d’essere l’uno e l’altro ad un tempo non appartiene a ciascuno—, per cui, secondo la nostra ipotesi, nulla vieta che si possano chiamare belli entrambi, ma non ciascuno dei due, Cosa mai altro dobbiamo dire? La conclusione è necessaria. IPP. Sembra.
Ibid., 289 C:
SOCR. Ma se gli accorderemo questo, si metterà a ridere e dirà: “Non ti ricordi, Socrate, quale era la mia domanda?”; “Si, risponderò: mi domandavi ché cosa mai è il bello in quanto bello”. “Solo che, obbietterà, interrogato poi sul bello, capita che tu dice ‘bello’ qualcosa che, su tua stessa dichiarazione, tanto è bello quanto è brutto”. E io dovrò rispondere “Sembra!”; o cosa altro mai, amico mio, mi consigli di rispondere?
Più che il contenuto specifico di queste due citazioni, mi interessa porre l’accento su alcuni aspetti strutturali del discorso, che si ritrovano in quasi tutti i dialoghi socratici di Platone e che, lungi da essere pure formule retoriche, rivestono un importante significato filosofico. Si tratta delle espressioni scelte da Platone nel descrivere l’avvenuta confutazione da parte di Socrate; Ippia, nel rispondere a Socrate, manifesta sempre una sicurezza baldanzosa (Vero! Certo!), non accorgendosi che Socrate gli sta tendendo una trappola dalla quale non si libererà. Quando, alla fine, Socrate arriva alle conclusioni logiche di quanto affermato, che rivelano il carattere contraddittorio della dottrina di Ippia, questi non può che rispondere, con un tono di sconfitta “sembra” (in altre traduzioni pare). Questo sembra, che si contrappone ai certo e vero precedenti, indica l’avvenuta confutazione, ovvero il disvelamento dell’ignoranza. E’ quindi un’espressione non retorica, che ha anzi un’estrema forza concettuale. Tant’è che, nel secondo passo citato, Socrate ribadisce l’importanza filosofica di questa espressione, laddove immagina di trovarsi lui in difficoltà nel dialogo: di fronte a una contraddizione irrisolvibile nella quale fosse sorpreso, non potrebbe rispondere altro che “sembra”.
Se leggerete i vari dialoghi socratici noterete come questa espressione, al culmine della confutazione, torni costantemente.
Undicesima e dodicesima citazione:
Ibid., 304 A – E:
Eh si, dovremo rispondere, Ippia, se siamo gente di buon senso: ‑è impossibile non essere d’accordo con chi ragiona correttamente! IPP. Ma insomma, Socrate, cosa credi che sia tutta codesta roba? Raschiature, ritagli, frantumi di ragionamenti sono, come sopra dicevo ! No! Quel che è bello e di gran valore è riuscire a pronunziare un buono e bel discorso in tribunale, in Consiglio, dinanzi a qualsiasi altra autorità cui si debba parlare e,riusciti a persuadere, venir via, riportando non un premio da niente, ma il sommo premio: la salvezza di se stesso, dei propri beni, degli amici. A questo bisogna dedicarsi e lasciar stare codeste tue sottigliezze, se non vuoi passare per un folle occupandoti, come ora, di ciance e quisquilie.
La presente citazione testimonia lo stato d’animo dell’interlocutore una volta confutato. Socrate gli fa notare la coerenza logica della propria posizione, l’impossibilità di essere d’accordo con chi ragiona correttamente. Ippia tenta un’estrema difesa da una parte inutilmente negando la maggiore fondatezza dei ragionamenti socratici; Ippia parla di frantumi di ragionamento, ritagli, ecc. In realtà Socrate non presenta frantumi, ma disseziona le parole e le frasi per scoprivi l’inganno e mettere in vista la verità; è semmai Ippia che, non approfondendo il significato delle parole, le usa in maniera ingannevole. In ultimo Ippia, per estrema difesa, fa riferimento alle solite finalità pratica che non hanno alcuna dignità morale.
Tredicesima citazione:
SOCR. Caro Ippia, beato te che sai quali sono le occupazioni degne di un uomo e, come dici, le pratichi alla perfezione! Io, invece, vittima, a quel che sembra, di non so quale demonico destino, oscillo sempre in un per perpetuo dubbio, e quando espongo i miei dubbi a voi sapienti, sono da voi coperto d’insulti, non appena vi ho fatto la mia confessione, perché dite, come anche tu ora che mi occupo di sciocchezze, di inezie, di cose senza valore alcuno. E quando, persuaso da voi, ripeto con voi che meglio è saper comporre un ben fatto e bel discorso da pronunziare` in tribunale o in altra qualsivoglia adunanza, allora mi sento violentemente ingiuriato da altri miei concittadini e, soprattutto, da quell’uomo che sembra li pronto a confutarmi. Egli, per l’appunto, è un mio stretto parente e abita con me, e ogni volta che torno a casa e mi ascolta ripetere queste cose, mi chiede se non mi vergogno di avere io l’ardire di parlare sulle belle occupazioni, proprio io che cosi chiaramente offro prove di non sapere, in che consista il bello. Ebbene, mi dice, come giudicare se un discorso è fatto bene o male, se buona o cattiva è una certa azione, se ignori in che consiste il bello? E poiché ti trovi in tale condizione, piuttosto che vivere non credi che per te sarebbe meglio essere già morto? Mi accede così, come dicevo, d’essere rimproverato e insultato da voi e da lui. Ma, forse, è fatale ch’io debba sopportare tutto questo: non sarebbe fuori luogo se ne traessi giovamento. Sì, caro Ippia, credo d’avere già ricavato un certo utile dalla conversazione di entrambi, da te e da quel tale: ritengo proprio di avere compreso il significato del proverbio: “difficili sono le cose belle!”.
E’ la conclusione del dialogo; Socrate non vuole ulteriormente umiliare Ippia e continua ad adularlo ironicamente; parla del suo demone(concetto socratico su cui noi siamo costretti a sorvolare), da intendersi come una voce della coscienza che impedisce a Socrate di accontentarsi degli inganni, che gli suggerisce sempre l’inadeguatezza dei saperi particolari rispetto alla verità. La situazione di Socrate è quella di non essere compreso da nessuno, di distinguersi in una società orientata ai valori del pratico; nello stesso tempo, però, egli non può rinunciare a questo stato di transitorietà, non dare spazio al dubbio che lo rode e che lo convince che nessuna conoscenza è realmente adeguata e coincidente con la verità, pure intuita quale concetto. Ecco dunque la necessità di continuare con ostinatezza la ricerca [ricordate la frase dell’Apologia: “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”], consapevoli delle difficoltà (difficili sono le cose belle).
Possiamo evidenziare come il dialogo, pur non risolvendo la questione possa da Socrate, abbia una conclusione totalmente positiva e costruttiva; si è individuato, infatti, un perfetto modello di vita (quello dedicato alla ricerca), separato dai gretti istinti egoistici, identificabile con un autentico ideale morale.
La conclusione etica del dialogo socratico
La conclusione dell’Ippia maggiore ci consente di cogliere quella che abbiamo definito la pars costruens del dialogo socratico: infatti, una volta ridotto all’ignoranza l’interlocutore, attraverso la confutazione, è possibile arrivare a delle conclusioni costruttive, quindi a dei risultati che, anche se non pienamente soddisfacenti sul piano teoretico (nel senso che la verità assoluta rimane non comprensibile all’intelletto umano), sono importantissimi sulpiano etico (ovvero forniscono criteri certi per condurre positivamente la propria vita).
Abbiamo visto come Socrate ponga agli interlocutori il problema della definizione, rivelativo di una dimensione universale che sfugge all’intelletto umano, anche se compresa da un punto di vista puramente logico (la domanda posta da Socrate è perfettamente razionale). E’ inevitabile però chiederci se, alla fine, Socrate riesce a risolvere la domanda con la quale mette in difficoltà i propri interlocutori.
In realtà Socrate questa verità universale che lo rode e lo scaraventa nel dubbio, non la raggiunge mai; sarà il suo principale discepolo, Platone, che riterrà di potere definire positivamente questa verità.
Quello che dobbiamo capire è come l’apparente fallimento della ricerca socratica (egli confuta i suoi avversari, ma non sa rispondere alle domande che pone) è in realtà ricco di risultati positivi. Come è possibile?
Abbiamo visto come Socrate, attraverso l’ironia e la confutazione dimostri l’ignoranza dei propri interlocutori; non per umiliarli (anche se poi questo finiva per essere il risultato effettivo) quanto per dimostrare l’effettività condizione di ignoranza dell’uomo (Socrate risulta ignorante quanto i suoi interlocutori, con la differenza che ne è però consapevole).
Se però Socrate si limitasse a questo, non avrebbe fatto grandi passi in avanti rispetto ai grandi sofisti; anch’essi avevano ammesso l’impossibilità dell’uomo di cogliere il vero (o, nel caso di Protagora, poiché tutto era vero in realtà la verità, come concetto oggettivo e universale, veniva avvilita e svalutata). Una volta ammessa l’ignoranza di tutti, rimane aperto il solito problema: come evitare la disgregazione nei rapporti umani?
Se però riflettiamo attentamente, notiamo come l’accettazione delle propria ignoranza implica un sostanziale risultato etico che i sofisti non avevano raggiunto: se noi accettiamo questo punto di partenza, non potremo più ingannare, non potremo più far credere di avere ragione quando non l’abbiamo, eviteremo di concepire il dialogo come tecnica agonistica e di utilizzarlo ai fini della sopraffazione. E’ già un primo importante risultato.
Ma non è l’unico! Abbiamo visto che la verità, anche se non la possiamo definire, la possiamo cogliere in quanto concetto: essa corrisponde all’universale, al sempre identico nelle diverse manifestazioni empiriche. Il concetto, ricavato attraverso la ragione, dimostra una capacità di resistere alle singole differenze e diversità del reale.
Allora qualcosa di positivo nella natura umana Socrate l’ha individuato: l’uomo è in possesso di un intelletto (facoltà razionale) che gli permette di avvertire, nei vari ragionamenti, una maggiore o minore vicinanza alla verità. E’ grazie alla ragione che cogliamo la nostra ignoranza, ma è anche grazie alla ragione che possiamo difenderci dai vari sofismi ed evitare di rimanere vittime degli inganni del discorso. Socrate si dimostra totalmente fiducioso nei valori logici del discorso, in grado di confutare le fumose asserzioni dei sofisti e di rivelare la natura specifica dell’intelletto umano.
Ecco dunque che Socrate, riprendendo l’oracolo, invita a conoscere se stessi, ovvero a cogliere la nostra natura più profonda, che è quella della psiche, dell’anima, della capacità razionale di cogliere il vero, e contrapporla a quella fisica degli egoismi individuali, dell’istinto, della soddisfazione immediata e facile a sparire. Socrate è convinto che qualora noi, consapevoli della nostra ignoranza, ci affidiamo all’unico strumento che la natura ci ha fornito per indagare i problemi (la ragione) avremo la possibilità di impostare positivamente la nostra vita: la nostra ragione, infatti, coglie l’universale come concetto e ne è attratta, in quanto vede in esso un carattere di perfezione che le sfugge, che avverte non appartenere alla vita empirica. Di conseguenza, se ci affidiamo a essa. sfuggiremo a tutte quelle pulsioni egoistiche, che ci fanno preferire l’utile personale e distruggere la convivenza con gli altri uomini.
Ecco dunque che l’apparente non conclusione dei dialoghi socratici in realtà è pregna di risultati morali: in un dialogo, l’Eutifrone, alla fine si ripropone la definizione iniziale, ma questa apparente stasi del pensiero ha condotto ad apprendere numerosi risultati in merito alla sapienza. NelProtagora le posizioni iniziali dei due interlocutori vengono invertite alla fine (Socrate conduce Protagora a sostenere le tesi inizialmente avanzate da lui, e viceversa); in questo modo si dimostra l’insufficienza di una tecnica dialogica, quale quella sofistica, unicamente indirizzata all’utile, mentre prevale la ricerca disinteressata della verità verso la quale la natura spirituale (psichica) dell’uomo, pur non potendo mai completamente afferrare, si sente attratta. Bisogna allora subordinare il sensibile ( e quindi l’egoistico bisogno di soddisfazione individuale -cfr. Ippia-) allo spirituale, che si identifica con l’aspirazione della ragione alla verità universale.
Etica e tecnica del discorso: confronto sui testi
Valutiamo il valore morale della tecnica dialogica socratica, riferendoci direttamente ai testi: nel modo in cui un individuo si rapporta dialogicamente a un’altra persona, nella tecnica che adotta quando parla con un interlocutore, è possibile già individuare un atteggiamento di onestà intellettuale. L’importante è che il dialogo scaturisca da quell’interesse, da quella sete di verità che la nostra ragione è in grado di percepire e verso la quale è capace di orientarci.
In questo caso le citazioni sono riprese dai principali dialoghi socratici e rivestono probabilmente, per il contesto in cui sono presentati (e voi -se vorrete- potrete verificarli attraverso una lettura personale) un maggior valore teorico rispetto all’Ippia maggiore.
Notiamo come i primi due passi da me scelti, rispettivamente dal Protagora e dall’Apologia, affrontino ancora il problema dell’esigenza di veritànel discorso o nel dialogo. Ma notiamo una maggiore solennità e serietà da parte di Socrate, rispetto alla evidente derisione di Ippia. Solennità motivata o dalla nobiltà dell’interlocutore o, nel caso dell’Apologia, dal contesto processuale, dove Socrate deve difendersi da un accusa che potrebbe provocare la sua condanna a morte. E’ importante, a mio parere, che voi notiate la superiore qualità filosofica presente in questi passi rispetto a quelli del paragrafo precedente.
Prima citazione
da Platone, Protagora 348 C – 349 A:
Io dissi allora: —Protagora, non credere ch’io voglia discutere con te per alcun altro motivo se non per delucidare questioni su cui, di volta in volta,sono in dubbio io stesso. Sono davvero convinto che Omero dica cosa assai giusta con quel suo verso: “andando avanti in due, l’uno può comprendere prima dell’altro”. In realtà, noi uomini, tutti insieme, siamo in un certo qual senso più sicuri di fronte ad ogni opera, discorso, pensiero. Quando invece, « qualcuno abbia pensato da solo”, andando subito in giro cerca a chi possa esporre il suo punto di vista e trovarne conferma, e prosegue nella sua ricerca finché non abbia incontrato la persona adatta. Ecco perché anch’io discuto volentieri con te piuttosto che con un altro ritenendo che tu abbia profondamente esaminato tutti quei problemi, che ogni persona seria deve approfondire e, dunque, e, soprattutto, il problema della virtù. Chi potrebbe farlo meglio di te ? Non solo tu ritieni di essere un uomo virtuoso, come alcuni che pur essendo virtuosi per propri conto non sanno tuttavia rendere tali anche gli altri; ma tu stesso sei virtuoso e capace di rendere virtuosi anche gli altri. Non solo, ma possiedi una tale fiducia in te stesso che mentre altri nascondono quest’arte, tu, invece, di fronte a tutti i Greci fai proclamare te stesso dandoti nome di sofista e svelandoti maestro di paideia e di virtù e, per primo, hai ritenuto cosa degna ottenere un compenso per questo tuo lavoro. Si poteva, dunque, non invitarti a fare una simile indagine, a sottoporti a domande, a farti partecipe delle mie idee? Impossibile. Io. appunto, desidero ora riprendere quelle certe domande che prima ti ponevo e che alcune tu le richiamassi nuovamente alla memoria fin dal principio, altre le riesaminassimo insieme.
Notate il differente atteggiamento di Socrate rispetto all’Ippia maggiore: in questo caso Socrate è realmente sincero quando prega Pitagora di aiutarlo a raggiungere la verità (in un altro dialogo platonico, il Teeteto, la dottrina di Protagora è tenuta in alta considerazione). Si sottolinea dunque positivamente il valore del dialogo, della collaborazione fra le persone che, congiuntamente, hanno per preoccupazione il vero e non la vittoria in una disputa strumentale.
Notate anche il valore fondamentale del dubbio, strumento che permette all’uomo di proseguire sulla strada della ricerca. Ricorda questo passo la conclusione dell’Ippia maggiore, dove si indica il carattere problematico della ricerca che conduce alla verità. La confutazione, lo smontaggio di tutti i falsi saperi, non ha per Socrate un valore distruttivo e negativo, ma serve a chiarire sempre di più il ruolo della ragione. Più che trovare risposte, è importante imparare per Socrate moltiplicare le domande, avvicinandosi sempre più alla verità).
Traspare in qualche espressione una tonalità ironica, ben più velato dell’Ippia maggiore; Socrate è cosciente dell’autorità che Protagora rappresenta è sicuramente, al di là dell’idea del compenso, è intenzionato a valutarne l’effettiva sapienza.
L’ironia, in questo dialogo, è invece ferocemente rivolta agli allievi (appaiono Ippia e altri sofisti); nelle pagine iniziali del dialogo, preludio all’incontro fra Socrate e Protagora, notate la derisione del giovane allievo che vuole diventare discepolo del sofista senza neanche sapere che cosa sia la sofistica.
Seconda Citazione
da Platone, Apologia di Socrate, 17 A – 18 A
Quali sentimenti, Ateniesi, abbiate provato ascoltando le parole dei miei accusatori, io non so. Mentre li sentivo stesso quasi mi dimenticavo di me stesso, tanto i loro discorsi erano persuasivi. E tuttavia di vero essi non hanno detto neppure una parola, per così dire. Di tutte le loro fandonie, una mi ha colpito più delle altre: vi hanno detto di stare attenti a non lasciarvi ingannare da me perché, secondo loro, sarei abile a parlare. Bisogna veramente non avere alcun ritegno per esporsi così ed essere immediatamente smentiti dai fatti, perché adesso darò subito la prove di non essere affatto capace di parlare bene in pubblico! A meno che, naturalmente, essi non intendano dire che parla bene l’uomo che dice la verità. Se è così, sono il primo ad ammettere di essere un buon oratore. Ma francamente non credo che intendano dire questo.
In ogni caso, lo ripeto, i miei accusatori non hanno detto niente di vero, o quasi niente. A1 contrario io non voglio dirvi altro che la verità. Oh! per Zeus, non lo farò certo, Ateniesi, con un linguaggio costruito ad arte come il loro, tutto abbellito con frasi e parole eleganti, sapientemente intessute fra loro.No, io parlerò alla buona, con le parole che mi vengonoin mente. Confido nel fatto che ciò che ho da dire è giusto. Nessuno di voi si aspetti altro da me. Del resto, non sarebbe affatto conveniente alla mia età, o giudici, presentarmi davanti a voi comportandomi come un ragazzino dai discorsi artefatti. Vedete, Ateniesi, ciò di cui vi prego, ciò che chiedo con insistenza è questo: se sentite che mi esprimo, difendendomi, come è mia abitudine quando sono in piazza presso i banchi dei mercanti, dove molti di voi mi hanno ascoltato, altrove, non scandalizzatevi e non mormorate. La situazione infatti è questa: oggi è la prima volta che compaio davanti ad un tribunale, ed ho già settant’anni, perciò mi è del tutto estraneo il linguaggio giuridico. Del resto se fossi straniero ad Atene, parlerei certo con l’accento ed il dialetto della mia infanzia, e voi mi scusereste di sicuro. Mi pare quindi giusto—e di questo vi prego—che voi non badiate se il mio modo di esprimermi è più o meno bello. Sia quel che sia il mio discorso: la sola cosa che dovete considerare —e questo dovete farlo col massimo scrupolo—è se ciò che io dico è giusto o no. Questo è infatti il compito del giudice, mentre quello dell’oratore è dire la verità.
In questo passo dell’Apologia ritorna la contrapposizione fra persuasione e verità; notate il disprezzo di Socrate verso i suoi accusatori, che però non scade mai in una ironia semplicistica come avveniva nell’Ippia maggiore. La critica alla sofistica si nota nella contrapposizione fra parlare bene in pubblico e dire la verità; paradossalmente, sembra quasi un consentire con Gorgia, anche se con conseguenze etiche molto diverse. Il linguaggio pubblico è ingannevole, il consenso che strappa è falso; la fedeltà alla verità (qui c’è la differenza con Gorgia) presuppone il rifiuto di tutti quegli orpelli espressivi volti a distogliere la ragione di chi ascolta. L’unico criterio valido per il linguaggio è la fedeltà alla logica argomentativa. Socrate dunque sottolinea la differenza stilistica fra il proprio linguaggio e quello dei sofisti.
Interessante è anche la considerazione sul linguaggio giuridico, di cui Socrate contesta, evidentemente, il carattere retorico; il linguaggio giuridico si fonda sull’agonismo retorico, sul prevalere discorsivo, teso a influenzare emotivamente i giurati. Tutto il contrario dell’attività di chi si dedica alla verità.
Il valore etico della frase: “conosci te stesso”
I passi che abbiamo appena letto ci permettono di comprendere la concezione fondamentale dell’etica socratica, riassumibile nella proposizione “conosci te stesso”. L’espressione era tradizionalmente attribuita all’oracolo di Delfi e, dunque, al dio Apollo; Socrate la riprende nella sua arringa processuale, nell’Apologia [cfr. pag. 43], per dimostrare come la sua attività, secondo gli accusatori empia e contraria alle tradizioni della città, fosse in realtà coerente con la volontà del dio.
Abbiamo visto come i dialoghi socratici e, in particolare, le tecniche che lo caratterizzano, hanno lo scopo di esaltare la capacità di giudizio dell’uomo che, anche se limitato nelle facoltà conoscitive, possiede criteri di giudizio razionali, in grado di fargli cogliere la presenza (in misura maggiore o minore) della verità. La verità viene infatti associata all’universalità (attraverso il problema della definizione posto da Socrate ai suoi interlocutori) e quindi permette, pur nella consapevolezza di non poter giungere a un risultato definitivo, di orientare il discorso secondo criteri di onesta intellettuale (a differenza dei sofisti).
Conviene a questo punto ribadire la fondamentale differenza dalla filosofia di Protagora: anche il grande sofista riteneva esistesse un criterio razionale con il quale risolvere i problemi, attraverso il richiamo ai concetti di utile e dannoso. Questi però hanno senso solo in riferimento a un soggetto (individuale o collettivo) e non possono, è ovvio, avere i crismi dell’universalità (né Protagora lo avrebbe preteso). La razionalità socratica e la verità che ne consegue viene invece ritenuta oggettiva, al di sopra cioè di tutte le differenze individuali; per forza di cose, essa sfugge ai particolarismi e agli individualismi e, quindi, non è necessariamente legata ai criteri di utile individuale o generale.
Abbiamo visto che, in alcuni casi, i dialoghi socratici sembrano girare a vuoto (con cambiamenti di posizione o ritorni al punto di partenza), ma questo serve ancora meglio a illustrare il percorso della ragione, l’onesta dell’indagine e la volontà di ricerca che non si prefigge ad ogni costo il raggiungimento di uno scopo o la realizzazione di una finalità, bensì di mettere in evidenza le possibilità dell’uomo di distinguere secondo verità. Socrate non vuole rassegnarsi a quella teoria dell’inganno che i sofisti (anche in funzione positiva, rispetto alle loro finalità etiche), ritenevano inevitabile.
Possiamo allora compiere un passo ulteriore: le questioni di metodo che abbiamo sino ad ora esaminate non implicano solo una differenza formale fra il discorso da parata sofistico e il dialogo socratico, ma già di per sé sono conclusioni di carattere etico, indicano modelli di comportamento.
L’uomo non deve lasciarsi trascinare dagli impulsi egoistici (ambizione, fama, onori, ricchezze -tutti ricercati dai sofisti; ricordate a proposito la contrapposizione con i sapienti antichi nei passi citati dell’Ippia maggiore) ma deve valorizzare la parte più nobile della sua natura, la sua psyché(ragione, anima, psiche). Questa, se coltivata, lo porta ad amare la conoscenza per la conoscenza, la verità in quanto verità, e questa passione e interesse intellettuale inevitabilmente implicano l’abbandono degli impulsi egoistici. La verità va amata non perché ci torna comoda, ma in quanto è bella nella sua universalità, ci mette a contatto con la certezza dell’essere, ci fa sentire positivamente aderenti alla realtà nella sua costituzione razionale.
Ecco dunque il significato della frase: “conosci te stesso”. Bisogna comprendere come la nostra natura umana si identifichi con la ragione e che tutto ciò che è in analogia con i desideri del corpo ci porta a deviare rispetto alla virtù. La vita deve essere orientata ai valori spirituali, intellettuali, rivolta alla ricerca della verità (eterna e universale) e non alla soddisfazione di impulsi vani e destinati a sopravvivere pochi istanti.
Psichico o spirituale
La parola psyché può essere tradotta in molti modi: ragione, anima, psiche, attività intellettuale o razionale. Questa variabilità in sede di traduzione conduce a sottolineare valori culturali diversi. Alcuni, proponendo anima o vita spirituale, accentuano nel pensiero socratico una tonalità religiosa; tonalità religiosa evidente nel suo principale discepolo, Platone, ma che è dubbio sia identica nel maestro.
Coloro che traducono il termine con psiche vogliono dare alla filosofia socratica un carattere più laico e intellettualistico, inserendo Socrate anche nel dibattito politico del proprio tempo.
E’ evidente che la scelta di tradurre il termine in un modo o nell’altro dipende anche dalla cultura ideologica dello studioso per cui, se vi capita di leggere diversi studi, tenete presente questa possibilità di interpretare il pensiero di Socrate in un modo o nell’altro senza che le fonti lo consentano in modo preciso.
Socrate insiste dunque sul concetto di curare l’anima, come il compito più importante dell’esistenza umana, per indirizzarla verso giusti valori.
[…]
Secondo Socrate, dunque, la consapevolezza morale si riduce a una forma di conoscenza. Si potrà comportare bene solo colui che ha chiara la propria natura ed è cosciente della necessità di curare l’intelletto rispetto al corpo.
Non bisogna sopravvalutare la critica socratica alla cura del corpo (per quanto un’opinione molto radicale a questo proposito sia espressa nelFedone). Socrate fa continui paragoni con la medicina e aveva troppa stima di questa scienza per indurre alla trascuratezza del fisico; egli intende solo limitare il desiderio sensibile, l’impulso egoistico che porta a disinteressarsi dell’universale, della verità.
La riduzione dell’etica alla conoscenza dà origine all’intellettualismo socratico, cioè alla coincidenza fra la capacità di far del bene e la conoscenza del vero. Solo chi individua la strada che conduce alla verità può agire con consapevolezza morale.
Ne deriva una delle tesi apparentemente più paradossale dell’intero corpus dottrinale socratico: l’involontarietà di chi commette il male.
Come avete potuto notare, Socrate riduce tutto il male all’ignoranza: l’uomo infatti non può che ricercare il proprio bene e quindi, se commette il male, è solo per un difetto di conoscenza. Socrate non intende affermare che non esistono uomini che seguono esplicitamente il male, ma semplicemente che essi, nel farlo, lo scambiano per un bene, in quanto positivo per la loro persona. Se conoscessero il bene universale, essi naturalmente agirebbero positivamente; una volta infatti che si conosce il bene vero, non è possibile non seguirlo.
Socrate -e questo costituisce il maggior paradosso per noi moderni- sembra non assegnare alcun ruolo alla volontà (e lo correggerà, in tal senso, Aristotele); non perché l’azione non sia volontaria, ma perché la volontà è sempre condizionata dalla conoscenza. Vi offro un esempio magari banale, ma che può essere utile per capire l’identità socratica fra morale e conoscenza: se io mi trovo sull’orlo di un precipizio e non ho alcun motivo per togliere fine alla mia vita, sicuramente arretrerò e mi porterò verso il piano. Io in realtà sarei libero di andare avanti, ma certamente ogni essere libero sceglierebbe la soluzione di salvarsi. Socrate afferma in fondo la stessa cosa; per colui che coglie la verità, questa costituisce un bene così grande che è impossibile non seguirlo; così come per un uomo contento della vita è impossibile scegliere di andare verso il precipizio (l’inganno).
Da quanto detto derivano due ulteriori convinzioni socratiche:
1) una fiducia assoluta nella pratica pedagogica (come nei sofisti, ma di spirito ben diverso). Se si riesce a comunicare il sapere (o quantomeno l’amore per la ricerca e per la verità) si formeranno uomini di forte tempra morale; la conoscenza della verità assicura infatti -come abbiamo visto- la realizzazione di una condotta giusta.
2) La riduzione del concetto di virtù a quello di scienza. A questo proposito alcuni dialoghi socratici su cui non ci siamo soffermati trattano di una questione che è bene ricordare, sia per completezza di informazione sia nel caso voleste leggerli un po’ tutti e quindi padroneggiarli nel loro contenuto. Il problema dell’unità della virtù e dell’identificazione dell’unità alla scienza.
Socrate deve dimostrare che tutte le virtù si riducono a una sola, ovvero la conoscenza. Nei dialoghi Carmide e Lachete Socrate ha inizialmente buon gioco nel dimostrare che virtuoso (nel senso di onesto, saggio, temperante, ecc.) può esserlo solo un uomo che rispetta gli altri in nome della verità universale. Nel caso però della virtù maggiormente presa in considerazione presso i greci, il coraggio, sembra che questa unità venga meno; per essere coraggiosi in guerra, infatti, non bisogna necessariamente essere sapienti. Socrate dimostra invece, dal suo punto di vista, come il coraggio implica sapienza e conoscenza, sapersi destreggiare nelle circostanze; altrimenti sarebbe incoscienza, sarebbe più di danno che di beneficio agli alleati.
In questo modo, risolvendo quest’ultima obiezione, Socrate persegue lo scopo di identificare tutte le virtù nella scienza.
L’etica socratica e la felicità
L’evidenza del bene è un’evidenza intellettuale, in quanto s’impone per una superiorità logica che, imponendo l’universale, esclude i desideri particolari e ha un’immediata applicazione in campo morale.
Il carattere intellettualistico dell’etica socratica sembra però contraddire un assunto che è quasi un senso comune, condiviso da quasi tutte le filosofie e che Socrate non intendeva senz’altro negare. La vita umana cerca, nel suo svolgersi, di guadagnare e realizzare la felicità; cerca cioè di conquistare un benessere per l’individuo che lo allontani il più possibile dal dolore. Possiamo dire che il comportamento di chi commette il male, scambiando per bene ciò che è invece il suo opposto, si giustifichi proprio con questa ricerca del benessere individuale, che è legittima anche se non deve ricorrere alla negazione dei diritti altrui.
E’ evidente che l’etica socratica non garantisce in questo senso la felicità, poiché comporta la rinuncia alla soddisfazione personale a favore di un universale che, in certi casi, comporta per il soggetto una rinuncia. L’esempio dell’esistenza socratica è lampante: per amore della verità Socrate si lascia condannare e abbiamo più volte visto come, nel corso del processo, egli mantiene un atteggiamento tutto rivolto a glorificare la verità di cui si sente portatore, ben consapevole che questo probabilmente, favorirà la sua condanna a morte.
Per chi non conoscesse con esattezza la dinamica del processo, conviene forse ricordarne l’esito finale:
Socrate venne condannato per pochi voti; dopo la prima pronuncia dei giudici, il condannato aveva diritto a tenere un discorso, in cui egli stesso proponeva una pena per la sua colpa. Socrate, non ritenendosi colpevole, non solo non propone alcuna pena, ma anzi chiede al tribunale una pensione a vita, per i servigi che egli porta alla città. Nella successiva pronuncia dei giudici, il numero dei voti favorevoli alla condanna a morte di Socrate sarà notevolmente superiore.
Socrate però non ritiene che la sua etica, apparentemente limitativa per i bisogni individuali, comporti la rinuncia alla felicità. Più volte egli afferma che, se fosse arrivato a un compromesso con i suoi giudici, il resto della vita gli sarebbe apparso insopportabile, convinto di avere tradito la verità per un mero calcolo utilitaristico.
Socrate dunque, rispetto ai suoi obiettori, deve dimostrare come la felicità non sia necessariamente legata alla soddisfazione personale; o meglio , una persona che ha imparato a coltivare la sua anima, trova la propria felicità nell’assecondarla; in questo caso la rinuncia, l’autodisciplina o l’autocontrollo (categorie cui più volte Socrate fa riferimento) aumentano la felicità piuttosto che diminuirla, in quanto realizzano una completa unità fra la propria azione e la propria natura.
PLATONE – APOLOGIA DI SOCRATE SOMMARIO
Esordio
I miei accusatori hanno parlato mirabilmente; ma di vero proprio nulla hanno detto. Tra l’altro, anche questo: ch’io sono abile parlatore! Si, se essere abile parlatore significa dire la verità. Perché io non conosco la loro arte, e in genere l’arte di chi è avvezzo a parlare nei tribunali. E dunque io prego pazienza e silenzio se parlerò al mio solito modo. Del resto, la verità importa sopra tutto; e questa io dirò sopra tutto (c. I).
PARTE PRIMA (II-XXIV) LA DIFESA DI SOCRATE.
- Proposizione: si distinguono due sorta di accusatori, antichi e recenti
Ma non basta, o cittadini, ch’io mi difenda da Ànito e dai suoi amici. Ci sono accusatori ben più antichi di questi, e più tremendi, e più numerosi; i quali diffusero su me dicerie e calunnie quando la più parte di voi erano ancora fanciulli e giovinetti. E il peggio è che di costoro neanche i nomi si possono conoscere, se non di un poeta comico; e non li posso far venire qui, a rispondere. E dunque da costoro bisogna ch’io mi difenda, prima che dagli altri venuti dopo (c. II).
2. difesa contro gli antichi accusatori (III-X).
A. Calunnie sul sapere di Socrate (III-IV).
Che cosa dicevano i miei antichi calunniatori? Avete veduto le Nuvole di Aristofane: quivi è raffigurato quel che dicevano. Ebbene, chiunque di voi mi abbia udito mai ragionare di cose simili, lo dichiari. E come non è vero questo, neanche il resto è vero (c. III).
Anche dicono che insegno e metto insieme denari come fanno i Sofisti. Se fosse vero, non sarebbe poi un gran male! L’altro giorno incontrai Callia; gli domandai: – « Di’ un po’, i tuoi due figlioli chi te li istruisce.? – Mi rispose: – Evèno di Paro, per cinque mine. – E io mi rallegrai con lui e con Evèno. Ma io, purtroppo, non sono capace di nessuna di queste cose, o cittadini di Atene (c. IV).
B. Che cosa è il sapere di Socrate (V-IX).
a) l’oracolo di Delfo.
– Ma allora queste dicerie contro te di dove sono venute fuori? – Ve lo dirò. Un giorno Cherefonte andò a Delfo, e all’oracolo domandò se c’era nessuno più sapiente di me; e l’oracolo rispose che non c’era nessuno (c. v).
b) ricerca fra gli uomini politici.
E io pensai: – Che significa questo? Perché io non ho coscienza affatto di essere sapiente. E mi misi a ricercare se proprio non trovavo nessuno più sapiente di me. E cominciai dagli uomini politici. ,E mi dovetti persuadere che almeno in questo io ero più sapiente di costoro, in quanto costoro credevano sapere e non sapevano, e io, come non sapevo, cosi neanche credevo di sapere (c. VI).
c) ricerca fra i poeti.
Dopo i politici andai dai poeti; persuaso che almeno sugli argomenti che essi avevano poetato fossero sapienti. E mi accorsi che anche su cotesti argomenti non io soltanto ma altri moltissimi erano più sapienti di loro; poetando i poeti non per alcuna sapienza ma per non so che naturale disposizione e ispirazione: e che dunque anche costoro, come i politici, credevano sapere, ma non sapevano. E li lasciai (c. VII).
d) ricerca fra gli artisti.
In ultimo andai dagli artisti; e fu lo stesso: perciò che erano sapienti, ciascuno, nell’arte sua, anche credevano esser sapienti in tutte le altre arti. E allora capii la parola del dio; e che mi conveniva rinunciare cosi alla sapienza di tutti costoro come alla loro ignoranza, e restare com’ero (c. VIII).
e) vero sapere è sapere di non sapere.
Ma da questa ricerca molte inimicizie e calunnie sorsero contro di me, e fra queste calunnie la fama di sapiente; mentre in verità la sapienza mia niun’altra cosa è se non di scoprire che altri crede sapere e non sa, e io ,né so né credo sapere, e so solo di non sapere: che è il significato vero e unico della parola del dio (c. IX).
C. Le inimicizie molteplici e quindi l’accusa.
Aggiungete che a scoprire e svelare questa ignoranza altrui non ero io solo; mi seguivano spontanei un certo numero di giovani, massime delle famiglie più ricche, adoprandosi anch’essi per proprio conto a fare il medesimo che facevo io. Onde una irritazione più diffusa, e l’accusa che codesti giovani erano istigati da me e corrotti dai miei insegnamenti. E tanto crebbe e si divulgò e si accani ‘l’accusa che, ecco, se ne fecero come rappresentanti, e rappresentanti anche ciascuno di diverse classi d.i cittadini, Melèto e Ànito e Licone; e mi trascinarono in tribunale (c. x).
3. DIFESA CONTRO MELÈTO (XI-XV).
Difendiamoci dunque da questi nuovi accusatori. Dice l’accusa: – Socrate è reo di corrompere i giovani; di non riconoscere gli dèi che la città riconosce; anzi, di praticare culti religiosi nuovi e diversi. – Cominciamo dal primo punto. lo dico che reo è Melèto che vuoi dar a credere di occuparsi di cose delle quali né s’intende né s’è occupato mai (c. XI).
A. Melèto non sa che sia a) né educare (XII) b) né corrompere (XIII).
-O via, Melèto, rispondi, chi li fa migliori i giovani? Lo hai pur da sapere. – Le leggi. – Sta bene, ma chi, quale uomo, voglio sapere, il quale ha pur da conoscere anche codesto che dici, le leggi. – I giudici. – Tutti? – Tutti. – E anche i consiglieri? – Anche. – E anche gli ecclesiasti? – Anche. – E allora tutti li fanno migliori, eccettuato me. Cosi dici? – Cosi. – E dimmi, anche dei cavalli è cosi, che tutti li sanno allevare e uno solo li guasta? Andiamo, Melèto, tu non sai che sia educare; ché mai te ne sei dato pensiero (c. XII).
Ancora, rispondi: corrompere vuoI dire fare male ad alcuno; e io faccio male volontariamente o involontariamente? – Volontariamente. – Ma chi fa male rischia ricever male; e io mi metto a questo rischio volontariamente? Nessuno lo crederà. E dunque, se corrompo i giovani, involontariamente li corrompo; perché non so; e chi fa male perché non sa, istruito ha da essere, ammonito se mai, non punito (c. XIII).
B. Melèto accusa Socrate di ateismo (XIV); ed è in contraddizione con se medesimo (XV).
lo corrompo i giovani, dice Melèto, nella religione: insegnando loro a non riconoscere gli dèi che la città riconosce, oppure a non credere affatto che ci siano dèi? – Questo, a non credere affatto ci siano dèi. – Neanche il sole, neanche la luna io credo siano dèi? – Neanche. – Ma queste sono dottrine di Anassàgora; tutti le conoscono o possono conoscere. E poi Melèto è in contraddizione con la sua stessa accusa (c. XIV).
Infatti: si può credere ci siano fatti umani e uomini no? – Non è possibile. – E nemmeno che ci siano fatti demoniaci e non dèmoni. A quelli credo: lo hai detto tu, caro Melèto; e dunque credo anche a questi. Ma se io credo ci siano dèmoni, i quali sono, anche se bastardi, figlioli di dèi, ho pur da credere ci siano dèi (c. xv).
4) LA DIVINA MISSIONE (XVI-XXII).
A. Seguire giustizia, restare al proprio posto, obbedire al dio (XVI-XVIII).
Basta, per Melèto: ché del resto, se qualche cosa mi deve perdere, non Melèto né Ànito mi perderanno, bensì l’odio e le calunnie della gente. E qui, forse, qualcuno mi potrebbe dire: – O come, Socrate, tu sapevi questo e ti sei messo deliberatamente a esercitare cosi odioso e calunniato ufficio? – Proprio cosi: perché non della morte l’uomo dabbene ha da fare conto, ma se onestamente operi o no. Altrimenti, anche Achille fu stolto, il quale elesse morire anziché rinunciare a ciò che riteneva il dovere suo. E cosi ha da essere: rimanere sempre ciascuno al luogo che gli è stato assegnato (c. XVI).
E come a Potidèa, a Dèlio, ad Amfipoli, dove i comandanti mi ordinarono di rimanere io rimasi, anche con pericolo della vita, cosi qui. Perché operare diversamente sarebbe certo un male; e non già affrontare la morte, la quale io non so se non sia piuttosto un bene che un male. E dunque anche se voi mi assolvete da morte, anche se voi mi lasciate andare, io seguiterò a fare quello che ho sempre fatto: ché questo è l’ordine del dio; e a quest’ordine obbedirò, anche se non una ma più volte dovessi morire (c. XVII).
E nemmeno, alla fine, è questione di me: in questo processo chi corre pericolo non sono io, ma voi; io non posso aver male, voi si; perché non è male patire, ma fare ingiustizia. E voi, condannando me, farete ingiustizia. E peccherete contro il dio, che me elesse a stimolarvi, a persuadervi, a rampognarvi: me elesse; e questo io accettai, e professai, con tutti e sempre, trascurando ogni mio interesse privato, non ricevendo compensi di nessuna specie da chicchessia, come vi prova un testimone certissimo, la mia povertà (c. XVIII).
B. Repugnanza di Socrate dalla comune politica (XIX-XX).
Direte: – O perché tanti consigli e istruzioni in privato, a questo e a quello, e della vita politica della città non partecipi affatto? – Voi sapete di quella mia divina voce che quando sono per fare alcuna cosa che non debbo mi ammonisce: questa è che più volte mi ammoni di non partecipare alle cose dello stato. E ottimamente, credo: perché non c’è uomo che si salvi nella politica se né vuoI commettere egli né vuole che altri commetta ingiustizia; e io da tempo sarei morto e non avrei giovato a nessuno (c. XIX).
Né certo per paura di morte me ne astenni. Posso addurvene esempi. Voi tutti ricordate il processo dei generali dopo le Arginuse: io solo mi opposi, e con rischio della vita, a una proposta illegale. E; ricordate l’episodio di Leonte di Salamina: io solo mi rifiutai di obbedire all’ordine dei Trenta; e anche qui con rischio della vita, se i Trenta non fossero stati cacciati subito dopo (c. xx).
C, Le testimonianze dei discepoli, dei loro genitori e fratelli (XXI-XiII).
Né io ho mai, contro il giusto, subito imposizioni da alcuno; nemmeno da coloro che taluni dicono essere stati scolari miei. Ma come scolari? lo non sono stato mai il maestro di nessuno.
Lascio che meco conversi chi vuole, e mi interroghi e mi risponda; . povero o ricco che sia: e non merito lode se colui diventi nomo
dabbene, né biasimo se il contrario (c. XXI). ,
E, comunque, se col mio conversare questi giovani io li ho corrotti, perché non vengono qui a testimoniare contro di me, non dico i giovani stessi, ma i loro parenti, genitori e fratelli maggiori? Ce ne sono pure anche qui in Tribunale. Perché Melèto non li ha presentati lui stesso? Se ne dimenticò? Li presenti ora: glie lo permetto. Se non che proprio i parenti di questi corrotti, uomini già anziani, sono qui per difendere me: perché sanno che Melèto mentisce (c. XXII).
EPILOGO (XXIII-XXIV)
Socrate non chiede né vuole misericordia.
È costume che gli accusati portino qui i loro congiunti, e figli e amici, per destare pietà, io non farò questo: non già per orgoglio; ma per rispetto di voi stessi ,e di me (c. XXIII).
Perché ufficio del giudice è giudicare, non fare grazie del giusto; e questo voi avete giurato. E se voi, con preghiere, io cercassi di indurre a violare il giuramento, allora veramente sarei empio, e veramente colpevole dell’accusa di cui sono stato accusato (c. XXIV).
PARTE SECONDA (XXV-XXVIII)
LA PENA.
Mi avete condannato: non me ne rammarico; né mi meraviglio. Piuttosto mi meraviglio del numero dei voti: cosi pochi in più per la mia condanna che, se non c’erano Ànito e Licone, rischiava Melèto di esser condannato a pagare la multa di mille dramme (c. xxv).
E ora c’è da stabilire la pena. La morte, chiede Melèto. E quale pena ho da chiedere io? Quella che merito, naturalmente., E quale merito, io che per tutta la vita, rinunciando a ogni ambizione, trascurando ogni mio interesse privato, badai solamente alla istruzione e alla educazione vostra e della città? Non una pena, un premio. E ,se ho da chiedere il premio che mi spetta, questo chiedo, di essere nutrito a spese dello stato nel Pritanèo (c. XXVI).
Né dico questo, ,come voi potreste sospettare, per un sentimento di orgoglio dispettoso; ma solo perché, non avendo io mai fatto ingiuria ad alcuno, neanche voglio oggi fare ingiuria a me stesso dichiarandomi meritevole di pena. E poi, quale pena? il carcere? urta multa? l’esilio? L’esilio: questo vorreste; lo so.’ Ma io non muterei vita ‘in esilio; e non sfuggirei anche altrove, e meno di qui, ad eguali pericoli e ad eguale condanna (c. XXVII).
E quieto e in disparte, e senza fare indagini su me stesso e su gli altri, non potrò stare mai’; ché anche sarebbe disobbedire al dio. Né io devo, perciò, assegnarmi una pena che non merito. Una multa mi assegnerò: di una mina, la sola che potrei pagare io; oppure, come vedo che vogliono e insistono questi miei amici, di trenta mine; le quali garantiscono e pagherebbero essi (c. XXVIII).
PARTE TERZA (XXIX-XXXIII)
Dopo la condanna.
A. A quelli che votarono contro (XXIX-XXX).
E cosi avete votata la mia morte. Un gran che di tempo, con questa mia età, non avete guadagnato di certo; e altro, invece, avete guadagnato! E perciò, forse, pensate che in altra maniera io avrei potuto difendermi, e adoprare qualcuno dei tanti mezzi consueti per sfuggire una condanna. Anche in battaglia campare da morte non è difficile a chi è vile. Ma la viltà e la infamia sono cose peggiori assai della morte: questa io affronto ora; quelle dovrete affrontare e subire voi per l’avvenire. E sarà, credo, la misura giusta per tutti (c. XXIX).
E posso ben farvi vaticinio, come possono i morituri. Sopprimendo me, non avete soppresso chi vi chiederà conto tuttavia del vostro vivere e del vostro operare. Che anzi fino a oggi ero solo io; domani saranno molti. Uccidere e incatenare uomini non giova; solo giova adoprarsi per essere sempre più virtuosi e migliori (c. xxx).
B. A quelli che votarono; in favore (XXXI-XXXIII).
A voi, amici, dirò cosa che potrà parere meravigliosa. Tante volte quella mia voce, in circostanze certamente reputate di assai minor conto, mi vietò di fare questo e quello; e oggi codesta
voce mai mi s’è fatta sentire, mai mi ha rattenuto, né quando venni qui, né tutte le volte che qui ripresi a parlare. Segno evidente che ciò che sta ora per accadermi non è un male, ma un bene (c. XXXI).
Di fatti la morte o è non avere più senso di niente e non esser più niente, o è come una trasmigrazione dell’anima da questo luogo quaggiù a un altro. Se la prima cosa, come quando uno dorme e neanche sogna, se .insomma è la fine di tutto, ella è già per ciò stesso un guadagno inestimabile; se un trapasso in altro luogo, dove sono tutte le anime dei trapassati, tanto meglio ancora: ché trovarsi nell’ Ade con giudici veri come Eaco e Minos e Radamanti, e con sacerdoti e poeti come Òrfeo e Musèo e Omero, e con antichi eroi come Agamennone e Odisseo, e con coloro tutti seguitare a ragionare a interrogare a disputare, codesto sarà certamente il sommo della felicità (c. XXXII).
Nell’un caso e nell’altro a uomo dabbene non è possibile mai intervenga, male verunoj ché tutto è ordinato dalla benevolenza degli dèi. Né perciò posso avere rancore con coloro che mi hanno condannato, anche se, condannandomi, essi hanno creduto di farmi male. E cosi è venuta l’ora di andare: io a morire, e voi a vivere; chi vada verso il meglio nessuno sa, fuori che Iddio (c. XXXIII).