7
Mar
2007

Nietzsche: sul “Così parlò Zaratustra”

Si tratta della lezione su Niezsche successiva al tema della “morte di Dio”, realizzata sul passo dell’uomo folle, tratto da “La gaia scienza”
Così parlò Zarathustra

Dopo avere esaminato il passo tratto da La gaia scienza, è possibile affrontare i concetti più noti della filosofia di Nietzsche, tutti ampiamente presenti nel Cos’ parlò Zarathustra. La morte di Dio –anticipata ne La gaia scienza e nuovamente annunciata nello Zarathustra-, costituisce l’annuncio del nuovo mondo; Nietzsche ha individuato che cosa è accaduto nella sua epoca e ha raggiunto la salda conclusione che nulla, d’ora in poi, potrà essere per la civiltà occidentale quello che è stato da 2000 anni a questa parte. Gli rimane però ancora da stabilire come dovrà essere l’uomo nel nuovo mondo, quali conseguenze recherà la morte di Dio e quali eventi saranno destinati ad accadere.

Anche Nietzsche è giunto, quindi, alla sua svolta, segnata dalla pubblicazione del suo capolavoro: Così parlò Zarathustra. E’ l’opera in cui egli condensa totalmente il suo pensiero; in essa viene ripetuto, in forma ancora più solenne, l’annuncio della morte di Dio, ma vengono tematizzate anche le conseguenze dovute a quest’evento.

Dopo la pubblicazione dello Zarathustra, opera concepita tra il 1883 e il 1885, Nietzsche darà alle stampe, in quei pochissimi anni – fino al 1888 – che gli restano di lucidità intellettuale, altri testi, giustamente celebri e importanti nella storia della filosofia (senza contare poi l’opera postuma). Sono opere però, nelle quali Nietzsche ritorna su temi già trattati, precisa ulteriormente la sua critica alla storia del pensiero occidentale e all’insieme della cultura, senza però più modificare il quadro complessivo che, nelloZharathustra, egli ha delineato. Pure queste opere dovremo analizzarle perché è soprattutto a partire da esse che sorgono alcune fondamentali ambiguità del pensiero nietzschiano, destinate a produrre la sua fortuna (e sfortuna) critica nel XX secolo.

Il titoloCosì parlò Zharatustra – già ci informa che la scrittura dell’opera si presenta molto anomala rispetto al tradizionale linguaggio della disciplina filosofica (fenomeno che non dovrebbe più stupirci ormai, dopo la lettura del passo della volta scorsa). Quanto affermato da Nietzsche ha un carattere epocale così rilevante che necessita dell’annuncio di un nuovo profeta, che parlerà, ovviamente, il linguaggio profetico della visione, dell’intuizione e della parabola. Zarathustra, rifiutando la filosofia tradizionale, non potrà utilizzare i consueti concetti speculativi, che gli sembrano vuote astrazioni, prive di quella concretezza della realtà terrena. Il suo linguaggio – l’unico adeguato alla nuova situazione – esprimerà il proprio pensiero in tono poetico, quasi mistico (come nei filosofi presocratici, dove è la verità stessa del mondo che parla al filosofo che la coglie).

Da qui sorge la difficoltà del testo, che ci presenta immagini affascinanti ma di difficile interpretazione filosofica. Chiaro anche l’importanza attribuita alla scrittura di Nietzsche a livello semplicemente letterario; da questo punto di vista, però, è necessario non esagerare. Quando il filosofo utilizza il tono oracolare e, soprattutto, la figura retorica della parabola, le sue immagini sono di una forza e di una espressione straordinarie; quando però, incautamente, si avventura nell’esercizio poetico – Nietzsche era molto ambizioso e, per certi versi, anche un po’ meschino – i risultati sono invece scadenti.

E’ doveroso precisare che solo in parte è possibile tradurre tali parabole in una corretta teoria filosofica; Nietzsche non vuole dimostrare filosoficamente nulla, ma solo proporre una immagine della realtà che – stante ciò che è accaduto – si impone a lui con la forza della intuizione.

Conviene dunque ancora precisare dove sta l’importanza straordinaria della filosofia di Nietzsche: egli riesce intuitivamente a prefigurare le condizioni di senso del nuovo mondo, valutando in modo attento le mutazioni in atto, con una sensibilità acutissima e che si rivelerà di straordinaria puntualità negli anni a venire. Noi dobbiamo comprendere in Nietzsche qual è l’immagine della realtà che egli vuole comunicarci; se invece lo leggiamo cercando di prendere sul serio i suoi riferimenti al passato filosofico, la sua critica a concetti tradizionali, resteremo delusi, perché egli semplifica, interpreta arbitrariamente, non tiene conto di giuste obiezioni sul piano filologico. In altre parole, per avere una esatta comprensione storica della filosofia di Socrate, Nietzsche non serve, ma il suo concetto di “socratismo” è fondamentale per spiegare la transizione della cultura occidentale tra ‘800 e ‘900.

Torniamo all’opera: si tratta di una serie di parabole tenute insieme da una debole favola. Il racconto che fa da cornice è presto sintetizzato: Zarathustra, all’età di trent’anni (quella in cui inizia la predicazione Cristo, pensato da N. come l’antagonista di Z.), si ritira per dieci anni in montagna, nella solitudine, vicino all’essenza di tutte le cose. Giunto alla comprensione, inizia la sua discesa fra gli uomini, la prima al mercato e poi ai singoli. Ma gli orecchi non sono ancora aperti al suo messaggio; egli ritorna così nella solitudine, quindi scenderà fra gli uomini una seconda e una terza volta. Tornato in montagna, sarà lui successivamente ad essere ricercato da alcuni uomini che tentano, come vedremo, di trarre ricchezza dai suoi insegnamenti.

L’opera si divide, così, in un prologo e quattro parti. Non possiamo ovviamente seguirla per intero; ci limiteremo ad esaminare alcune parabole e ad illustrarne i concetti fondamentali, che torneranno poi nelle opere successive.

Cerchiamo innanzitutto di tracciare un quadro teorico generale, in cui calare i concetti, dando per scontato l’annuncio della morte di Dio, che qui viene ripetuto

Nichilismo e superuomo

La morte di Dio provoca – come abbiamo già detto – il crollo della cultura occidentale, la fine di quell’insieme di significati e di credenze su cui la civiltà occidentale si era fondata. Si apre quindi una nuova epoca, detta da Nietzsche epoca del nichilismo; questa espressione è usata in filosofia per indicare quelle dottrine che vogliono sottolineare il carattere di negazione radicale di determinati sistemi di valore. Il termine in Nietzsche possiede, come si vedrà, due principali significati: negativo, quando indica la decadenza dell’uomo occidentale cristiano; positivo, quando serve a indicare teoreticamente e praticamente la distruzione dei falsi valori, annunciando l’avvento di un’epoca e di un uomo nuovo, che saranno portatori addirittura di un superamento del concetto stesso di valore.

Il nichilismo. rappresenta allora, da una parte, la crisi di tutti i valori dell’Occidente; l’autodistruzione della metafisica diventa, però, il risultato più importante della storia dell’occidente, in quanto il nichilismo comporta la trasformazione di tutti i valori e il ritorno alla terra e alla concretezza.

Si può quindi – come aveva avvertito lo stesso uomo folle – vivere la morte di Dio con consapevolezza o meno, accentuandone l’aspetto della perdita o individuandone le positive opportunità. Non è un caso, quindi, che nel Prologo dello Zarathustra Nietzsche immediatamente dia conto di questa doppia possibilità esistenziale: in essa si descrivono infatti l’ultimo uomo e il superuomo, uno dei risultati teoretici più noti del pensiero di Nietzsche, che qui incontriamo per la prima volta.

L’ultimo uomo è l’espressione del nichilismo passivo, che non crede più a niente, nel quale la potenza creatrice dell’essenza umana è spenta e bruciata completamente, che in fondo vegeta, anche se dotato di un’ampia cultura; è il piccolo uomo nella cui anima non arde più il fuoco dell’entusiasmo. Nietzsche fornisce un’interessante descrizione dell’ultimo uomo, che è facile identificare con l’individuo alienato della società di massa (per Nietzsche della società bismarkiana). L’ultimo uomo è colui che alla domenica crede in Dio (non sempre!), che ha bisogno dei divertimenti circensi della massa, del tempo libero organizzato, per non venir divorato dall’orribile noia di una vita che non vuole più nulla, che in fondo vuole il “nulla”.

Il superuomo – che nel Prologo ci si limita a contrapporre a questa figura più comune – non è ancora esistente, ma è per Nietzsche una speranza. E’ tempo di creare il Superuomo che vada contro l’ultimo uomo. Non a caso Zarathustra lo annuncia proprio al mercato, presso quegli uomini (la massa alienata) che hanno perduto ogni idealismo per realizzare se stessi.

Il superuomo, quindi, è un essere che deve riacquistare entusiasmo per la vita dopo la delusione implicita nella scoperta che tutto quello che veniva fino allora creduto era falso. Quindi è soprattutto e inizialmente una immagine di entusiasmo che desidera rimanere attaccata alla vita anche dopo la morte di Dio; e per farlo deve – in continuità con quanto già Nietzsche aveva espresso nelle opere precedenti – rifiutare l’al di là e riprendere il diretto contatto con la terra e con la vita.

Il superuomo riconosce nell’al di là metafisico soltanto una utopica immagine riflessa della terra; si volge quindi col medesimo entusiasmo dei vecchi santi e metafisici verso la terra. L’uomo non è più “libero verso Dio”, ma “libero verso la terra”, in quanto grembo da cui ebbe origine tutto ciò che appare. Con il superuomo deve dunque avverarsi la riconciliazione tra corpo e anima, che fino a quel momento aveva lacerato l’uomo e aveva mortificato la vita.

Passiamo ad esaminare ora una prima parabola, che contrappone il superuomo ai suoi precedenti e lo propone quale figura del futuro.

Delle tre metamorfosi:

«Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo. Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte nel quale abita la venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, piu’ difficili a portare. Che cosa e’ gravoso? domanda lo spirito paziente e piega le ginocchia, come il cammello, e vuol essere ben caricato. Qual e’ la cosa piu’ gravosa da portare eroi? cosi’ chiede lo spirito paziente, affinche’ io la prenda su di me e possa rallegrarmi della mia robustezza. Non e’ forse questo: umiliarsi per far male alla propria alterigia? Far rilucere la propria follia per deridere la propria saggezza? Oppure e’: separarsi dalla propria causa quando essa celebra la sua vittoria? Salire sulle cime dei monti per tentare il tentatore? Oppure e’: nutrirsi delle ghiande e dell’erba della conoscenza e a causa della verità soffrire la fame dell’anima? Oppure e’: essere ammalato e mandare a casa coloro che vogliono consolarti, e invece fare amicizia coi sordi che mai odono cio’ che tu vuoi? Oppure e’: scendere nell’acqua sporca, purché sia l’acqua della verità, senza respingere rane fredde o caldi rospi? Oppure e’: amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano allo spettro quando ci vuole fare paura?
Tutte queste cose, le piu’ gravose da portare, lo spirito paziente prende su di se’: come il cammello che corre in fretta nel deserto sotto il suo carico, cosi’ corre anche lui nel suo deserto. Ma la’ dove il deserto e’ piu’ solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua liberta’ ed essere signore nel proprio deserto.
Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e del suo ultimo dio vuol egli diventare, con il grande drago vuol egli combattere per la vittoria.Chi e’ il grande drago, che lo spirito non vuole piu’ chiamare signore e dio? “Tu devi” si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice “io voglio”. “Tu devi” gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l’oro, e su ogni squama splende a lettere d’oro “tu devi”. Valori millenari rilucono su queste squame e cosi’ parla il piu’ possente dei draghi: “tutti i valori delle cose – risplendono su di me”. “Tutti i valori sono gia’ stati creati, e io sono – ogni valore creato. In verita’ non ha da essere piu’ alcun “io voglio”!”. Cosi’ parla il drago. Fratelli, perche’ il leone e’ necessario allo spirito? Perche’ non basta la bestia da soma, che a tutto rinuncia ed e’ piena di venerazione? Creare valori nuovi – di cio’ il leone non e’ ancora capace: ma crearsi la liberta’ per una nuova creazione – di questo e’ capace la potenza del leone. Crearsi la liberta’ e un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, e’ necessario il leone. Prendersi il diritto per valori nuovi – questo e’ il piu’ terribile atto di prendere, per uno spirito paziente e venerante. In verita’ e’ un depredare per lui e il compito di una bestia da preda. Un tempo egli amava come la cosa piu’ sacra il “tu devi”: ora e’ costretto a trovare illusione e arbitrio anche nelle cose piu’ sacre, per predar via liberta’ dal suo amore: per questa rapina occorre il leone.
Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perche’ il leone rapace deve diventare un fanciullo? Innocenza e’ il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di si’.
Si’, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di si’: ora lo spirito vuole la sua volonta’, il perduto per il mondo conquista per se’ il suo mondo.
Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo.
»

Il cammello indica l’uomo dal grande timore reverenziale, che si piega davanti alla superiorità di Dio, davanti alla grandiosità delle leggi morali, e volontariamente porta grandi pesi.

Come abbiamo visto, la dissoluzione della morale è un esito necessario della morale stessa; e quando questo avviene, il cammello si trasforma in leone: lo spirito paziente e rispettoso si sbarazza dei pesi che lo opprimono e riconosce la sua precedente alienazione. L’uomo libera la libertà che è in lui, rifiuta la servitù millenaria. Ma la sua libertà è ancora una liberta negativa, una libertà “da” ma ancora non una libertà “di”. Se il motto del cammello era il “tu devi”, quello del leone è l’ “io voglio”, ma è ancora incapace di creare valori nuovi.

L’ultima figura della parabola, quella del bambino, rappresenta la libertà come progetto di nuovi valori; essa è indicata attraverso la metafora del gioco. Con la morte di Dio, infatti, l’esistenza umana diventa molto più rischiosa, in quanto non esistono più sicurezze sulle quali basare le proprie scelte. Proprio per questo l’uomo è costretto a rischiare e, quindi, a giocare con l’esistenza, esprimendo al massimo la propria creatività. Liberatosi dalla alienazione (ed è questo il carattere di autenticità ed innocenza propri della condizione infantile), il gioco è quello di porre nuovi valori, di creare nuovi mondi con nuovi valori. L’uomo assume su di sé la forza della vita stessa, si libera dalle pastoie create dalle precedenti virtù.

Questa descrizione del superuomo può sembrarvi approssimativa, ancora poco adeguata a farci comprendere ciò che Nietzsche intende comunicare. Eppure, nonostante egli ritorni sul tema e lo precisi in tutte le opere fino alla morte, egli non sarà mai più chiaro di così, nel senso che tenderà sempre ad usare tali immagini ricche di metafore, indicanti un nuovo modo di rapportarsi alla vita improntato alla spontaneità e all’energia, all’entusiasmo per i valori terreni. Solo mettendo insieme tutte queste descrizioni, paragonandole e approfondendole, è possibile dare un immagine il più possibile esatta di questa importante figura del superuomo e cercare di comprenderla al meglio. Mai però potremmo darne una descrizione concettualmente definita, perché altrimenti ricadremmo nelle certezze nefaste della metafisica.

E’ in seguito a questa voluta descrizione a-concettuale, che quindi si presenta sfumata e, in alcuni casi, vaga, che la figura del superuomo è stata più volte fraintesa, o appiattita su alcune descrizioni parziali di Nietzsche (da Dostojevskji a D’Annunzio). Non c’è dubbio, però, che proprio per questa ragione l’idea di superomismo si presenti in effetti con forti margini di ambiguità, che tenderanno maggiormente a risaltare nelle opere successive , in particolare, negli scritti postumi.

Già però nelle pagine che abbiamo preso in esame possiamo notare dei particolari che danno luogo a una doppia possibile interpretazione: da una parte il superuomo come immagine di un’umanità rinnovatasi dopo la morte di Dio, configurabile quindi come una condizione capace di investire la collettività tutta; dall’altra l’affermazione di Nietzsche secondo cui tale liberazione dalla alienazione può conseguirsi solo individualmente, attraverso un atto gioioso e potente di emancipazione con cui ciascuno vuole emancipare se stesso e stringere finalmente un rapporto di fedeltà con la vita e la terra. Ecco dunque l’esaltazione dell’egoismo, quale capacità dello spirito individuale di comprendere la necessità di valorizzare se stessi e la propria forza vitale non mortificando i propri desideri ma esaltando al massimo la propria volontà di imporre al mondo ciò che si vuole.

Anche se Nietzsche non sembra intendere il rozzo egoismo alla ricerca dei beni materiali: “In verità, un predone di tutti i valori deve diventare questo amore che dona; ma io dico sacrosanto questo egoismo. C’è anche un altro egoismo, meschino, affamato, che vuole sempre rubare, l’egoismo dei malati, l’egoismo morboso”. Frase che impedisce di identificare l’egoismo con la pura sopraffazione individuale ma che certo non è incline a un senso di solidarietà.

Testo

«Ma quando fu solo, così Zarathustra parlò al suo cuore: «E mai possibile? Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire, qui nel suo bosco, che Dio è morto!» Arrivato nella città più vicina, che sorgeva ai margini della foresta, Zara­thustra vi trovò una gran folla radunata sulla piazza del mercato: perché ave­vano detto che si sarebbe visto un uomo camminare sulla corda. E Zarathu­stra così parlò alla folla: «lo vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete fatto voi per superarlo? Tutti gli esseri hanno finora creato qualcosa al di sopra di se stessi: e voi volete essere il riflusso di questo grande flusso e tornare piuttosto all’animale che superare l’uomo? Che cos’ è la scimmia per l’uomo? Una risata o una dolorosa vergogna. E proprio ciò dev’essere l’uomo per il superuomo: una risata o una dolorosa ver­gogna.. Voi avete fatto la strada del verme all’uomo, e molto c’è ancora in voi del verme. Una volta eravate scimmie, e ancora adesso l’uomo è più scimmia di qualunque scimmia. Ma anche colui che è più saggio tra noi, non è che un dissidio, un essere ibrido fra la pianta e lo spettro. Ma vi ordino io di diventare spettri o piante? Vedete, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. La vostra volontà dica: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di speranze ultraterrene! Essi sono degli avvelenatori, che lo sap­piano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi ed essi stessi avvelenati, dei quali la terra è stanca: se ne vadano pure!

Una volta il sacrilegio contro Dio era il sacrilegio più grande, ma Dio è morto, e sono morti con Dio anche quei sacrileghi. Commettere sacrilegio contro la terra è ora la cosa più spaventosa, e fare delle viscere dell’imperscru­tabile maggior conto che del senso della terra! Uh tempo l’anima guardava al corpo con disprezzo: e allora questo disprezzo era la cosa più alta: essa lo voleva macilento, orribile, affamato. Così pensava di sfuggire ad esso e alla terra.

Oh, quest’anima era stessa ancora macilenta, orribile e affamata: e la cru­deltà era la voluttà di quest’anima!

Ma anche voi, fratelli, ditemi: che cosa rivela il vostro corpo della vo­stra anima? Non è la vostra anima povertà e sporcizia e un miserabile benessere? In verità, un fiume lutulento è l’uomo. E bisogna essere un mare, per poter accogliere un fiume lutulento senza divenire impuri. Vedete, io vi insegno il superuomo: esso è questo mare, in cui può inabis­sarsi il vostro grande disprezzo.

Qual è l’esperienza più grande che potete fare? Essa è l’ora del grande di­sprezzo. L’ora in cui anche la vostra felicità vi nausea, e così pure la vostra ragione e la vostra virtù.

L’ora in cui dite: «Che importa la mia felicità? Essa è povertà e sporcizia, e un miserabile benessere. E la mia felicità dovrebbe giustificare la stessa esistenza?» L’ora in cui dite: «Che importa la mia ragione? Ha essa fame di sapere come il leone del suo pasto? Essa è povertà e sporcizia e un miserabile benes­sere

L’ora in cui dite: «Che importa la mia virtù? Essa non mi ha reso ancora furibondo. Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è po­vertà e sporcizia e un miserabile benessere!» L’ora in cui dite: «Che importa la mia giustizia? Non vedo che io sia brace ardente. Ma il giusto è brace ardente!» L’ora in cui dite: «Che importa la mia pietà? Non è la pietà la croce sulla quale viene inchiodato colui che ama gli uomini? Ma la mia pietà non è una crocifissione».

Parlaste già così? Gridaste già così? Oh, se vi avessi già sentito gridare così! Non il vostro peccato, ma la vostra moderazione grida vendetta al cielo,la vostra avarizia nello stesso vostro peccato, grida vendetta al cielo! Dov’ è la folgore che vi lecchi con la sua. lingua? Dov’ è la follia che vi si dovrebbe inoculare? Vedete, io vi insegno il superuomo: esso è questa folgore, esso è questa follia! Quando Zarathustra ebbe così parlato, uno di tra la folla gridò: «Abbiamo ascoltato il funambolo abbastanza; adesso vogliamo anche vederlo!». E tutta la folla rise di Zarathustra. Da parte sua il funambolo, credendo che quelle parole fossero rivolte a lui, si mise all’opera.

Zarathustra invece guardò la folla meravigliato. Poi così parlò: «L’uomo è una corda, annodata tra l’animale e il superuomo una corda tesa sopra un abisso. Un pericoloso andare al di là, un pericoloso essere in cammino, un pericoloso guardarsi indietro, un pericoloso rabbrividire e fermarsi. Quel che è grande nell’uomo è cheegli è un ponte e non un fine: quel che si può amare nell’uomo è che egli è un passaggio e un trapasso.lo amo coloro che non sanno vivere se non come quelli che vanno in ro­vina, perché essi sono quelli che vanno oltre. Amo i grandi disprezzatori, perché essi sono i grandi veneratori e frecce del desiderio dell’altra riva. Amo coloro che non stanno a cercar prima una ragione dietro le stelle per sacrificarsi e perire: ma che si sacrificano alla terra perché la terra sia un giorno del superuomo. Amo colui che vive per conoscere e che vuole conoscere perché viva un

giorno il superuomo. E così vuole la propria fine. Amo colui che lavora e inventa, per costruire la casa al superuomo e pre­parargli la terra, l’animale e la pianta: giacché così egli vuole la propria fine. Amo colui che ama la propria virtù: giacché la virtù è volontà di perire e una freccia del desiderio. Amo colui che non serba per sé neanche una goccia di spirito, ma vuole essere in tutto lo spirito della sua virtù: così egli passa come spirito sopra il ponte. Amo colui che fa della sua virtù la sua inclinazione e la sua fatalità: così egli vuole, per amore della sua virtù, vivere ancora e non vivere più. Amo colui che non vuole avere molte virtù. Una virtù è più virtù di due, perché è più nodi a cui è annodata la fatalità. Amo colui la cui anima si dissipa, che non vuole ringraziamenti e che non restituisce: giacché egli dona sempre e non vuole conservarsi. Amo colui che si vergogna se il dado riesce a suo favore e che allora si domanda: sono forse un baro? – giacché egli vuole perire. Amo colui che getta parole d’oro davanti alle sue azioni e sempre man­tiene ancor più che non prometta; giacché egli vuole la propria fine. Amo colui che giustifica gli uomini dell’avvenire e redime quelli del pas­sato: giacché egli vuole perire ad opera degli uomini del presente. Amo colui che castiga il suo dio, perché ama il suo dio: giacché egli dovrà perire per la collera del suo dio.

Amo colui la cui anima è profonda anche quando è ferita e che può perire per una piccola vicenda: così egli passa volentieri sopra il ponte. Amo colui la cui anima è stracolma, sicché dimentica se stesso, e tutte le cose sono in lui: così tutte le cose diventano la sua fine. Amo colui che ha libero spirito e libero cuore: così la sua testa non è che

le viscere del suo cuore, ma il suo cuore lo spinge alla rovina. Amo tutti coloro che sono come gocce grevi, le quali cadono a una a una dalla nuvola scura incombente sugli uomini: essi annunciano l’arrivo del ful­mine e, come annunciatori, periscono. Vedete, io sono un annunciatore del fulmine e una goccia greve che cade dalla nuvola: ma questo fulmine si chiama il superuomo.»

La volontà di potenza

L’espressione massima del superuomo e quella che Nietzsche, nella terza parte dello Zarathustra, chiama la volontà di potenza, titolo poi anche della problematica opera postuma che carica questa espressione di sinistre valenze. Senza arrivare a analogie evidenti con comportamenti riprovevoli, nello Zarathustra questa energia umana si presenta con gli stessi margini di ambiguità del concetto di superuomo.

Da una parte, l’idea di volontà di potenza intende indicare quella forza con cui il superuomo dice sì alla terra e intende creare e fondare nuovi valori. L’uomo senza più Dio, inserito all’interno del flusso dell’esistenza, gioca con la vita e, quindi, crea. La volontà dell’uomo, non più soggiogata dalla volontà di Dio, si esprime nella massima potenza possibile, ovvero può esprimere la massima volontà senza più trovare limiti esterni che pretendono di esprimere una legge trascendente.

Il superuomo, vivendo nella terra, è consapevole del carattere finito del tempo e di se stesso, e sa dunque che egli deve continuamente costruire qualcosa che a sua volta sarà distrutto e proseguito da altri in una catena incessante. La vita dell’uomo è dunque un continuo creare e sperimentare. Ma questo gioco creativo, per essere libero, deve liberarsi da tutti i vincoli morali.

Significativo è, a proposito, il capitolo intitolato Delle Tarantole: in questi animali Nietzsche trova il simbolo dello spirito di vendetta, della vendetta di coloro che la sorte ha privato di ogni grandezza e di ogni successo nella vita. Le tarantole sono cioè i predicatori di uguaglianza, nei quali l’impotenza di vita si vuol vendicare di tutte le forme di vita potente, basate sull’inuguaglianza. Nietzsche polemizza così non soltanto contro le correnti moderne, come la Rivoluzione francese, Rousseau, il Socialismo e la Democrazia, ma anche altrettanto contro il Cristianesimo, con la sua concezione dell’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio. Con questo Nietzsche si oppone nel modo più accanito alla tradizione occidentale e alla concezione tradizionale di giustizia. Quanto più potente è una vita che crea e imprime la sua impronta, quanto più assumerà l’ineguaglianza degli uomini nel suo nuovo sistema di valori.

Ovviamente queste considerazioni possono lasciarci perplessi, in quanto ricordano le polemiche dei tardi sofisti contro i quali combatterono Socrate e Platone. E sicuramente mettono in evidenza un animo di Nietzsche contrario alla visione democratico occidentale, pur partendo da una forte affermazione dell’idea di libertà.

Senza voler negare questo aspetto (di cui riparleremo; qualcuno infatti ha cercato di negarlo, dando luogo a un vivace dibattito critico), le idee di Nietzsche vanno approfondite. Sembrerebbe infatti che il suo ragionamento va incontro alla stessa contraddizione dei vecchi sofisti: se la legge è solo un’arma dei più deboli per imbrigliare i più forti, perché questi ultimi glielo permettono? Evidentemente nell’azione dei più deboli è presente una grande efficacia, una forza e un’energia con la quale, mossi dalla disperazione, riescono a non essere dominati. Dunque, anche l’idea di giustizia, che vorrebbe rappresentare un’ideale morale oggettivo, in realtà sono espressione di unavolontà di potenza, esercitata dai più deboli per evitare quel destino cui la natura di per sé li condannerebbe. Anche l’idea di giustizia, fra l’altro, ricadrebbe in “quell’umano troppo umano” del quale abbiamo parlato due volte fa.

Nietzsche è comunque convinto che la volontà di potenza comporti la pratica del dominio e della prevaricazione, in quanto si inserisce nella guerra inevitabile tra tutte le realtà individuali, dovuta all’irrequietezza stessa della vita, al non potere star fermi, al voler creare valori che, inevitabilmente, devono essere imposti ad altri.

Da Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra:

«1. Quando tra i marinai si diffuse la voce che Zarathustra era sulla nave – con lui infatti era salito a bordo un uomo che veniva dalle isole Beate ­ – nacque grande curiosità e attesa. Ma Zarathustra tacque per due giorni, freddo e sordo di melanconia, sì da non rispondere né agli sguardi né alle domande. Alla sera del secondo giorno, però, egli riaprì le sue orecchie, sebbene tacesse ancora: si potevano infatti udire molte cose insolite e pericolose su questa nave, che veniva da lontano e andava ancor più lontano. Zarathustra, a sua volta, era un amico di tutti quelli che fanno lunghi viaggi e a cui non piace vivere senza pericolo. Ed ecco che, a forza di ascoltare, gli si sciolse la lingua e si ruppe

il ghiaccio intorno al suo cuore – allora cominciò a parlare così: “A voi, temerari della ricerca e del tentativo, e a chiunque si sia mai imbar­cato con ingegnose vele su mari terribili, – a voi, ebbri di enigmi e lieti alla luce del crepuscolo, a voi, le cui anime suoni di flauto inducono a perdersi in baratri labirintici: – giacché voi non volete con mano codarda seguir ten­toni un filo; e dove siete in grado di indovinare vi è in odio il dedurre – a voi soli racconterò l’enigma che io vidi, -la visione del più solitario tra gli uomini. Cupamente andavo, or non è molto, nel crepuscolo livido di morte, – cupo, duro, le labbra serrate. Non soltanto un sole mi era tramontato. Un sentiero, in salita dispettosa tra sfasciume di pietre, maligno, solitario, cui non si addicevano più né..erbe né cespugli: un sentiero di montagna digri­gnava sotto il dispetto del mio piede. Muto, incedendo sul ghignante crepitio della ghiaia, calpestando il pietrisco, che lo faceva sdrucciolare: così il mio piede si faceva strada verso l’alto. Verso l’alto: – a dispetto dello spirito che lo traeva in basso, in basso verso abissi, lo spirito di gravità, il mio demonio e nemico capitale. Verso l’alto: – sebbene fosse seduto su di me, metà nano; metà talpa; storpio; storpiante; gocciante piombo nel cavo del mio orecchio, pensieri-gocce­di-piombo nel mio cervello. «O Zarathustra, sussurrava beffardamente sillabando le parole, tu, pietra filosofale! Hai scagliato te stesso in alto, ma qualsiasi pietra scagliata deve ­cadere! O Zarathustra, pietra filosofale, pietra lanciata da fionda, tu che frantumi le stelle! Hai scagliato te stesso così in alto, – ma ogni pietra scagliata deve cadere! Condannato a te stesso, alla lapidazione di te stesso: o Zarathustra, è vero: tu scagliasti la pietra lontano, – ma essa ricadrà su di te!».

Qui il nano tacque; e ciò durò a lungo. Il suo tacere però mi opprimeva; e l’essere in due in questo modo è, in verità, più solitudine che l’essere solo!

Salivo, – salivo, – sognavo, – pensavo: ma tutto mi opprimeva. Ero come. un malato: stremato dal suo tormento atroce, sta per dormire, ma un sogno, più atroce ancora, lo ridesta. ­ Ma c’è qualcosa che io chiamo coraggio: questo finora ha sempre ammaz­zato per me ogni scoramento. Questo coraggio mi impose alfine di fermarmi e dire:

«Nano! O tu! O io!». Coraggio è infatti la mazza più micidiale, coraggio che assalti: in ogni assalto infatti è squilla di fanfare. Ma l’uomo è l’animale più coraggioso: perciò egli ha superato tutti gli altri animali. Allo squillar di fanfare egli ha superato anche tutte le sofferenze; la sofferenza dell’uomo è, però, la più profonda di tutte le sofferenze. Il coraggio ammazza anche la vertigine in prossimità degli abissi: e dove mai l’uomo non si trova vicino ad abissi! Non è la vista già di per sé un ­vedere abissi? Coraggio è la mazza più micidiale: il coraggio ammazza anche la compas­sione. Ma la compassione è l’abisso più fondo: quanto l’uomo affonda la sua vista nella vita, altrettanto l’affonda nel dolore. Coraggio è però la mazza più micidiale, coraggio che assalti: esso ammazza anche la morte, perché dice: «Questo fu la vita? Orsù! Da capo!».

Ma in queste parole sono molte squillanti fanfare. Chi ha orecchi, intenda.»

L’eterno ritorno

Il terzo concetto fondamentale della filosofia di Nietzsche, che si affianca a quelli di superuomo e di volontà di potenza, è quello di eterno ritorno. E’ un concetto complesso, che sembra reintrodurre un’impostazione metafisica dalla quale invece Nietzsche intende rimanere lontano.

La tematica dell’eterno ritorno è al centro delle ultime tre parti dello Zharatustra e completa l’immagine della realtà che Nietzsche vuole comunicarci in quest’opera – immagine che, come abbiamo detto, è definitiva -. Il modo migliore per comprenderla e leggere la parabola che la esprime e, successivamente, commentarla. Prima però è bene darne una sintesi teorica:

la dottrina dell’eterno ritorno dell’eguale non è nuova in filosofia; si tratta dell’idea che il tempo tenda a ripetere in eterno se stesso, riproponendo, secondo un periodare ciclico, sempre gli stessi avvenimenti. Questa idea di distruzione e ricreazione degli stessi identici cosmi in periodi infiniti appartiene già alla filosofia più antica e trova la migliore giustificazione metafisica nella cosmologia degli stoici.

E’ evidente però che Nietzsche – pur mantenendo come al solito la sua ambiguità e disinteressandosi a rendere tutto concettualmente chiaro per il lettore – non vuole imporre una nuova immagine metafisica del tempo. Egli vuole fare qualcosa di più profondo: indicare il modo in cui deve essere concepito il tempo nell’epoca della morte di Dio, in quanto solo una certa concezione del tempo è coerente con la nuova immagine del superuomo.

E’ inutile quindi porsi la domanda se per Nietzsche gli eventi che accadono nel mondo sono sostanzialmente sempre gli stessi o se egli pensa alla ripetizione eterna di sempre gli stessi minimi atti, in quanto Nietzsche non si pronuncia mai in modo chiaro su questo.

L’eterno ritorno si giustifica unicamente a partire dalla figura del superuomo e della sua qualità più alta, la volontà di potenza. Da una parte, il superuomo ama la vita in tutte le sue forme, secondo quello spirito dionisiaco descritto nella prima opera che Nietzsche ha ormai pienamente recuperato. Tutti gli aspetti della vita, anche quelli apparentemente meno positivi o orrendi, gli paiono manifestazioni della ricchezza della vita stessa; egli è dunque portato a volere e ad amare tutto ciò che la vita produce e, quindi, a desiderare un continuo riproporsi di ciò che la vita ha realizzato.

Ma c’è anche un altro aspetto: rifiutando il mondo di Dio, il superuomo respinge i concetti di creazione e di salvezza. Il mondo non è creato, quindi non ha un padrone, un controllore e, di conseguenza, non ha un senso o un significato cui è destinato. Di conseguenza, non ha senso parlare di un tempo che ha avuto un inizio e di un tempo che ha avuto una fine; nell’ottica cristiana, se noi pensiamo al momento presente come un punto, abbiamo una direzione – il passato – molto lunga ma comunque finita, in quanto ha il suo inizio con la creazione; e un’altra linea che è il futuro, che guarda al giudizio finale come la fine dei tempi.

Per il superuomo, invece, questi due segmenti sono infiniti; ma – afferma Nietzsche – se tutto il tempo passato è infinito (e quindi è già tutto il tempo possibile)esso avrà dentro di se tutto ciò che è possibile che accada, quindi avrà dentro di sé tutto il futuro che deve ancora accadere e che, quindi, è già accaduto. Tutto ciò che accade, secondo la temporalità del superuomo, che non crede in un passato e futuro finiti, è già accaduto e, di conseguenza, non è che una continua ripetizione. La volontà di potenza, dunque, non è altro che volere che si compia ciò che la vita effettivamente gi compie; in questo consiste quindi il dire sì alla vita.

Da Così parlò Zarathustra

2. «Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte son io -: tu non conosci il mio pensiero abissale! Qy,esto – tu non potresti sopportarlo!». Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia. «Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sen­tiri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti – è un’altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: «attimo». Ma, chi ne percorresse uno dei due sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?». ­ «Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo» «Tu, spirito di gravità! dissi io incollerito, non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato e sono io che ti ho portato in alto! Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all’indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un’eternità. Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già per. corso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia – esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque – – anche se stesso? Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori – deve camminare ancora una volta! E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti , – non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta? – e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno?». Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pen­sieri e dei miei pensieri reconditi. E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare. Non avevo già udito una volta un cane ululare così?

Il mio pensiero corse all’indietro- Sì! Quand’ero bambino, in infanzia re­mota: – allora udii un cane ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa al­l’insù, tremebondo, nel più fondo silenzio di mezzanotte, quando anche i cani credono agli spettri: – tanto che ne ebbi pietà. Proprio allora la luna piena, in un silenzio di morte, saliva sulla casa, proprio allora si era fermata, una sfera incandescente, – tacita, sul tetto piatto, come su roba altrui: ­ ciò aveva inorridito il cane: perché i cani credono ai ladri e agli spettri. E ora, sentendo di nuovo ululare a quel modo, fui ancora una volta preso da pietà.

Ma dov’era il nano? E la porta? E il ragno? E tutto quel bisbigliare? Stavo sognando? Mi ero svegliato? D’un tratto mi trovai in mezzo a orridi macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna. Ma qui giaceva un uomo! E – proprio qui! – il cane, che saltava, col pelo irto, guaiolante, – adesso mi vide accorrere – e allora ululò di nuovo, urlò: – avevo mai sentito prima un cane urlare aiuto a quel modo? E, davvero, ciò che vidi, non l’avevo mai visto. Vidi un giovane pastore ro­tolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero pen­zolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e – lì si era abbarbicato mordendo. La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava – invano! non riu­sciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!», così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me – buono o cattivo – gri­dava da dentro di me, fuso in un sol grido. ­Voi, uomini arditi che mi circondate! Voi, dediti alla ricerca e al tentativo, e chiunque tra di voi si sia mai imbarcato con vele ingegnose per mari ine­splorati! Voi che amate gli enigmi! Sciogliete dunque l’enigma che io allora contemplai, interpretatemi la vi­sione del più solitario tra gli uomini! Giacché era una visione e una previsione: – che cosa vidi allor per simili­tudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire? Chi è il pastore, cui il serpente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l’uomo, cui le più grevi e le più nere tra le cose strisceranno nelle fauci? – Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente -: e balzò in piedi. ­Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, — e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora! ­

Così parlò Zarathustra»

Da Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza:

341. Il peso più grande. «Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un de­mone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!». Non ti rove­sceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha pal­rato? Oppure ha forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sa­rebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina?». Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «puoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’ altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?»